estratto da:
LA RICERCA DELLA FELICITA’
di Jiddu Krishnamurti
traduzione di VINCENZO VERGIANI
LA CONOSCENZA DI SE’
I problemi del mondo sono così colossali, così estremamente complessi, che
per comprenderli e risolverli bisogna affrontarli in maniera molto semplice
e diretta; ma, la semplicità, la risolutezza, non dipendono da circostanze
esterne, né da particolari pregiudizi e umori. La soluzione non si può
trovare attraverso conferenze e progetti, né può consistere nella
sostituzione dei vecchi capi con nuovi capi, o altre misure simili. La
soluzione è da cercare invece alla fonte del problema, ossia nel
responsabile della malvagità, dell’odio e dell’enorme incomprensione che
esiste fra gli esseri umani. Il responsabile di tale malvagità, la fonte di
tutti questi problemi, è l’individuo, siamo voi e io, non il mondo così come
siamo abituati a raffigurarcelo. Il mondo è il nostro rapporto con gli
altri, non qualcosa di separato da voi e me; il mondo, la società, è il
rapporto che stabiliamo o cerchiamo di stabilire fra ciascuno di noi.
Dunque, il problema siamo voi e io, e non il mondo, perché il mondo non è
altro che la proiezione di noi stessi e comprendere il mondo vuol dire
comprendere noi stessi. Il mondo non è separato da noi; noi siamo il mondo,
e i nostri problemi sono i problemi del mondo. Non mi stancherò mai di
ripeterlo, perché l’apatia è talmente radicata nella nostra mentalità che
pensiamo che i problemi del mondo non ci riguardino, che a risolverli ci
deve pensare l’ONU o che sia sufficiente sostituire i vecchi leader con
nuovi dirigenti. E’ una mentalità molto ottusa quella che ragiona così,
perché siamo noi i responsabili della spaventosa infelicità e confusione del
mondo, di questa minaccia costante di guerra.
Per cambiare il mondo dobbiamo partire da noi stessi; e
quel che conta nel partire da noi stessi è l’intenzione. L’intenzione che
deve guidarci è quella di comprendere noi stessi e di non lasciare soltanto
ad altri il compito di trasformare se stessi, o di produrre un cambiamento
limitato attraverso la rivoluzione, che sia di sinistra o di destra. E’
importante capire che è questa la nostra responsabilità, vostra e mia;
perché, per quanto piccolo possa essere il nostro mondo personale, se
riusciamo a trasformare noi stessi, schiudendo un orizzonte completamente
diverso nella nostra esistenza quotidiana, allora forse sapremo influire sul
mondo in generale, sulla rete estesa di rapporti con gli altri.
Cercheremo allora di scoprire il processo che conduce alla comprensione di
noi stessi e che non è un processo isolante. Non si tratta di ritirarsi dal
mondo, perché non si può vivere in isolamento. Essere vuol dire essere in
relazione, e il concetto stesso del vivere in isolamento è impensabile. E’
la mancanza di rapporti giusti che produce conflitti, infelicità, ostilità;
per quanto piccolo possa essere il nostro mondo, se riusciamo a trasformare
i rapporti all’interno di quel mondo ristretto, il risultato sarà come
un’onda che si ripercuote all’infinito verso l’esterno. Credo sia importante
capire questo punto, ossia che il mondo è fatto dei nostri rapporti, per
quanto limitati; e se riusciamo a produrre una trasformazione su quel piano,
una trasformazione non superficiale, ma radicale, allora avremo dato avvio a
una trasformazione attiva del mondo.
La vera rivoluzione non risponde a questo, o quel modello, di sinistra o di
destra: è invece una rivoluzione di valori, una rivoluzione che dai valori
di senso comune porta a valori che non sono di senso comune, né sono creati
dalle influenze ambientali. Per trovare questi veri valori che produrranno
una rivoluzione radicale, una trasformazione o rigenerazione, è essenziale
comprendere se stessi.
La conoscenza di sé è l’inizio della saggezza e,
dunque, l’inizio della trasformazione o rigenerazione.
Per comprendere se stessi ci deve essere l’intenzione di comprendere – ed è
lì che insorgono le prime difficoltà.
Benché la maggior parte di noi sia scontenta, pur
desiderando produrre un cambiamento improvviso, ci limitiamo a incanalare lo
scontento per conseguire un certo risultato; spinti dall’insoddisfazione, ci
cerchiamo un altro lavoro, o semplicemente ci pieghiamo alle pressioni
dell’ambiente circostante. Invece di infiammare le nostre menti, spingendoci
così a mettere in discussione la vita, l’intero processo dell’esistenza, lo
scontento viene incanalato, e di conseguenza diventiamo mediocri, perdiamo
quella intensità, quell’impulso a scoprire l’intero significato
dell’esistenza.
Perciò è importante scoprire queste cose autonomamente, perché
l’autoconoscenza non può essere trasmessa da altri, non si trova in alcun
libro. Dobbiamo scoprire, e perché ci sia scoperta, deve esserci
l’intenzione, la ricerca, l’esplorazione. Fin quando quell’intenzione di
scoprire, di investigare in profondità, è debole o inesistente, le
dichiarazioni di principio o il desiderio casuale di conoscere se stessi non
valgono un gran che.
Dunque, la trasformazione del mondo è prodotta dalla trasformazione di sé,
perché il sé è, al tempo stesso, prodotto e parte del processo totale
dell’esistenza umana. Per cambiare, è essenziale conoscere se stessi; senza
la conoscenza di quel che si è, manca una base su cui possa fondarsi il
retto pensiero, e senza l’autoconoscenza non può esserci trasformazione.
Bisogna conoscersi per quel che si è, non per some si desidera essere:
quest’ultima è un’immagine ideale, e dunque fittizia, irreale; solo ciò che
è può essere trasformato, non ciò che si desidera essere. Conoscersi per
quel che si è richiede una mente eccezionalmente vigile, perché ciò che è
subisce continui mutamenti e per seguirli tempestivamente la mente deve
essere svincolata da qualunque dogma o credenza o modello d’azione. Se si è
pronti a seguire qualunque evoluzione, l’essere vincolati non può che
costituire un impedimento.
Per conoscere se stessi, è necessaria la consapevolezza, la prontezza di una
mente libera da ogni credenza, da ogni idealizzazione, perché credenze e
ideali sono come un’ombra colorata che distorce la vera percezione. Se
volete conoscere ciò che siete, non potete immaginare, o coltivare,
l’illusione di qualcosa che non siete. Se sono avido, invidioso, violento,
il semplice credere nella nonviolenza e nell’altruismo serve a ben poco. Ma
sapere di essere avido o violento, saperlo e comprenderlo, richiede una
percettività straordinaria, non è così? Richiede onestà e chiarezza di
pensiero, mentre perseguire un ideale diverso da ciò che è costituisce una
fuga, che impedisce di scoprire e agire direttamente su ciò che si è.
La comprensione di ciò che si è – brutti o belli, malvagi o disonesti, non
importa – la comprensione di ciò che si è, senza infingimenti, è l’inizio
della virtù. La virtù è essenziale, poiché dà la libertà. E’ solo nella
virtù che si può scoprire, che si può vivere – ma non coltivando la virtù,
poiché questo non porta altro che rispettabilità. C’è differenza fra
l’essere virtuoso e il diventare virtuoso. L’essere virtuoso ha origine
dalla comprensione di ciò che è, mentre il diventare virtuoso è un modo di
temporeggiare, di sovrapporre ciò che si vorrebbe essere a ciò che si è.
Perciò, diventando virtuosi si evita di agire direttamente su ciò che è. Il
processo dell’evitare ciò che è coltivando l’ideale è ritenuto virtuoso; ma
se lo si considera attentamente e senza filtri, si vedrà che non è affatto
così.
E’ semplicemente un modo di rimandare il momento in cui ci si troverà faccia
a faccia con ciò che è. La virtù non è il divenire di ciò che non è; la
virtù è la comprensione di ciò che è e, dunque, la libertà da ciò che è. La
virtù è essenziale in una società che si sta rapidamente disgregando. Per
creare un mondo nuovo, una nuova struttura che si distacchi dalla vecchia,
deve esserci libertà di scoperta; e per essere liberi, deve esserci virtù,
perché senza virtù non può esserci libertà. Può l’uomo immorale che si
sforza di diventare virtuoso arrivare mai a conoscere la virtù? L’uomo che
non è morale non potrà mai essere libero e, di conseguenza, non potrà mai
scoprire che cos’è la realtà.
La realtà può essere colta solo attraverso la comprensione di ciò che è; e
per comprendere ciò che è, deve esserci libertà, libertà dalla paura di ciò
che è.
Per comprendere tale processo, è necessario che ci sia l’intenzione di
conoscere ciò che è, seguire ogni pensiero, sentimento e azione; è
estremamente difficile comprendere ciò che è, poiché non è mai immobile, mai
statico, ma sempre in movimento. Ciò che è, è ciò che voi siete, non ciò che
vi piacerebbe essere; non è l’ideale, perché l’ideale è fittizio, ma è
invece quel che fate, pensate e sentite attimo per attimo. Ciò che è, è il
reale, e comprendere il reale richiede consapevolezza, una mente molto
vigile, molto pronta. Ma, se cominciamo a condannare ciò che è, se
cominciamo a criticarlo, o a opporci ad esso, allora non ne comprenderemo il
movimento. Se voglio capire qualcuno, non posso assumere un atteggiamento di
condanna nei suoi
confronti:
devo osservarlo, studiarlo, devo amare l’oggetto della mia indagine. Se
volete capire un bambino, dovete amarlo e non biasimarlo. Dovete giocare con
lui, osservare i suoi movimenti, le sue idiosincrasie, le sue modalità di
comportamento; ma se vi limitate a biasimarlo, se vi opponete a lui e lo
rimproverate, allora non sarete in grado di comprenderlo. Allo stesso modo,
per comprendere ciò che è, bisogna osservare i propri pensieri, sentimenti e
azioni attimo per attimo. Questo è il reale. Qualunque altra azione,
qualunque azione ideale o ideologica, non è il reale; è semplicemente un
desiderio, un’aspirazione illusoria a essere qualcosa di diverso da ciò che
è.
Comprendere ciò che è richiede uno stato mentale in cui non siano presenti,
né identificazione, né condanna, il che implica che la mente sia vigile e
tuttavia passiva. Siamo in quello stato quando realmente desideriamo, o
capiamo qualcosa; quando è presente l’intensità dell’interesse, si realizza
allora quello stato mentale. Quando si è interessati a comprendere ciò che
è, ossia l’effettivo stato della mente, non si ha necessità di forzarlo,
disciplinarlo, o controllarlo; al contrario, c’è un’attenzione vigile, ma
passiva. Questo stato di consapevolezza si realizza quando c’è l’interesse,
l’intenzione di comprendere.
La fondamentale comprensione di sé non si ottiene attraverso la conoscenza o
attraverso l’accumulazione di esperienze, che è semplicemente l’esercizio
della memoria. La comprensione di sé si realizza attimo per attimo; se ci
limitiamo ad accumulare la conoscenza di noi stessi, quella stessa
conoscenza impedisce ogni ulteriore comprensione, perché la conoscenza e
l’esperienza accumulate divengono il centro nel quale il pensiero converge e
trova esistenza. Il mondo non è diverso da noi e dalle nostre attività: è in
ciò che siamo, infatti, che hanno origine i problemi del mondo; per la
maggior parte di noi la difficoltà consiste nel fatto che non abbiamo una
conoscenza diretta di noi stessi, ma cerchiamo un sistema, un metodo, una
modalità d’azione attraverso cui risolvere i numerosi problemi umani.
Ma esiste un mezzo, un sistema per conoscere se stessi? Qualunque persona
intelligente, qualunque filosofo, può inventare un sistema, un metodo; ma è
evidente che l’adesione a un sistema potrà esclusivamente produrre un
risultato che è frutto di quel sistema. Se seguo un particolare metodo per
conoscere me stesso, avrò il risultato che quel sistema rende inevitabile;
ma è chiaro che tale risultato non sarà la comprensione di me stesso. In
altri termini, seguendo un metodo, un sistema, una teoria per conoscere me
stesso, plasmo il mio pensiero, le mie attività secondo un modello; ma
seguire un modello non vuol dire comprendere se stessi.
Dunque non esiste alcun metodo che conduca all’autoconoscenza. Cercare un
metodo implica invariabilmente il desiderio di conseguire un risultato – ed
è proprio questo che tutti noi vogliamo. Seguiamo l’autorità – se non quella
di una persona, quella di un sistema, di un’ideologia – perché desideriamo
un risultato che sia soddisfacente, che ci dia sicurezza. In realtà non
vogliamo conoscere noi stessi, i nostri impulsi e reazioni, l’intero
processo del nostro pensiero, il conscio e l’inconscio; siamo invece
piuttosto propensi ad abbracciare un sistema che ci assicuri un risultato.
Ma l’adesione a un sistema è invariabilmente il risultato del nostro
desiderio di sicurezza, di certezze, e ovviamente il risultato non è certo
la comprensione di sé. Quando seguiamo un metodo, dobbiamo avere delle
autorità – l’insegnante, il guru, il salvatore, il Maestro – che ci
garantiscano il conseguimento di ciò che desideriamo; e certamente non è
questa la strada che conduce all’autoconoscenza.
L’autorità impedisce la comprensione di sé, non è così? Trovare rifugio
presso un’autorità, una guida, può dare un senso temporaneo di sicurezza, di
benessere, ma questa non è certo la comprensione del processo globale del
sé.
Per sua stessa natura l’autorità impedisce la piena consapevolezza di sé e
perciò, in definitiva, distrugge la libertà, che è condizione essenziale
perché possa esserci creatività. E solo attraverso l’autoconoscenza può
svilupparsi la creatività.
La maggior parte di noi non è creativa; siamo macchine ripetitive, dischi
che suonano in continuazione le stesse canzoni dell’esperienza, le stesse
conclusioni e memorie, nostre o altrui. Una simile ripetitività non è
dell’essere creativo – ma è ciò che vogliamo. Poiché desideriamo la
sicurezza interiore, siamo costantemente alla ricerca di metodi e strumenti
per raggiungerla ed è per questo che creiamo l’autorità, l’adorazione di
qualcosa che è altro da noi, distruggendo così la comprensione, quella
spontanea tranquillità della mente che sola rende possibile uno stato di
creatività.
Certo, la nostra difficoltà sta nel fatto che la maggior parte di noi ha
perso questo senso di creatività. Essere creativi non significa dipingere
quadri o scrivere poesie e diventare famosi. Quella non è creatività, è
semplicemente la capacità di esprimere un’idea, che il pubblico apprezza o
non apprezza. Non bisognerebbe confondere il talento con la creatività.
Quest’ultima è uno stato dell’essere alquanto differente dal talento, uno
stato in cui il sé è assente, in cui la mente non funge più da centro delle
nostre esperienze e ambizioni, dei nostri sforzi e desideri.
La creatività non è uno stato continuo, ma si rinnova attimo per attimo, è
un movimento in cui non c’è né l'”io”, né il “mio”, in cui il pensiero non è
concentrato su alcuna particolare esperienza, ambizione, risultato, fine o
motivazione. Soltanto quando il sé si annulla, si realizza la creatività –
quello stato dell’essere che solo rende possibile la realtà, quello stato
che è creatore di tutte le cose. Ma tale stato non può essere concepito o
immaginato, non può essere formulato o copiato, non può essere conseguito
attraverso alcun sistema, alcuna filosofia, alcuna disciplina; al contrario,
si realizza soltanto attraverso la comprensione del processo totale del sé.
La comprensione di sé non è un risultato, un punto di arrivo; è il vedersi
attimo per attimo nello specchio dei rapporti – i propri rapporti con la
proprietà, le cose, le persone, le idee. Ma troviamo difficile essere
vigili, essere consapevoli, e preferiamo ottundere le nostre menti
abbracciando un metodo, accettando l’autorità, accogliendo superstizioni e
teorie gratificanti; in tal modo le nostre menti si logorano, si
esauriscono, diventano insensibili. Una mente in queste condizioni non può
essere in uno stato di creatività, che si produce solo quando il sé, ossia
il processo di riconoscimento e accumulazione, si arresta; la coscienza,
infatti, in quanto “io”, è il centro del riconoscimento, e il riconoscimento
non è altro che il processo di accumulazione dell’esperienza. Ma abbiamo
tutti paura di non essere nulla, perché desideriamo tutti essere qualcosa.
Il piccolo uomo vuole essere un grand’uomo, il peccatore vuol essere
virtuoso, l’individuo debole e anonimo sogna il potere, il prestigio e
l’autorità. E’ questo che tiene la mente incessantemente in attività. Ma una
mente in queste condizioni non può essere tranquilla e, di conseguenza, non
potrà mai comprendere lo stato di creatività.
Per cambiare il mondo che ci circonda, con la sua infelicità, le guerre, la
disoccupazione, la fame, le divisioni di classe e la confusione estrema,
dobbiamo realizzare un cambiamento in noi stessi. La rivoluzione deve avere
inizio dentro di noi – ma non seguendo una fede o un’ideologia, perché è
evidente che una rivoluzione la quale si fondi su un’idea o si conformi a un
particolare modello non è affatto una rivoluzione. Per produrre una
rivoluzione fondamentale dentro di sé, bisogna comprendere il processo
complessivo dei propri pensieri e sentimenti all’interno dei rapporti. E’
questa l’unica soluzione a tutti i nostri problemi – non quella di avere
ancora altre discipline, altre credenze, altre ideologie, altri maestri. Se
riusciamo a comprendere noi stessi Così come siamo attimo per attimo, al di
là del processo di accumulazione, allora vedremo sopraggiungere una
tranquillità che non è un prodotto della mente, una tranquillità che non è
né immaginata, né coltivata; e solo in tale stato di tranquillità può
esserci creatività.
Lascia un commento