La dialettica e la sperimentazione
Le Chiavi Mistiche dello Yoga
di Guido Da Todi
Capitolo 53:
È indubbio che molti tra di noi, dopo aver letto le vite di alcuni santi tradizionali, siano comunque rimasti impressionati dall’ostilità insana che – a partire dal medio evo – invadeva costoro, nei confronti del proprio io, dei propri sentimenti, del proprio corpo.
Accanto a sovrane virtù teologali, spiccava, in molti di essi, un certo abituale disprezzo e – perchè no? – sadismo verso quell’angolo di universo (o, se preferiamo:” quell’angolo di Dio”) rappresentato da loro medesimi.
Sarebbe lungo enumerare ogni dettaglio dell’insanità di cui parlo. Molti di voi ben la conoscono. Disprezzo profondo verso l’io; brutali torture auto applicate, con cilici e diversi feroci strumenti;
inventive morbose a procurarsi un costante dolore fisico, ed ancora.
Ciò, indubbiamente, nasce dallo studio meticoloso sulla religiosità occidentale. Ma, anche quella orientale – pur se in minore misura – ha espresso tali istinti di profonda primordialità.
Il disprezzo del corpo fisico e delle sue esigenze, considerate una realtà ostile e nemica, involuta e frenante lo spirito ha scatenato le più brutali e ingiuste torture, ed assurdi autolesionismi, nei religiosi e nei laici di ogni tempo.
Nessuno di loro aveva il diritto di infierire contro il duttile e nobile strumento che è rappresentato dal veicolo che ci sincronizza con il vasto piano materiale: il corpo. E neppure con quell’amalgama serrato di sentimenti e di emozioni, con quella conchiglia in un costante atto di schiudersi, che era la loro personalità – emozionale, più che mentale (considerati i tempi e le evoluzioni secolari a cui ci riferiamo) -.
Del principe Gotamo, il Budda, esistono due tipi di iconografie tradizionali. Una di esse lo rappresenta, in molti templi orientali, sotto l’immagine . Si riferisce al periodo in cui l’Avatar perseguiva il suo ideale di ricerca dopo aver adottato il sistema dell’ascetismo e della tortura.
Le statue mostrano un viso scarno e sofferente; un torace rinsecchito, che rivela le costole evidenti;
uno sguardo quasi allucinato.
E, in effetti, Budda trascorse un lungo periodo di sofferenza e di isolamento dagli uomini, nel digiuno più assoluto e nelle sofferenze che applicava al suo corpo fisico ed al suo mentale, assieme ai propri discepoli.
Egli sperava e credeva che l’illuminazione si raggiungesse . Si dice, allora, che – mentre se ne stava rintanato in una grotta di quella foresta, durante tali pratiche dolorose – sentisse passare, lì accanto, un maestro di musica, con il proprio allievo.
“Vedi, figliolo” – diceva il primo, al secondo – “ esiste un principio fondamentale nell’arte di maneggiare l’archetto musicale. Se tenderai all’estremo le sue corde, ne sortirà un suono acuto e sgraziato; al contrario, se le lascerai molli e lente, il suono verrà fuori gonfio e sfatto. Il segreto, allora, sta nel dare alle corde di trazione. Che non dovrà essere nè troppo rigida, e neppure troppo cedevole.”
Si narra che Gotamo – grazie alla frase carpita casualmente – ricevesse l’illuminazione della
Giusta Via di Mezzo.
Tuttavia, scendiamo nella pratica applicazione dei principi che abbiamo sorvolato. E vediamo quanto essi, incredibilmente, coabitino – in una vasto assieme di sfumature – in quell’esplosione del Budda immanifesto, che è rappresentata da ognuno di noi, mentre segue, oggi, la strada della ricerca e della liberazione.
Cominciamo a considerare quel che sfugge a molti spiritualisti, vista l’ovvietà estrema del fenomeno: ossia, l’agitarsi costante degli automatismi della propria vita interiore, in un ciclo di ossessioni mentali, prese per affermazioni di verità.
Quanti di noi manipolano dei concetti universali, e li contrappongono ad altre logiche, senza – in fin dei conti – possedere un vero vissuto di queste essenze?
Una simile tendenza, in effetti, riproduce una forma di inconsapevole crudeltà verso la propria natura più intima, che esige, invece, una costante e piena sperimentazione; mentre, al contrario, viene nutrita da un ansito intellettuale, che soddisfa più la cornice che il quadro.
Vorrei pregarvi di non sottovalutare quanto è stato appena accennato. A ben pensarci, vi renderete conto che l’attardarsi – in uno sforzo quotidiano e prolungato nel tempo – a descrivere ciò che,
contemporaneamente, non costituisce un pieno riscontro individuale può arrivare a rappresentare la lama concreta che lacera sempre più il rapporto armonico tra il Reale e l’Irreale.
A buona ragione, il fenomeno può, dunque, essere posto in cima ad ogni inconscio autolesionismo psicologico.
Il grande silenzio della propria anima, trattenuto ed alimentato in sè, possiede quella musicalità autonoma e naturale che riempie, alla fine, i soggettivi spazi spigolosi di una solitaria dialettica individuale.
Osserviamo, ora – per quanto banale possa sembrare l’esempio – la crescita di un fiore, o lo sviluppo di un cucciolo selvatico, nelle foreste. Facendo tesoro di complessi istinti genetici, sia il
fiore che l’animale si sviluppano, maturano, evolvono seguendo degli istinti sani e liberi, in spazi vitali e propri.
Nel secondo caso – ove il fenomeno è visibile – solo se minacciato da un individuo più forte ed aggressivo, oppure dal capo branco, l’animale rivela sottomissione e servilità. Lasciato, invece, libero da intimidazioni, esso – in genere – si esprimerà liberamente, seguendo la via di minor resistenza dell’autonomia e dell’indipendenza.
Ciò, non avviene, in molti casi, nel consorzio umano. La mente – abile e subdola – è stata, da tanti uomini, messa in condizione di incravattare ed immobilizzare il proprio istinto naturale di sana autodeterminazione.
Da qui, la nascita di un altro subdolo lesionismo strisciante: l’espressione di una devozionalità, prona e non illuminata, verso altari, umani e non, che – perdonate i termini decisi – l’inconscio profondo vuole ed intende considerare come delle verso il proprio benessere spirituale (o, anche, materiale).
Il preciso ritmo cosmico offre, invece, e richiede dei riscontri rapidi – in risonanza alla Legge della mobilità universale – tra cosa e cosa, situazione e situazione, evoluzione ed evoluzione.
Un contatto tra il microcosmo ed il macrocosmo deve vivere solo il tempo necessario a provocarne
l’arco voltaico del Tao naturale; e, poi, rivolgersi ad altre esperienze produttive, dopo aver dato e ricevuto quanto la natura gli ha permesso di sperimentare, nella Sinfonia dei significati archetipici.
La (il Guru, la setta, la religione, ed ogni forma di rapporto statico e non dinamico) è la tendenza espressa da molti spiritualisti, oggidì.
Nessuno si è mai chiesto il perchè – quando, oramai, il legame sembrava divenuto assoluto ed eterno – la Legge divina abbia il Guru, l’Avatar, ed ogni altro sostegno ai propri discepoli e fedeli, lasciandoli – come narra la tradizione – affranti e disperati per la del proprio Idolo.
Eppure, bastava che essi avessero saputo guardare a fondo negli Insegnamenti sin lì ricevuti, per rendersi conto che l’unità della Vita divina rifiuta ogni tipo e natura di separatività.
Quindi, la seconda delle che l’uomo cova nel suo , e che gli causa quella sottile sofferenza riflessa ed inconscia, è il voler delegare la propria vita ad un supporto maggiore; il voler rinunciare alla dinamica individuale, per attardarsi, oltre un limite consentito e giusto, nel mandato di ogni sua creatività esclusiva.
Il rispetto e la stima di sè – rivolti con spontaneità al prossimo; il riconoscere, a fondo, che il flusso divino scorre nel proprio io, come in quello di ogni altra sia pur inconcepibile realtà evoluta; il percepire – anche vagamente – che il termine riguarda ogni frammento dell’esistenza, e, proprio in quanto tale, si esprime solo attraverso le forme relative del creato; e che, codeste (noi compresi), per quanta luce possano emanare, ne proporranno solo delle eterne apparenze relative e successive (compresi i Guru e gli Avatar); tutto ciò allineerà l’uomo ad un’individuale armonia con quanto esiste, e ad una creatività personale inimmaginabile.
Dobbiamo renderci conto che la vita possiede una semplice e sola qualità: quella dell’assolutezza.
Ora, considerato il significato del concetto, come possiamo illuderci che ogni apparente frammento dell’essere possa venire , prendendo a metro di analisi l’unica unità di misura che mai esista? Una misura impossibile da ?
Questo concetto – se vissuto sufficientemente – traina anche la stima, l’apprezzamento e la fiducia; non soltanto individuali e singoli, ma estese potenzialmente a tutto ciò che esiste. E, di conseguenza, la pace e la serena consapevolezza del .
Un fervido e pulsante assoluto risiede in noi ed in tutti gli esseri. E, prima ce ne renderemo conto, prima ci immergeremo – concretamente, veracemente, sacralmente – nella dell’unità, e della sola unità; senza cuspidi; che non è convessa, nè concava; che è ramo e tronco.
Forse, molti di voi penseranno che tutto ciò rappresenti un assieme di bei concetti e di ricamate teorie filosofiche. Ma, non è così.
Se oggetto di ponderata e quotidiana meditazione, il confine tra assoluto e relativo inizia, infine, a delinearsi nella nostra coscienza. In effetti, e senza forse rendercene conto, ci siamo calati nel nodo cruciale che ha dato origine ad ogni metafisica e a tutte le ricerche spirituali della tradizione.
Questi concetti sono sempre stati più forti dell’uomo stesso. Essi hanno mostrato di possedere un potere alchemico innato, che riesce, alla lunga, a trasformare la soggettività individuale.
Abbiamo parlato, nell’articolo, del passaggio necessario dell’uomo, dalla mente e dalla dialettica, alla sperimentazione; e della sua natura dinamica – che esprime il diretto legame con l’assoluto.
Ancora una volta il dell’universo soggettivo ci ha risucchiato verso la solita direzione:
l’Uno Tutto. Poichè, questo, celano – nel loro profondo significato – i concetti espressi sin qui.
Solo con lo sguardo dell’anima rivolto verso la dell’assoluto (chè, altro non si può ottenere) potrà iniziare ed accelerarsi quel processo destinato a coinvolgerci nell’Armonia fondamentale delle cose, levigando e disciogliendo ogni tendenza all’oscurità, all’errore, ed alla violenza verso noi stessi e verso gli altri.
Ed è in questo che Ramakrishna ha visto Dio. Ed è qui che noi anche lo vedremo.
(Guido Da Todi)
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