LA COSCIENZA DEL SÉ NEGLI UNIVERSI
di Antonio Bruno
per Edicolaweb
La consapevolezza del sé è, forse, la specificità più importante dell’essere umano. Ma, a pensarci
bene, questa asserzione potrebbe essere abbastanza parziale.
In effetti, noi non sappiamo affatto quanto effettivamente possano avere il “senso del sé” un cane,
un gatto, un cavallo o qualsiasi altra forma di vita.
La scienza è tuttora incapace di definire e spiegare questo concetto di individualità preferendo
demandare la questione alla filosofia o cercare, ancora una volta, una sbrigativa conclusione che
ricorre al cervello includendo il fenomeno della coscienza del sé fa le varie conseguenze
dell’attività elettrica neuronale di qualche etto di materia grigia racchiusa nella scatola cranica.
Un po’ come i sogni, la fantasia, il senso artistico, ecc., la nostra coscienza di esistere non
sarebbe altro che lo sviluppo più accentuato dell’emisfero destro del cervello o, comunque, una
qualche sorta di suo inganno.
Il fatto sta, però, che non è tuttora possibile definire con un inconfutabile processo empirico,
riproducibile in laboratorio, né la coscienza del sé né gli stati soggettivi dell’esistere e del
percepire che fanno di ognuno di noi un individuo unico ed irripetibile.
Questo è senz’altro il problema più grande nel caso si volessero considerare i possibili sviluppi
della clonazione.
A sentire molti ufologi, inoltre, se è vero che gli esseri che “pilotano” certi UFO altro non sono
che entità bio-meccaniche (forse integrate con la stessa astronave) frutto di un processo molto
simile alla clonazione, essi non possiedono però alcuna emozione né sensibilità. Sarebbero cioè,
completamente asettici nel loro agire, meri esecutori del programma al quale sono stati destinati.
Questo atteggiamento dei presunti occupanti degli UFO, in specifico nei casi di abduction, ha
portato molti a ritenere che si tratti di esseri crudeli, addirittura perfidi.
Ma il discorso potrebbe, come dicevamo, avere un’altra chiave di lettura. E si tratta di un discorso
che interessa la parte, diciamo così, “etica” della questione ufologia perché, una volta che abbiamo
stabilito che si ha a che fare con “qualcosa di intelligente”, diventa primario cercare di capirne i
canoni mentali e, se possibile, cosa li avvicinano allontana a noi dal punto di vista della vita
emotiva.
L’esempio dei suddetti esseri, che gli ufologi chiamano “grigi”, può pertanto adattarsi bene ad una
trattazione più ampiamente dedicata alla percezione dell’esistere.
Proprio come le impronte digitali, tutti abbiamo una coscienza ma, allo stesso tempo, ogni coscienza
è unica ed irripetibile.
La domanda che ne nasce potrebbe essere, a questo punto: come mai a noi esseri umani è consentita la
consapevolezza del sé?
Cos’è quel qualcosa che ci fa anelare ad una sorta di rincorsa a ritroso nel tempo e nel mondo delle
cause all’affannosa ricerca di un qualcosa che potremmo definire “inizio”?
O, forse, è una conseguenza inevitabile della coscienza del sé questo voler capire la propria
origine ed il proprio fine?
Viviamo forse in un universo che si sta interrogando su sé stesso…?
Come abbiamo visto più sopra, però, nessuno può sapere esattamente che grado di coscienza del sé
abbiano un cane, un cavallo o qualsiasi altra creatura.
Pertanto, la domanda andrebbe formulata meglio; diciamo più o meno così: a quale livello di
coscienza del sé scatta l’esigenza di interrogarsi sul proprio destino e sulla propria provenienza?
Qualcuno potrebbe pensare che è proprio questo porsi domande finalistiche la linea netta di
demarcazione fra gli esseri dotati di coscienza del sé quelli che non la possiedono. Per estensione,
se postulassimo che la coscienza del sé è un attributo dell’anima, sembrerebbe quasi logico che sia
solo l’uomo a possederla in quanto unico essere che si pone quesiti esistenziali.
Ma qualcosa non torna.
Chi mi dà il diritto di credere che la linea seguita dal mio percepire, dal mio stesso pensiero e
dal suo sviluppo sia l’unica patente di superiorità che mi consenta di ritenermi dotato di anima?
Perché io devo dirmi certo che il mio cane non abbia la percezione della sua singola individualità e
che, limitatamente a quanto il suo cervello gli consente di postulare (perché, non dimentichiamolo,
il cervello è solo uno strumento dell’anima!), non riesca a percepire la differenza fra quanto
accade a sé e quanto, invece, accade ad un altro cane?
Io ne possiedo quattro, di cani, e sovente mi capita di osservare le loro espressioni in una
svariata serie di contingenze. Quando, ad esempio, esprimono delusione e preoccupazione, nel caso
che uno di essi ritenga che io ho elargito più cibo ai suoi fratelli privando al contempo lui della
razione che gli sarebbe spettata. Pare che quello rimasto senza cibo si domandi: “Perché agli altri
sì e a me no?”
Ecco il punto: se la mia interpretazione delle emozioni canine è giusta, ecco che la coscienza del
sé esiste anche per i cani.
“Perché a me no?”, si chiede il cane: qui sta il suo grado di consapevolezza del sé, o meglio, qui
il cane lo tradisce e rivela.
Ho parlato di cani perché io ho rapporti quotidiani con questi stupendi animali ma sono sicuro che
il discorso si può estendere ad un gran numero di specie “superiori”.
Il concetto di “anima” torna ad affacciarsi alla mia mente e, tornando per un attimo all’uomo, non
possiamo dare per scontato, però, che possieda un’anima solo per la sua capacità di porsi quesiti
esistenziali, poiché sappiamo bene che esistono individui che trascorrono tutta la loro vita in
quello che potrei definire l’oblio del pensiero, l’obnubilazione dell’intelligenza, unicamente
protesi alla soddisfazione delle brame più immediate. Mentre ci sono animali i quali, se non per
quanto dicono ma per come si comportano, sembrano ben più “umani” di molti uomini!
Ora lascio volentieri spazio alla filosofia. Del resto, la consapevolezza di un’anima universale che
pervade il tutto e che si fraziona in infinite coscienze-forma, non credo possa essere appannaggio
di una sola categoria di pensatori.
Se nei mille universi, fra cui “galleggia” anche il nostro, la coscienza sia un fenomeno locale o
una peculiarità oggettiva lascio ad ognuno decidere. La mia certezza che sia vera la seconda ipotesi
è, lo so bene, una mia personale scelta “di cuore” che non potrà mai trovare spazio nei libri di
scienza.
Almeno… QUESTA scienza.
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