La Convinzione

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La Convinzione

È possibile la certezza nell’età del dubbio?

di Ravindra Svarupa Dasa

“Le tradizioni teistiche possono avere teorie differenti su Dio e su chi Lo adora, ma, per quanto io
possa constatare, la spiegazione più semplice e chiara della certezza sperimentata ovunque da
religiosi elevati si trova nella comprensione di atma-Pramatma.”

Il dubbio è il motore della mentalità moderna, l’infaticabile macchina che guida lo spirito nella
nostra era. Il dubbio fu onorato con un primo riconoscimento nei saggi di Michel de Montaigne,
gentiluomo di corte del Rinascimento: “Noi siamo, non so come, duplici dentro di noi, con il
risultato che non crediamo a quello in cui crediamo e non siamo capaci di liberarci da quello che
condanniamo.” Ai tempi di Montaigne l’Europa era lacerata da guerre di religione d’intollerabile
crudeltà. La certezza assoluta propria dei furiosi antagonisti cominciò a inquinare l’idea stessa di
convinzione, ma Montaigne vide più in profondità. Egli screditò la doppiezza che si annida nelle
certezze dei fautori della religione.

Nel loro zelo egli riconobbe un tipo di copertura, un eccesso di compensazione per una mancanza di
fede celata e non riconosciuta: “Noi non crediamo a quello in cui crediamo.” Nei tempi moderni,
l’incredulità è entrata così profondamente nell’essenza della nostra esistenza che sia la mancanza
di fede sia la fede sono fondamentalmente diventate due tipi di mancanza di fede. È la segreta
mancanza di fede dei veri credenti che arma gli eserciti della notte nella poesia di Mattew Arnold
“Dover Beach” del 1867:

Il Mare della Fede,
era pure, un tempo, in alta marea e attorno
alle rive della Terra giaceva, racchiuso
come le pieghe di una cintura risplendente.
Ma adesso altro non sento
Che la sua malinconia, un lungo ruggito,
E siamo qui, come in una piana che s’oscura
sbattuti tra confusi allarmi di lotte e fughe,
dove eserciti ignoranti si scontrano nella notte.

William Butler Yeats, nella sua poesia profetica e apocalittica “Il Secondo Avvento” del 1919, fa
affermazioni infauste:

Crolla ogni cosa; il centro più non tiene;
Anarchia pura esplode contro il mondo;
La sanguigna marea s’innalza e ovunque
La cerimonia d’innocenza è spenta;
Manca ai migliori ogni convincimento
E nei malvagi più intensa è la passione.

Altri naturalmente hanno celebrato l’incredulità – essa dà la liberazione – e hanno fatto proseliti.
Lasciate a Friedrich Nietzsche il compito di propagandare l’incredulità in forma di pillole non
facili da inghiottire: “Le convinzioni sono nemiche della verità ancora più pericolose delle
menzogne.” (Aforisma 483, Human, All Too Human, 1878) Accadde così che io, con un comportamento
infantile e “fin troppo umano”, inghiottii la pillola. Servivo l’altare del dubbio. L’incredulità
era divenuta il mio credo. Ci sono voluti sei anni di accademia perché mi rendessi conto che
l’incredulità – scetticismo, relativismo, nichilismo – di per se stessa era diventata un dogma.
Tutte le facoltà di religione s’impegnavano nell’ermeneutica del dubbio. Ammettere una qualsiasi
convinzione in contrasto con la sfiducia verso tutte le convinzioni era andare in cerca di un
anatema.

Tutti si univano in coro per inneggiare ad una fede incrollabile nella mancanza di fede. Questo
dogmatismo cominciò ad affliggermi. C’era qualcosa di sbagliato su cui riflettevo con irritazione. E
poi il mio salto in avanti: noi scettici sbagliavamo a dubitare. Abbiamo sbagliato a far avanzare
così tanto il nostro dubitare. Se abbiamo intenzione di essere totalmente scettici, allora dobbiamo
essere scettici anche sul nostro scetticismo. Se tutto è relativo, anche il nostro relativismo deve
essere relativo. Riferii il mio caso durante una riunione informale alla facoltà di religione. “Ti
devi sentire come se camminassi su una fune sopra un abisso,” rispose una collega laureata,
diventata monaca da poco. “Sì, ma non sono sicuro nemmeno che ci sia la corda,” dissi. Tutti risero.
Cerchiamo di essere abbastanza coraggiosi da rimuovere il terreno su cui poggiamo e levitare
miracolosamente sul nulla.

DUBITARE DEL NOSTRO DUBITARE

Ed ecco che il cerchio si chiude. Dubitando del nostro stesso dubitare troviamo che ci attende una
sorpresa: si apre una sottile fessura che rende possibile la fede. Solo una possibilità. Anche meno
– solo l’apertura alla possibilità. Questa si rivela essere una fessura attraverso cui anche Dio può
insinuarsi. Una cosa porta ad un’altra. Alcuni anni dopo il manifestarsi di questa fessura mi unii –
non cesserò mai di meravigliarmene – a una “religione organizzata” molto severa. Una religione
impegnata nella predica. Definita da un accademico come “induismo evangelico”. (Questa espressione,
sistematicamente inesatta, questa volta è esatta.) Poi venne il momento, quindici o venti anni dopo,
in cui mi resi conto di essere totalmente e completamente sicuro che, come si dice: “Dio esiste”.
(Questa espressione, sistematicamente inesatta, questa volta è esatta)

Non mi limitavo a sostenere che l’esistenza di Dio potesse essere un caso possibile, che “Dio
esiste” potesse essere ragionevolmente affermato e che questa affermazione fosse vera (naturalmente)
con la possibilità che potesse anche essere falsa. Niente affatto. Ne ero assolutamente, totalmente
certo. Questo mi sconvolgeva. Tuttavia sono una persona moderna. Aggredii la mia convinzione: come
posso essere così sicuro? Che diritto avevo di esserne così certo? Com’era possibile? Ero
qualificato ad avere un grado così elevato di certezza? Che cosa c’era di sbagliato in me?

Attaccai anche la mia fede, ma essa respinse i miei assalti. Non riuscivo a smuoverla. Era come se
fosse lì da sola, una realtà irrevocabile; che non dipendeva da me. Esposi il problema ad alcuni
devoti assennati. “È la misericordia senza causa di Krishna,” disse uno. “È un dono,” disse un
altro. Una laureata in filosofia che aveva insegnato teologia cristiana a studenti di teologia, citò
una distinzione tra certezza e convinzione. Questi colloqui diedero sollievo alla mia ansia
permettendomi di accettare questo dono con tutto il cuore. Tuttavia – non per guardare in bocca al
cavallo donato – mi sentivo ancora spinto a comprendere meglio quello che mi era stato dato.

UN PUNTO SICURO DA CUI INIZIARE

Iniziai la mia ricerca con questa domanda: esiste qualcosa di cui ogni persona può essere
assolutamente certa? La domanda, naturalmente, mi riportò alle origini della modernità, al vero
“padre della filosofia moderna” Renée Descartes, che aveva trasformato il dubbio di Montaigne in una
metodologia. Spazzando via, nel suo Discorso sul Metodo, tutto ciò che è oggetto di dubbio, era
rimasto solo con la sua indubitabile esistenza di entità capace di conoscere. Poteva dubitare di
tutto eccetto del fatto che stava dubitando. Cogito ergo sum, fu la sua famosa definizione: “Penso
quindi sono.” Descartes spiegò che con il termine “pensiero” egli intendeva “quello che accade in me
e di cui sono immediatamente cosciente, nella misura in cui ne sono cosciente.”

La sua esistenza di soggetto conoscente era assolutamente certa. Qui trovai il mio punto di
partenza: comincia da te stesso, come Descartes. In questo però, mi sembrò di poter essere più
chiaro di Descartes. Il “cominciare con me stesso” significa, per essere precisi, iniziare con
l’atman, il sé cosciente. Comunemente usiamo il termine “anima” o “anima spirituale” per indicare la
stessa entità, ma senza la stessa chiarezza di significato. La parola sanscrita atman (come radice)
o atma (al nominativo singolare) è un sostantivo che indica “il sé”. (La stessa parola serve anche
come pronome riflessivo, il “sé” nelle parole che indicano me stesso, te stesso, lei stessa e via
dicendo).

Quando realizzo, come fece Descartes, la mia coscienza, comprendo di essere consapevole, perlomeno
in qualche misura, dell’atman, di me stesso come essere vivente cosciente capace di fare esperienze,
che ora porta e anima un corpo e una mente materiali. Nei due decenni che precedettero la mia
ricerca su Cartesio, ero stato impegnato in pratiche spirituali dirette alla ricerca dell’atman. Per
tentare di comprendere la mia certezza relativa a Dio, cominciai a riflettere su quelle pratiche.
L’atma-tattva, la scienza del sé, al pari di ogni scienza, si presenta all’inizio come una teoria,
un tipo di quadro o mappa concettuale della realtà spirituale. Una teoria, come una mappa, è il
frutto dell’esperienza di ricercatori precedenti preparata per guidare gli esploratori successivi.

L’unico scopo della teoria è di guidare la pratica, proprio come una mappa stradale è fatta perché
un viaggio in automobile avvenga senza problemi. Inoltre, l’atma-tattva comprende istruzioni
pratiche su come intraprendere il viaggio spirituale e su come usare la mappa in modo corretto. In
questo senso essa è una scienza applicata che si occupa della purificazione e dell’espansione della
coscienza. Nella moderna filosofia occidentale non troviamo alcuna iniziativa di questo tipo.
Certamente la filosofia moderna specula senza fine sulla coscienza e sull’esperienza, sulla
conoscenza e sul conoscitore e il conosciuto, ma ha perso l’aspetto applicativo così importante
nelle antiche tradizioni classiche di Pitagora, Parmenide e Platone. Oggi non esiste alcun
particolare “modo filosofico di vivere”. È tutta un’altra cosa.

CONOSCENZA APPLICATA

Avevo accettato una tradizione indiana, che ora ritrovavo come il vero fondamento della filosofia
occidentale. Quando me ne resi conto sentii di essere tornato a casa. La conoscenza applicata, il
modo di vivere spirituale esige l’impegno in una disciplina abbastanza ardua e rigorosa. Questa si
chiama yoga. La disciplina è necessaria per rimuovere il velo materiale in modo da poter ottenere
un’esperienza diretta della realtà spirituale: dell’atma, il sé e del Paramatma, il Sé Supremo, Dio.
La necessità di una vita così disciplinata è specificata in modo sintetico nella Bhagavad-gita
(14.17): la conoscenza spirituale dipende dalla virtù, dal sattva. Se la nostra consapevolezza è
coperta dall’influenza materiale della passione (rajo-guna) e da quella dell’ignoranza (tamo-guna),
non avremo la possibilità di percepire direttamente né l’atma né il Paramatma.

Perciò noi che accettiamo questa concezione viviamo una vita regolata e molto semplice, intesa a
minimizzare le richieste dei sensi, a ridurre la lussuria, la collera, l’avidità e via dicendo. La
moderna cultura materialistica sostiene valori e attività che espandono le influenze della passione
e dell’ignoranza è dunque necessario isolarsi dalla sua influenza. La cultura spirituale ha invece
lo scopo di sviluppare la virtù e di ridurre la passione e l’ignoranza. Dopo alcuni decenni di
pratica dell’atma-tattva, la scienza del sé, la mia coscienza era diventata più chiara e si era
elevata. Avevo perlomeno ottenuto una certa consapevolezza della mia identità spirituale e, assieme
ad essa, di Dio. Un maestro di yoga di nome Kavi ha affermato (Srimad- Bhagavatam 11.2.42) che chi
pratica in modo appropriato sviluppa simultaneamente tre valori: la devozione, la diretta percezione
di Dio e il distacco da ogni altra cosa.

Questo accade nello stesso modo naturale con cui la soddisfazione, il nutrimento e il sollievo dalla
fame si manifestano insieme, ad ogni boccone, per colui che mangia. Nella disciplina dello yoga il
praticante realizza la propria identità di atma e inoltre incontra Dio inizialmente come Paramatma,
il Sé Supremo, guida interiore, il Sé di tutti i sé. In questa esperienza troviamo la chiave del
pensiero cartesiano. Perché conoscere Dio, il Paramatma, è come conoscere il nostro vero sé. Perciò
questa esperienza ingenera una certezza totale in colui che la fa. Poiché non si può dubitare della
propria coscienza, quando questa stessa coscienza si è in qualche modo espansa, Dio diventa
conosciuto come io conosco me stesso, perché Dio è il vero Sé del mio sé.

Non posso qiondi dubitare dell’esistenza di Dio più di quanto possa farlo della mia. Posso
naturalmente dubitare della mia esperienza relativa agli oggetti percepiti in questo mondo. È
possibile, notava Descartes, che una persona venga ingannata da qualche demone malvagio (qui egli
anticipava di circa quattrocento anni la premessa di Matrix). Anche in questo caso non si può essere
ingannati sulla propria coscienza. La conoscenza di Dio non è come la conoscenza del mondo esterno,
di questo tavolo su cui scrivo, del giardino che vedo dalla mia finestra, delle persone che si
rilassano in quel giardino. In questo caso io sono lo spirito che conosce la materia. C’è una
connessione molto più intima tra me e Dio: non solo l’atma e il Paramatma sono della stessa natura
spirituale, ma l’atma è parte del Paramatma.

Per questa ragione, una volta conseguita l’esperienza del Paramatma, diventa impossibile dubitare di
Dio. Dopo che la coscienza si è così espansa, Dio resta parte del contenuto di ogni esperienza che
ho. Sperimento il mio essere come parte dell’essere di Dio. Non che in questa esperienza io
percepisca qualcosa di nuovo, come un nuovo vicino di casa o l’ultima novità di Apple. Al contrario,
con la coscienza purificata ed espansa, percepisco ora quello che c’è sempre stato ed è rimasto
finora, semplicemente non avvertito, non conosciuto, e non riconosciuto. In questo stato di
coscienza espansa ho la consapevolezza di non poter vedere niente senza che lo veda prima Dio, di
non poter ascoltare niente senza che lo ascolti prima Dio e via dicendo. Non posso dubitare che Dio
veda e ascolti niente di meno di quello che vedo e ascolto io.

LA CERTEZZA NELLE ALTRE TRADIZIONI

L’esperienza di atma-Paramatma, che rende il dubitare dell’esistenza di Dio tanto impossibile quanto
il dubitare della propria, non è ovviamente una prerogativa alla mia tradizione religiosa o di altre
ad essa storicamente collegate. Una certezza naturale e incrollabile riguardo a Dio si è manifestata
in religiosi avanzati di molte tradizioni teistiche. Queste tradizioni possono avere teorie
differenti (dottrine teologiche) su Dio e su chi Lo adora, ma, per quanto posso constatare, la
spiegazione più semplice e chiara della certezza sperimentata ovunque da religiosi avanzati si trova
nella comprensione di atma-Paramatma. Possiamo anche concludere che siamo fatti per credere con
ferma convinzione. Non si può aggirare questa realtà. Qui si trova la base, a mio parere, di una
convinzione autentica che nasce dal dischiudersi del sé. Diversamente, sembriamo condannati a
verificare la riflessione di Montaigne: “Noi siamo, non so perché, duplici dentro.” Una convinzione
autentica può servire da antidoto agli attuali scontri globali tra i diversi modi di essere duplici:
una fede attiva che nasce dalla disperazione per la propria mancanza di fede e che si scontra con un
attivo scetticismo che nasce dalla negazione della propria fede.

Ravindra Svarupa Dasa, guru e GBC dell’ISKCON, vive al tempio di Filadelfia, dove nel 1971 si unì
all’ISKCON. Si è laureato in religione alla Temple University.

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