La dottrina del Cuore 2

pubblicato in: AltroBlog 0
La dottrina del Cuore 2

“La dottrina del Cuore”

di Eugenio Miccone

Parte seconda

– Le Quattro Nobili Verità –

Il Motivo centrale dell’Insegnamento del Buddha, ed il tema del Suo
primo discorso, è costituito dalle Quattro Nobili Verità (Catvâri
Aryasatyâni, Cattâri Aryasaccâni), che sono:

La Verità del Dolore: l’Esistenza condizionata è Dolore (Dukha); il
Buddha riassume questo insegnamento nelle parole: Samkhittena
pancupâdânakkandhâ dukkhâ: “In breve, i Cinque Aggregati
dell’attaccamento sono dolore”, significando che il Dolore non è una
entità metafisica, ma l’essenza stessa dei fattori che compongono
l’essere umano (e gli altri esseri dell’Universo), e che
l’attaccamento è la forza che mantiene uniti questi Aggregati di
Dolore.

La Verità dell’Origine del Dolore: il Dolore deriva dal Desiderio
egoistico, Tanhâ, che infatti sappiamo produrre Upâdâna,
l’attaccamento, e quindi l’esistenza condizionata nei Cinque
Aggregati. Tanhâ si basa sulla illusione di un “sé” separato, che essa
tende a rafforzare ed espandere, ma questa illusione, detta la “grande
eresia” è un aspetto di Avijjâ, e quindi inevitabile fonte di miserie
morali e fisiche.

La Verità della Cessazione del Dolore: il Dolore, come tutte le cose
condizionate, ha una origine e quindi deve avere una fine. Alcuni
chiamano questa “La Verità della Gioia” per sottolineare il fatto che
il Buddha non ha insegnato il pessimismo. L’origine e la fine del
Dolore son nell’Uomo: il Buddhismo non ammette cause esterne e quindi
non può accettare le varie vedute che attribuiscono il dolore ad una
punizione divina (religioni teiste) od al concorso di cause fortuite
ed incontrollabili (materialismo). Il dolore non può essere generato
che da cause che appartengono a quella atessa corrente karmica che
attualmente ha la “forma” di un dato essere umano; ed è questa stessa
corrente che ha in sé le possibilità di generare cause contrarie e di
giungere alla estinzione del dolore.

La Verità del Sentiero che conduce alla Cesszione del Dolore: Questa
espone il Sentiero mediano del Buddha, la Via che evita gli estremi
rappresentati da un malsano ascetismo e da una vita sregolata, il
Nobile Ottuplice Sentiero che consiste in:

Retta comprensione (Sammâ Ditthi): quando il discepolo vede “le cose
come esse sono” con chiara e limpida obbiettività e con serena
consapevolezza; quando comprende che cosa è male e quale l’origine di
questo; quando vede che cosa è bene e come questo si produce. Per il
Buddhista naturalmente la Retta Comprensione si concreta nel vedere la
realtà nelle sue tre caratteristiche di Impermanenza, Sofferenza,
Insostanzialità od Impersonalità, e nel verificare le Quattro Nobili
Verità, comprendendo l’operare della legge del Karma. Occorre
sottolineare che la Retta Comprensione (Sammâ Ditthi, Rette Vedute)
non implica la minima accettazione per fede dei dati della Dottrina
(Dhamma), ma al contrario esige la comprensione, possibile solo in un
clima di libertà di coscienza.
Retto Pensiero (Sammâ Sankappa): significa una giusta attitudine della
mente, il motivo fondamentale essendo il desiderio di aiutare tutti
coloro che soffrono. Il vero Buddhista si astiene dal male per
diminuire la somma di sofferenza che grava sul mondo ed il suo
pensiero, se è retto, è orientato vrso il più nobile degli ideali: la
Liberazione dal Dolore di tutto ciò che soffre.

Retta Parola (Sammâ Vâcâ): il vero Buddhista si astiene dal dire
quanto non sia vero, amorevole od utile. Christmas Humphreys dice: “Il
silenzio dovrebbe essere rispettato a tal punto che ogni parola che lo
rompe debba, nascendo, rendere il mondo migliore” (Buddhism, Pelican
Books, n. A 228).

Retta Azione (Sammâ Kammanta): la diretta conseguenza dei tre “passi”
precedenti ed il passo più importante su questo sentiero, dato che il
Buddhismo è una Religione di azione, non di credo. La Retta Azione si
esprime nella osservanza dei Cinque Precetti (Panca Sîlâ), ma questa
osservanza deve essere ispirata a Retta Comprensione e corrispondere
ad un Retto Pensiero. I Cinque Precetti (il numero è più grande per i
Membri dell’Ordine) sono:

Evitare di arrecare offesa o danno agli esseri viventi.
Evitare di prendere ciò che non è dato.
Evitare ogni atto sessuale immorale.
Evitare di dire il falso.
Evitare cibi o bevande inebrianti od intossicanti.

Retti Mezzi di Sussistenza (Sammâ Ajîva): non è Buddhista chi vive
sfruttando esseri senzienti od esercitando mestieri incompatibili con
la Morale Buddhista, espressa dai Cinque Precetti.

Si diviene formalmente Buddhisti prendendo l’impegno di osservare
questi Cinque Precetti. (18)

Retto Sforzo (Sammâ Vâyâma): questo è un requisito vitale, un appello
ad uno strenuo esercizio delle virtù Buddhiste, una virile attitudine
ben diversa dalla “apatia” che i pregiudizi occidentali attribuiscono
ai Buddhisti. Questo Retto Sforzo può non manifestarsi in clamorose
imprese, più pubblicitarie che efficaci se non tagliano il male alla
radice, ma è nondimeno intenso, ed è l’unico capace di portare al
superamento del dolore e della miseria. Chi appena abbia mosso qualche
passo su questo sentiero sa quale impegno e quale strenua diligenza
sono richiesti da una Disciplina che non addita all’Uomo nessun
salvatore e nessuna speranza al di fuori di lui stesso.

Tradizionalmente Sammâ Vâyâma è articolato come segue:

Evitare che il male sorga;
Superare quello che è già sorto;
Sviluppare virtù non ancora possedute;
Conservare e rafforzare le buone qualità già acquisite.

Retta Consapevolezza (Sammâ Sati): questa è la base ed il cuore della
Disciplina spirituale del Buddhismo. È la via alla conoscenza di se
stessi es alla Contemplazione della Verità. È definita dal Buddha
“l’unica Via” (ekâyano maggo) che conduce alla purezza, alla pace, al
Nibbâna. È la limpida, chiara, piena consapevolezza di quello che noi
siamo e di come siamo, che penetra fin nei più profondi livelli della
coscienza e che non lascia in ombra nessun pensiero, nessun motivo sia
pure inconscio, nessun desiderio, di tutti questi definendo
esattamente la natura. Sammâ Sati rappresenta un alto livello di
chiarezza mentale ed è lo strumento principale della Ascesi Buddhista,
basata sulla conoscenza e sulla realizzazione personale, non sulla
fede cieca e sulla altrui esperienza.

( Su questo argomento torneremo più avanti in una apposita sezione).

Retta Concentrazione (Sammâ Samâdhi): questa è la unità interiore
raggiunta quando tutto l’essere umano vive all’unisono col Dhamma, in
armonia con la Verità.

Le Otto Sezioni del Sentiero vengono raggruppate secondo tre soggetti
fondamentali: Sîla (Disciplina Etica), Samâdhi (Disciplina mentale) e
Pañña(Saggezza). Questi sono i Tre Fattori essenziali della disciplina
Buddhista; Sîla è basata sulla suprema qualità buddhica: la
Compassione, Karunâ, la perfetta unione in spirito con tutto ciò che
soffre; ed è basata ugualmente sulle altre qualità che con Karunâ il
Buddhismo esalta al posto dell’ambiguo concetto di “amore”: Mettâ, il
Desiderio che tutto ciò che vive sia felice; Muditâ, la lieta
partecipazione alla gioia altrui; Upekkhâ, l’assenza di squilibri
emotivi, il dimorare in una calma serena in ogni circostanza. Sîla
comprende: Retta Parola, Retta Azione e Retti Mezzi di Sussistenza.

Samâdhi è una condotta di vita interiore ispirata dal desiderio di
purezza, essendo la purezza la condizione essenziale per una limpida
visione del Reale, ed intendendo per purezza la completa assenza delle
tre “radici del male”: il desiderio, l’avversione, l’errore. Samâdhi
comprende Retto Sforzo, Retta Consapevolezza e Retta Concentrazione.

Pañña Comprende Retto Pensiero e Retta Comprensione e rappresenta il
culmine della Ascesi Buddhica; nella sua più piena espressione Pañña è
la Perfetta e Completa Illuminazione (o Risveglio) di un Buddha (detto
più propriamente Sammâsambuddha, il Perfettamente e Completamente
Illuminato o Risvegliato.

Secondo il Buddhismo vi sono due specie di comprensione. La prima è
conoscenza raccolta da fonti autorevoli, una comprensione
intellettuale di un dato soggetto, una memoria accumulata di fatti
noti. Questa è chiamata anubodha (anu = secondo, seguendo, lungo) cioè
assenso od accettazione, più che vera conoscenza. La seconda specie è
conoscenza reale e profonda, è penetrazione (pativedha) nella essenza
delle cose e conoscenza diretta. Questa penetrazione è possibile
quando la mente è libera da ogni impurità e pienamente sviluppata
mediante la meditazione. Questa è la base della Retta Comprensione.

“Da questa breve descrizione del Sentiero possiamo vedere che esso è
un modo di vita che può essere seguito, praticato e sviluppato da ogni
individuo. È una auto-disciplina che involve corpo, parola e mente,
perfezionamento e purificazione di sé. Non ha nulla a che fare con
credi, preghiere, adorazioni e cerimonie. In questo senso non ha nulla
di quanto popolarmente può essere chiamato ‘religione’. È un Sentiero
che conduce alla realizzazione della Realtà Ultima, alla completa
libertà, felicità e pace attraverso la perfezione morale, spirituale
ed intellettuale”. (Ven. Dr. Walpola Rahula, op. cit.).

œ œ œ

“Astenersi da ogni male,
Esercitarsi nel bene,
Purificare la propria mente,
Questo è l’Insegnamento dei Buddha.”

(Dhammapada, 183)

“Una mente che non vacilla al contatto del mondo,
libera da tristezza, limpida, calma,
questa è la più grande benedizione.”

(Sutta Nipâta, 267)

________________________________

Karma e Reincarnazione.

Una Religione adulta come il Buddhismo ha superato l’infantile idea
che l’Uomo dipenda, per la propria vita e per la propria salvezza,
dalla “bontà” di un Padre alla cui volontà sia dovuto tutto quello che
l’uomo può incontrare sul proprio cammino. In questa visione del mondo
troviamo talvolta un altro potere esterno cui viene attribuito tutto
il male. Un tal modo di vivere è un residuo di un primitivo animismo
che vedeva una volontà od una presenza soprannaturale in ogni fenomeno
della natura, volontà o presenza che si cercava, secondo i casi, di
propriziare o di placare con riti, cerimonie o sacrifici. Con il
progresso umano il dominio del soprannaturale si è ristretto e molte
potenze sono state detronizzate per lasciare il posto al monarca
legittimo, un fattore naturale, non antropomorfo e non esterno
all’Universo: la Legge. Tutto quello che esiste è l’espressione di una
legge ed il “soprannaturale” è una pura illusione. Beninteso il
Buddhismo non limita il “naturale” a quanto può essere percepito dai
sensi dell’uomo comune allo stato di veglia, ma anche quello che è,
comunemente, il “soprasensibile”, è compreso nel dominio della Legge e
dell’Ordine naturale (Dharma).

Così, come un teista non trova difficoltà ad ammettere un Creatore
increato, il Buddhista non trova difficoltà ad ammettere una Realtà
(Dharma) increata che comprende tutto ciò che è, che è Legge (Dharma)
a se stessa. L’Uomo è compreso in questa Legge ed egli può conoscerla
ed usarla; qui sta la principale differenza dalla posizione teista e
quindi si comprende come ad esempio la salvezza dell’Uomo non dipenda
dal suo uniformarsi agli arbitrari (nel senso che avrebbero potuto
essere diversi) comandamenti di una volontà esterna a lui, ma dal suo
saggio adeguarsi ad una Legge ce è immanente in Lui. In accordo con la
Legge l’Uomo è onnipotente: non c’è dio né demone che possa opporglisi
e privarlo del risultato delle sue buone azioni; d’altra parte
nessuno, per quanto potente, potrebbe mai liberarlo dalle conseguenze
delle sue azioni malvage.

Quell’aspetto della Legge Unica che aggiusta l’effetto alla causa sul
piano morale, la “Legge di Retribuzione”, è chiamato nel Buddhismo la
Legge del Karma (sanscr.) o Kamma (pâli) (19). Ne abbiamo già studiato
il modo di operare quando abbiamo visto i Dodici Nidâna della
Coproduzione Condizionata; qui ci resta solo da aggiungere qualche
commento, soprattutto in relazione al processo che porta l’uomo a
vivere alternativamente in uno stato senza forma (arûpa) e con la
forma (rûpa), cioè l’alternarsi della “morte” e della “vita”.

Questo non è che uno dei tanti fenomeni ritmici che osserviamo in
Natura; sistole e diastole, sonno e veglia, notte e giorno. Per il
Buddhista la Rinascita è una ovvia verità: egli infatti è convinto di
vivere in un Universo retto dalla Legge e non saprebbe spiegarsi
altrimenti la somma di felicità o di dolore che egli osserva negli
esseri umani, spesso in contrasto con i loro apparenti meriti attuali.
Egli non può concepire la volontà di un Dio “buono” dietro la morte
per fame di un bambino, né supporre “imperscrutabili disegni della
Provvidenza” dietro la nascita di un idiota. Né egli d’altra parte può
escludere il mondo morale dal dominio della Legge e quindi non può
spiegarsi come dovuti a cause puramente materiali (come l’eredità
biologica, o la “sfortuna” di essere nato in certe determinate
circostanze) i vari e complessi destini degli esseri senzienti. È
dunque il Karma generato in precedenti esistenze l’unica spiegazione
ragionevole per le condizioni della esistenza attuale, e il Buddhista
non imputa ad altri che a se stesso il bene ed il male che incontra
nel corso della propria vita.

È anche chiaro che qui non è questione alcuna di “premio” o di
“punizione”, dato che non vi è né giudice né accusato; la vita è una
vasta arena dove infinite situazioni sono possibili, ma nessuna di
esse può dipensere da cause esterne a noi o non corrispondere
esattamente ad una nostra scelta; se entriamo in un prato fiorito non
è un “premio” il fatto di trovarvi dei fiori, e se mettiamo una mano
nel fuoco non è una “punizione” l’ustione che ne risulta.

Perchè non ricordiamo le vite passate? Intanto questo non è sempre
vero: il Buddha ad esempio ricordava le vite passate (20) e questo è
uno dei poteri dell’Arhan, colui che è sulla soglia del Nirvâna.

Poi, la comune memoria è legata al cervello e questo si dissolve dopo
la morte; anche ora, che cosa ricordiamo della nostra infanzia? Il
fatto che la memoria delle vite passate sia possibile dimostra
comunque che vi sono strati più profondi di Viññana (la Coscienza) che
sopravvivono alla distruzione degli Aggregati che segue la morte;
questi strati sono normalmente inconsci, ma possono in certe
determinate circostanze essere portati entro il campo della coscienza
di veglia.

Se teniamo presente inoltre che il legame fra una vita e la successiva
è rappresentato dal Karma e se ricordiamo quanto fu detto al cap. II
sul Khandha Sankhârâ (le “Componenti karmiche”) è chiaro che quegli
strati più profondi di Viññana, cui alludevamo prima, sopravvivono
unitamente alla risultantedi tutti i Sankhârâ, risultante che riassume
in sé tutto il karma dell’individuo.

Il nuovo individuo è detto dal Buddha essere “na ca so na ca añño”: né
lo stesso, né un altro; non è lo stesso a causa dell’inesorabile
cambiamento, del flusso incessante che è l’essere (anicca): non è un
altro perché quella corrente karmica che costituisce un dato individuo
è una corrente individuale. È questa corrente individuale che, ridotta
dalla morte alla sua espressione più astratta, dà una individualità
condizionale ad Alaya (21); è Alaya che, impregnandosi dell’aroma, per
così dire, della personalità che non è più, lega l’uno all’altro gli
anelli di una catena di vite: è Alaya che, alla fine, riconoscerà se
stessa come Buddha.

L’ansia, che tutte le Scuole Buddhiste dimostrano, di sottolineare che
la Vita è una ed indivisa ha condotto la Scuola Theravâda ad una
troppo radicale interpretazione del concetto di anatta (non sé) e
quindi alla negazione di una qualsiasi sopravvivenza dopo la morte,
nel timore di suffragare la teoria di una “anima” distinta ed
eternamente separata. L’unica cosa che “sopravvive”, secondo questa
Scuola, è Karma. Ma, per quanto possa apparire strano a prima vista,
tale Dottrina differisce solo superficialmente da quella della Scuola
Mahâyâna, che insegna la sopravvivenza di un complesso individuale
(anch’esso però caratterizzato da anicca, impermanenza), come abbiamo
già suggerito più sopra introducendo nuovamnete il concetto di Alaya.
Non possiamo discutere ora questo punto; possiamo solo suggerire
quanto segue: se tutto è anatta, insostanziale, se non vi è alcuna
sostanza sottostante ai fenomeni che osserviamo, tutto si riduce ad un
complesso o ad una successione di azioni cui non corrisponde alcun
“agente”; ora “azione” è, letteralmente, KARMA. Per chi voglia
riflettere, la nostra dimostrazione è praticamente completa.

Ma non si dimentichi che, qualunque sia la Scuola di loro scelta,
tutti i Buddhisti sono d’accordo su questi punti: (1) le successive
esistenze, collegate e regolate da karma, formano una catena che
finisce nel Nirvâna; (2) ogni essere umano progredisce verso il
Nirvâna lungo uan di tali catene; (3) da una vita all’altra
l’individuo non è “né lo stesso né un altro”, come il vecchio non è né
lo stesso né un altro rispetto al fanciullo che era, come un fiume
nello “stesso” punto del suo corso è in realtà sempre diverso per
l’incessante scorrere dell’acqua; (4) che la Vita è una ed indivisa,
in uno stato di perenne trasformazione, come un fiume impetuoso che
non ristagna mai.

Una immagine che viene talvolta usata a questo proposito è quella di
una candela che ne accende un’altra. La luce della seconda candela è
la stessa della prima? “Accendete una candela da un’altra, e la luce è
la medesima, benché diversa, la medesima in essenza benché, forse,
appaia brillare più intensamente di prima… Forse la cera che compone
la seconda candela è più pura, il lucignolo di materiale più fine, ed
il tutto creato da uno stampo migliore. In questa misura la seconda è
diversa dalla prima, tuttavia la Luce o la Vita è la stessa ed una
sola, e risplende più intensamente nel secondo caso perché più puri
sono gli skandha della sua forma” (Christmas Humphreys, Buddhism,
Pelica Books, A 228).

Dal punto di vista Buddhista la dissoluzione finale degli Skandha non
è che una drammatica amplificazione di quello che accade ad ogni
istante della nostra vita: in ogni momento noi moriamo e rinasciamo;
nel giro di pochi anni tutta la materia del nostro corpo è
completamente rinnovata; noi non siamo mai lo stesso “io” in due
istanti successivi ed è solo la continuità di questa corrente che fa
sorgere l’idea di un “io” che si perpetua identico a se stesso
attraverso il mutamento degli Skandha.

Vi è un aspetto del Karma che dobbiamo vedere a questo punto e che è
considerato in modo particolare dalla Scuola Mahâyâna.

Se la Vita è una e se solo in un senso convenzionale possiamo parlare
di “mio” e di “tuo”, etc. non devono essere assolutamente invalicabili
neppure le barriere che il karma stabilisce fra i vari destini
individuali.

È beninteso assiomatico che le conseguenza di una azione debbano
ripercuotersi su chi commise l’azione, e solo su di lui: nessuno può
subire le conseguenze di azioni, buone o cottive, commesse da un
altro.

Ma dove comincia e dove finisce la responsabilità di un individuo?
Quanta parte hanno avuto nello spingerlo a quella azione la sua
famiglia e la società in cui vive?

È chiaro che il concetto di karma individuale va integrato a quello di
Karma collettivo o distributivo: esiste cioè un karma di famiglia, di
gruppo, di nazione, di razza, così come esiste un karma della intera
Umanità. Molto di quello che soffriamo dipende da Karma del gruppo di
cui facciamo parte ed alla cui vita contribuiamo. Il solo fatto della
esistenza di unità collettive, dotate di una propria individualità, è
una prova della esistenza di un Karma collettivo.

Questo porta ad una conseguenza di grande significato mistico: la
possibilità che alcune anime eroiche possano col loro sacrificio
alleviare le pene di una intera collettività umana (22). Chi si
innalza spiritualmente al di sopra del gruppo cui appartiene diviene
un fulcro per la leva del karma collettivo, ed a giusto titolo può
esser chiamato un Salvatore dell’Umanità, benché naturalmente il Karma
puramente individuale sia inviolabile. Nel Mahâyâna questo stato è
esplicitamente posto come Ideale di fronte al discepolo.

Accade inoltre che nessuno può rendere migliore o peggiore se stesso
senza rendere migliore o peggiore l’umanità, di cui ogni individuo è
parte integrante. Gli effetti, una volta che le cause sono state
generate, non possono essere arrestati, ma una umanità migliore li
sopporterà con minor sofferenza e con maggior saggezza. Alleviare le
sofferenze degli uomini e degli animali è un preciso dovere per il
Buddhista; ma un Buddhista che comprenda profondamente la natura e
l’origine del dolore sa che molto più efficace è lavorare al progresso
della razza umana, insegnare agli uomini ad evitare le cause della
sofferenza; egli personalmente sceglierà poi un modo di vita
inoffensivo e si dedicherà allo sviluppo in lui delle qualità
Buddhiche, cui egli aspirerà non per sé, ma perché la vita
dell’Umanità sia più pura e più ricca. Per sé egli non può desiderare
nulla, perché ciò che arricchisce il “sé” è morte e delusione; ma se
l’appello a vivere una vita più nobile gli viene dalla percezione
della sofferenza della vita che è intorno a lui, allora egli è sulla
Via.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *