di Eugenio Miccone
– Parte terza e fine
– I Quattro Sentieri
“Negli ultimi stadi del Sentiero il neofita raggiunge una importante
crisi nel suo sviluppo spirituale. Finora egli ha percorso un sentiero
di comprensione e moralità elementari. Ma giunge tuttavia un tempo in
cui, senza abbandonare necessariamente la vita di famiglia, egli
dedica se stesso irrevocabilmente alla vita dello Spirito. Da allora
in poi il suo progresso è segnato da quattro Stadi, che rappresentano
una progressiva espansione della sua coscienza.” (Christmas Humphreys,
op. cit.)
Questi Quattro Stadi o “Sentieri” sono:
I.
Sotâpanna:
“Colui che è entrato nella corrente” per giungere “all’altra riva”.
II.
Sakadâgâmi:
“Colui che ritornerà (a rinascere) solo una volta”.
III.
Anâgâmi:
“Colui che non tornerà”, cioè che non è più forzato a rinascere per
obblighi karmici.
IV.
Arahâ:
“Il Degno, il Santo”, che è giunto alla Meta. (23)
Questi quattro Stadi sono caratterizzati da certe precise
realizzazioni; vi sono cioé dieci vincoli o “ceppi” da cui il
Discepolo deve liberarsi.
I Dieci ceppi sono:
1.
Sakkâyaditthi:
L’illusione della realtà di un “sé” separato.
2.
Vicikicchâ:
Il dubbio o lo scetticismo riguardo alle Verità fondamentali.
3.
Sîlabbataparâmânsa:
La credenza nella efficacia dei riti e delle cerimonie.
4.
Kâmarâga:
La sensualità.
5.
Patigha:
L’avversione, ogni forma di ostilità.
6.
Rûparâga:
Desiderio di vita (separata) nel mondo della “Pura Forma”.
7.
Arûparâga:
Desiderio di vita (separata) nel mondo “privo di forma”.
8.
Mâna:
L’orgoglio (spirituale).
9.
Uddhacca:
Il senso della propria “personale” rettitudine (in confronto agli “altri”).
10.
Avijjâ:
L’ignoranza, l’illusione.
Il Sotâpanna deve avere lasciato dietro di sé i primi tre ceppi; deve
essersi liberato dal senso della separazione, non deve più sentire gli
altri come esseri diversi o distinti da lui; deve aver compreso che la
sua “individualità separata” è solo un frammento non isolato della
Vita Una. Il “Dubbio” significa incertezza relativamente alla meta
verso cui il discepolo si muove; questo è il secondo vincolo da cui il
Sotâpanna deve liberarsi. Il terzo è l’attaccamento alle regole
formali e la credenza nella efficacia dei riti e delle cerimonie;
questa è una delle illusioni più profondamente radicate nell’uomo, ma
il discepolo del Buddha ne deve essere libero.
Le cerimonie sono per i fedeli una specie di stupefacente mentale;
tendono a diventare una abitudine ed una necessità, sostituendo lo
sforzo interiore; per l’officiante sono un mezzo per tenere unito il
suo gregge e per conservare potere su di esso, dato che una
particolare “investitura” è necessaria perchè il “rito” abbia gli
“effetti” promessi. Vi sono alcuni che inteoria riconoscono il valore
non essenziale dei riti, ma che in pratica non sanno distaccarsene e
continuano a praticarli ed a convincere gli altri a seguirli. Così la
congregazione diviene uno strumento delle sottili ambizioni
dell’officiante, il quale, pur dichiarandosi di servire scopi
altruistici, in pratica non rinunzierebbe mai ad imporre i propri
servigi. Questo è un esempio del funzionamento di Paticca Samuppâda:
l’Ignoranza è il primo anello; da questi giungiamo a Vedanâ, la
gradevole sensazione suscitata da una cerimonia, poi a Tanhâ, il
desiderio di ripetere l’esperienza, da cui Upâdâna, l’attaccamento, lo
stabilirsi di una necessità, di una abitudine; ne deriva una certa
situazione esistenziale che conduce all’inizio di un ciclo di
esperienze (Jâti), al loro esaurimento ed alla loro conclusione, dopo
di che il fardello di Avijjâ sarà più leggero o più pesante, secondo i
casi. (24)
Il Buddhismo è vivamente enfatico su questo punto e incita
costantemente i seguaci del Vero a non dipendere mai da poteri
esterni. Prima di morire il Buddha rivolse ad Ananda, il Discepolo che
gli era più vicino col cuore, queste famode parole:
“Siate isole a voi stessi, Ananda! Siate rifugio a voi stessi; non
prendete per voi un altro rifugio. Considerate la Verità come
un’isola, la Verità come un rifugio. Non cercate un rifugio in nulla
salvo voi stessi…
E quanti, Ananda, ora o dopo che io sarò morto, saranno un’isola a se
stessi, un rifugio a se stessi, non prendendo per se stessi alcun
altro rifugio, ma guardando alla Verità come ad un’isola, alla Verità
come ad un rifugio, non cercando rifugio in nulla salvo che in se
stessi, sono questi, Ananda, che fra i miei discepoli raggiungeranno
l’altra riva! Ma essi debbono compiere loro stessi lo sforzo
necessario”. (25)
Il pensiero è un potere creatore, e molte immagini latenti nei
Sankhârâ acquistano vita propria quando i poteri dell’anima cominciano
a svegliarsi. Fissando lo sguardo solo all’interno, solo sulla Verità,
si procede sicuri da molti pericoli.
Superati questi primi tre ostacoli il Discepolo è entrato nella
corrente; superato il quarto, e parzialmente anche il quinto, procede
sul “secondo sentiero”, quello del Sakadâgâmi, divenendo Anâgâmi col
liberarsi completamente di Patigha.
Su questi due ceppi non vi è molto da dire; il discepolo deve essere
assolutamente libero dalla sensualità e da ogni forma di ostilità,
come deve essere naturale per chi sente ormai la Vita come una.
Sul Sentiero dell’Arhan vengono superati gli ultimi cinque ostacoli.
Al nostro livello è difficile e presuntuoso cercare di avere o di dare
un’idea esatta di essi. Approssimativamente si può dire quanto segue:
Rûparâga e Arûparâga sono due ostacoli al distacco del Santo dalle
esperienze connesse con l’esistenza in una qualche forma di vita.
Superato il desiderio di vivere in una forma materiale e superato il
mondo o la sfera del desiderio (kâmaloka), il discepolo sullavia della
Santità potrebbe essere attratto da condizioni di esistenza (bhava,
10° nidâna) in piani superiori di vita, certopiù sottili, ma sempre
condizionati.
La tradizione Buddhista ne menziona due; Rûpaloka ed Arûpaloka, il
Mondo della Pura Forma ed il Mondo della Non – Forma, al di là dei
quali si estende l’oceano senza rive del Nirvâna.
Il completo distacco del Santo lo deve condurre anche al di là di
questi mondi spirituali, perché non è di grande vantaggio la
sostituzione di una illusione spirituale ad una illusione materiale.
“L’ottavo dei ceppi, l’Orgoglio Spirituale – dice Christmas Humphreys
nel suo Buddhism – spiega una vasta percentuale della follia umana.
Perfetto è l’uomo che alla fine lo esclude fin nelle sue forme più
sottili”.
Il senso della propria virtù è un’altra sottile tentazione. Qui non
possiamo fare di meglio che ricordare alcuni ben noti detti: “non
immaginare di poterti distinguere dai malvagi o dagli stolti. Essi
sono te stesso, benché in minor grado del tuo amico o del tuo Maestro.
Ma se tui lasci che l’idea di separazione da ogni malvagia cosa o
persona cresca in te, ciò facendo crei Karma che ti legherà a quella
cosa o persona fino a che l’anima tua riconosca che non può esserne
isolata. Ricordati che il peccato e l’onta del mondo no il tuo peccato
e la tua onta, perché tu sei parte del mondo. Il tuo Karma è
inestricabilmente intessuto col grande Karma. … L’uomo che si stima
giusto prepara a se stesso un letto di fango. Astienti perché
l’astenersi è giusto, non perché tu ti serbi puro. (26)”
Avijjâ è naturalmente l’ultimo vincolo da spezzare: dispersa ogni
illusione l’Arhan è in Nirvâna.
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La Religione dell’Amore.
Benché la parola “amore” debba essere presa con cautela, data la sua
estrema ambiguità, è tuttavia indubbio che il Messaggio del Buddha non
solo risplende della luce della più alta Saggezza, ma è ance
riscaldato dalla Fiamma del più puro Amore. È questa Fiamma limpida,
che arde senza fumo; è la Fiamma di un Amore intenso ma sereno, nel
quale l’oblio di sé e la perfetta consapevolezza si uniscono alla più
completa libertà interiore per dar vita ad un immacolato loto con
quattro petali: le Quattro Divine Dimore (Brahmavihârâ).
Chi ama perfettamente sente come proprie le sofferenze altrui,
desidera ardentemente l’altrui felicità, partecipa con sincerità e
simpatia alla gioia altrui e resta padrone di sé e del proprio amore,
perché non vi è amore senza libertà interiore: l’amore è un dono
libero e spontaneo e come tale richiede la completa integrità
dell’individuo. (27)
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Queste quattro condizioni del perfetto amore sono appunto le Quattro
Divine Dimore:
1. Karunâ: la Compassione;
2. Mettâ: l’amorevole interesse per gli altri;
3. Muditâ: la Simpatia gioiosa;
4. Upekkâ: la condizione di Libertà interiore:
Di queste quattro forme dell’amore la prima è la più specificamente
buddhista; se tutto è dolore (1a Nobile Verità) la Compassione, il
sentire come proprio il dolore altrui, è la prima risposta del
Buddhista e la nota fondamentale dei suoi rapporti con gli altri. Il
Buddha stesso è Karunâ – Prajñâ, Compassione – Saggezza. L’acquisto e
lo sviluppo di queste qualità segue lo sviluppo spirituale del
Buddhista e nella sua pratica meditativa egli irradia benedizioni sul
mondo secondo la formula seguente (Dîgha Nikâya, XXXIII, 4):
“Si irradiano pensieri di… (Amore, Compassione, Gioia, Libertà
interiore)… prima in una direzione, poi in una seconda, poi in una
terza, poi in una quarta, poi in alto, in basso, tutto intorno.
Identificando se stessi con tutto, si pervade l’intero universo con
pensieri di… con cuore grande, vasto, profondo, illimitato, purificato
da ogni malevolenza”.
Questa pratica è regolarmente ripetuta per ognuno dei Brahmavihârâ.
L’uomo capace di irradiare veramente sul mondo la pienezza dell’animo
suo non è più solo: tutti gli esseri sono parte di lui ed il Signore
stesso prende dimora nel suo cuore. Superati i limiti della
personalità lo spirito umano si identifica con l’eterno Principio
buddhico:
“Fuggi l’ignoranza e fuggi del pari l’illusione. Distogli il tuo
sguardo dalle illusioni del mondo; diffida dei tuoi sensi, ché son
bugiardi. Ma dentro il tuo corpo, tabernacolodelle tue sensazioni,
cerca nell’Impersonale l’”uomo eterno” e, trovatolo, guarda
all’interno: tu sei Buddha”. (La Voce del Silenzio)
Ed in verità il Buddha è presente in colui che fa suo l’immortale comandamento:
“Tenda la tua anima l’orecchio ad ogni grido di dolore, come il loto
apre il suo cuore per vere il sole mattutino.
Il sole ardente non asciughi una sola lagrima di dolore prima che tu
stesso l’abbia tersa dall’occhio del sofferente.
Ma ogni rovente lagrima umana cada sul tuo cuore e vi resti, né
tergerla mai, finché non sia rimosso il dolore che la produsse”. (La
Voce del Silenzio)
Il senso di amore che deve ispirare il discepolo buddhista è
paragonato dal Buddha a quello di una madre per il suo unico figlio,
in brano famoso delMettâ Sutta (Il Sutta dell’Amore).
“Nessuno umilî un altro, nessuno, in qualunque circostanza, disprezzi
un altro; nessuno, per collera o risentimento, desideri il male di un
altro.
Come una madre difenderebbe con la vita il suo proprio figlio, il suo
unico figlio, così sviluppi egli un animo illimitato verso tutti gli
esseri viventi.
Coltivi amore ed un animo illimitatamente benigno per tutto il mondo:
in alto, in basso ed in ogni altra direzione senza impedimento alcuno,
amichevolmente e con animo pacifico”. (Sutta Nipâta, 148-150)
Su questo argomento si potrebbero riempire pagine e pagine, ma queste
poche gemme saranno sufficienti a dimostrare come il Buddhismo, in
ognuna delle sue Scuole, sia tutt’altro che una Religione “fredda”.
Quanto può aver contribuito a questa impressione, decisamente errata,
la serena compostezza, la consapevole padronanza di sé, l’avversione
per ogni eccesso emotivo, l’umiltà e la modestia, così frequenti fra i
discepoli del Buddha e così rare in questo fragoroso Occidente?
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APPENDICE
METTÂ SUTTA
(Khuddakapâtha, IX; Sutta Nipâta, 143-152)
Mettâ (sanscr. Maitri) è una delle Quattro Divine Dimore, od i quattro
sublimi stati della mente nei quali il Buddhismo riassume il proprio
concetto di “amore”. Essi sono: (1) Karunâ, la Compassione, il sentire
come propria la sofferenza altrui; (2) Mettâ, la Benevolenza, cioé il
desiderare la felicità altrui; (3)Muditâ, la Gioiosa Simpatia, il
sentire come propria la gioia altrui; (4) Upekkâ, l’Equanimità, il
perfetto equilibrio emotivo di chi è libero dalla illusione del “sé”.
Mettâ è qui tradotto con “amore”.
Ecco ciò che deve fare colui che si è posto sul retto sentiero ed è
capace di realizzare il bene: sia diligente, onesto, integro, cortese
nel parlare, benigno, privo di arroganza,
contento, frugale, sereno, di pochi bisogni, calmo nei sensi,
prudente, riservato, non bramoso.
Non commetta alcuna bassa azione che gli meriti il biasimo dei saggi.
(E così egli pensi): “siano felici tutti gli esseri, vivano essi in
pace ed abbiano animo lieto!
Quali che siano gli esseri viventi, nessuno escluso: mobili od
immobili, lunghi, grandi, medi o corti, esigui o corpulenti,
visibili od invisibili, vicini o lontani, già nati o da nascere, siano
tutti gli esseri di animo lieto!
Nessuno umilî un altro; nessuno, in qualunque circostanza, disprezzi
un altro; nessuno, per collera o risentimento, desideri il male di un
altro.
Come una madre difenderebbe con la vita il suo proprio figlio, il suo
unico figlio, così sviluppi egli un animo illimitato verso tutti gli
esseri viventi.
Coltivi amore ed un animo illimitatamente benigno per tutto il mondo:
in alto, in basso ed in ogni altra direzione senza impedimento alcuno,
amichevolmente e con animo pacifico.
Che stia fermo o cammini, che sieda o giaccia, sia libero da indolenza
e fissi la mente sulla consapevolezza; tale condizione – come è detto
– è divina.
Non abbracciando alcuna opinione (settaria), osservando un retto
comportamento, dotato di retta visione, libero dalle brame dei sensi,
certamente non entrerà di nuovo in un grembo materno.
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MANGALASUTTA
(Khuddakapâtha; Sutta Nipâta, 259-269)
L’evitare la compagnia degli stolti, il frequentare i sapienti, la
devozione resa a coloro che la meritano, questa è la più grande
benedizione.
Il vivere in luogo adatto, l’aver compiuto buone azioni in una vita
precedente, l’aspirare alla perfezione, questa è la più grande
benedizione.
Profonda conoscenza, diligenza, disciplina perfettamente acquisita,
retto linguaggio, questa è la più grande benedizione.
L’aver cura della madre e del padre, il proteggere la moglie ed i
figli, l’avere oneste occupazioni, questa è la più grande benedizione.
La beneficienza, il retto vivere, l’aver cura del prossimo, il
compiere azioni irreprensibili, questa è la più grande benedizione.
Distaccarsi ed astenersi dal male, astenersi da bevande inebrianti,
vigilare sugli stati della mente, questa è la più grande benedizione.
Rispetto, uniltà, contentezza egratitudine, l’ascoltare a tempo debito
l’Insegnamento, questa è la più grande benedizione.
Tolleranza, cortesia, la compagnia degli asceti, il conversare a rempo
debito sull’Insegnamento, questa è la più grande benedizione.
Austerità, purezza, comprensione delle Nobili Verità, realizzazione
del Nibbâna, questa è la più grande benedizione.
Una mente che non vacilla al contatto del mondo, libera da tristezza,
limpida, calma, questa è la più grande benedizione.
Coloro che seguono questi principî sono invitti in ogni circostanza e
sicuri ogni dove. E questa è per loro la più grande benedizione.
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PANSIL
(Il Saluto)
Namo tassa Bhagavato Arahato Sammâsambuddhassa.
(Tre volte)
Tisaranam
Onore a Lui, al Sublime, al Santo, al Perfetto perfettamente Svegliato!
Buddham saranam gacchâmiIo vado al Buddha quale Rifugio;
Dhammam saranam gacchâmiIo vado alla Verità quale Rifugio;
Sangham saranam gacchâmiIo vado alla Fratellanza quale Rifugio.
Dutiyam pi Buddham saranam gacchâmiPer la seconda volta…
Dutiyam pi Dhammam saranam gacchâmi
Dutiyam pi Sangham saranam gacchâmi
Tatiyam pi Buddham saranam gacchâmiPer la terza volta…
Tatiyam pi Dhammam saranam gacchâmi
Tatiyam pi Sangham saranam gacchâmi
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PANCA SILA
Pânatipâtâ veramanî sikkhâpadam samadiyâmi
Adinnâdânâ veramanî sikkhâpadam samadiyâmi
Kâmesunmicchâcârâ veramanî sikkhâpadam samadiyâmi
Musâvâdâ veramanî sikkhâpadam samadiyâmi
Surâ-meraya-majja-pamâdatthâna veramanî sikkhâpadam samadiyâmi
Io mi impegno ad esercitarmi ad evitare di arrecare danno agli altri
esseri viventi.
Io mi impegno ad esercitarmi ad evitare di prendere quanto non mi viene dato.
Io mi impegno ad esercitarmi ad evitare atti sessuali immorali.
Io mi impegno ad esercitarmi ad evitare di dire il falso.
Io mi impegno ad esercitarmi ad evitare liquori che generano torpore.
“Il significato completo di questi ‘precetti’ sarebbe: “Io mi impegno
ad esercitarmi nella rinuncia all’attaccamento a …”
Il senso esatto è importante per lo studente occidentale che deve
comprendere chiaramente: (a) che non si tratta di voti pronunciati
daventi a Dio o qualsiasi altro Essere, ma di un solenne impegno di
fronte a se stessi; (b) che non si tratta neppure di un impegno a non
commettare mai falli in questionem ma di un voto, preso in silenzio o
ad alta voce, di esercitarsi a diminuire il proprio attaccamento
all’errore menzionato. Il Buddhismo è sempre una ragionevole Via
Mediana, e tutto quello cui l’uomo può utilmente impegnarsi è di
allontanare se stesso con diligenza dalle vie dell’oscurità (desiderio
egoistico) e porre se stesso sulla Via della Luce”.
(Christian Humphreys, Buddhism, p. 241)
PACE A TUTTI GLI ESSERI
Note
(1) Walpola Rahula, L’Enseignement du Buddha, pp. 31 – 32.
(2) Walpola Rahula, op. Cit., p. 21
(3) Walpola Rahula, op. Cit., p. 23
(4) Questo è appunto il contenuto delle Quattro Nobili Verità
(5) Christmas Humpreys, The Wisdmo of Buddhism, n. 44
(6) Dhammapada, trad, E. Frola (Boringhieri)
(7) In questa esposizione è data di preferenza la forma pâli dei
vocaboli come quella più in uso nell’Insegnamento basilare del
Theravâda.
(8) La Voce del Silenzio, II Frammento.
(9) Christmas Humphreys, The Wisdom of Buddhism, n. 8.
(10) Christmas Humphreys, op. cit., n. 9.
(11) Nella terminologia teosofica questo aspetto è rappresentato da
Buddhi – Manas, il “Corpo Causale”.
(12) The Lankâvatâra Sûtra, trad. D. T. Suzuki, pp. xxiii – xxiv
(13) Privi di un sé separato, di una sostanza distinta: la Vita è Una.
(14) Nella Fisica moderna troviamo nelle “linee di universo”
(l’estensione di un “oggetto” nello Spazio – tempo) l’equivalente del
concetto Buddhista di Dharma. Tali “linee di universo” rappresenta la
“storia” di un oggetto, cioé la successione di tutti gli “eventi” che
lo compongono. La dottrina Buddhista è riecheggiata dalla Relatività:
“Nella vecchia concezione un oggetto materiale era qualcosa che
perdurava attraverso il tempo ed intanto non si trovava in più di un
luogo ad un tempo dato. Questo modo di considerare le cose è
ovviamente connesso con la completa separazione dello spazio e del
tempo in cui la gente credeva una volta. Quando noi sostituiamo lo
spazio ed il tempo con lo spazio – tempo noi ci attendiamo
naturalmente di dedurre la struttura del mondo fisico da costituenti
limitati tanto nello spazio quanto nel tempo. Tali costituenti sono
quelli che noi chiamiamo “Eventi”. Un evento non persiste muovendosi,
come il tradizionale pezzo di materia: esso semplicemente esiste per
un breve istante e quindi cessa. Un oggetto materiale è quindi risolto
in una serie di eventi. Esattamente come, nel vecchio modo di pensare,
un corpo esteso era composto di particelle, così ora ogni particella,
essendo estesa nel tempo, deve essere considerata come composta da
quelle che possiamo chiamare “particelle – eventi”. L’intera serie di
questi eventi costituisce l’intera storia della particella, e la
particella è considerata essere la sua storia, non qualche entità
metafisica cui gli eventi accadono”. (B. Russell, The ABC of
Relativity, XIV).
L’ultima frase di questa citazione richiama la Dottrina Buddhista di
anattâ, che vedremo poco oltre.
(15) Sulla “ipotesi non necessaria” di una sostanza materiale
sottostante ai fenomeni osservati e distinta da essi, vedere il
capitolo già citato di B. Russel da The ABC of Relativity.
(16) Anche l’ego, il Manas nel Corpo Causale, della Teosofia, è
soggetto a questa analisi: anch’esso è Sankhata, condizionato e
composto, e quindi anicca, dukkha, anatta, impermanente, finito,
insostanziale. La sua durata è l’immensamente superiore a quella degli
Skandhâ della personalità terrena, ma tuttavia non infinita.
(17) Cfr. In altri Sistemi la Dottrina di Mâyâ, l’Illusione, cosmica
ed individuale.
(18) Tradizionalmente ciò avviene nel corso di una semplice cerimonia
detta “Pansil” (abbreviazione di Panca Sîlâ).
(19) Karma (letteralmente “Azione”) è anche un nome della Legge Una,
che è, per così dire, l’aspetto attivo della Realtà Una (Dharma).
(20) In Oriente vi è una solida tradizione di casi di ricordo di vite
passate da parte di numerose persone.
(21) La Monade, Atmâ – Buddhi, nella terminologia teosofica. Rivedere
quanto detto al cap. II, su Alayavijnâna.
(22) Sono questi i Bodhisattva, i “Figli del Buddha”, nel Mahâyâna.
(23) I nomi sanscriti dei Quattro Sentieri sono: Srotâpanna,
Sakridâgâmin, Anâgâmin, Arhan (Arhat).
(24) Come abbiamo mostrato in questo esempio, i 12 Nidâna sono in
realtà dei fattori astratti, suscettibili di assumere vari significati
in situazioni diverse. Così abbiamo interpretato qui Jâti come
“l’inizio di un ciclo di esperienze” invece che come “nascita” nel
senso usuale. Il lettore può utilmente esercitarsi ad interpretare in
questo contesto gli anelli che non abbiamo esplicitamente esaminato.
(25) T. C. Humphreys; Thw Wisdom of Buddhism, n. 56.
(26) La Luce sul Sentiero, I, 5, Nota.
(27) Uno dei maggiore studiosi contemporanei di Psicologia, Erich
Fromm, riafferma tale concetto in una delle sue Opere più
significative, L’Arte di Amare. Egli dice: “L’amore maturo è unione a
condizione di preservare la propria integrità, la propria
individualità. L’amore è un potere attivo dell’uomo, un potere che
annulla le pareti che lo separano dai suoi simili, che gli fa superare
il senso di isolamento e di separazione e tuttavia gli permette di
conservare la propria integrità”.
Si possono utilmente consultare: Psicoanalisi e Buddhismo Zen a cura
di Suzuki, Fromm e De Martino; Psicoanalisi e Religione di E. Fromm
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