La felicità di Tim Boyd

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La felicità

di Tim Boyd

Tim Boyd è il Presidente Internazionale
della Società Teosofica.
Intervento al 100° Congresso
Nazionale della Società Teosofica Italiana,
tenutosi a Creazzo (VI) dal 6 all’8
giugno 2014.
Trascrizione, traduzione e riadattamento
a cura di Enrico Stagni.

Oggi vorrei parlarvi di un tema di
fondamentale importanza per ogni
ricercatore spirituale e ogni essere
umano, e in apparenza semplice: la felicità. Da
sempre, nel corso dei tempi, essa occupa un
ruolo centrale nelle diverse pratiche spirituali
di tutto il mondo. Negli Stati Uniti, mio paese
d’origine, è citata nella dichiarazione originale
di Indipendenza; a scuola s’insegna ai bambini
che ogni essere umano gode di alcuni diritti:
il diritto alla vita, il diritto alla libertà e quello,
appunto, alla ricerca della felicità.

In una delle principali osservazioni del
Buddha si legge che ogni essere vivente – formica,
pesce, o uomo – aspira alla felicità. Non
è tanto il fatto in sé a costituire un problema,
bensì quella ricerca, perché è difficile. Consultare
un dizionario non è di alcun beneficio,
dato che anche la definizione più banale sulla
felicità fa sostanzialmente riferimento a un
sentimento di benessere e appagamento, nulla
più. Tante cose si danno per acquisite senza ri-
flettere; tuttavia, quell’aspirazione a essere felici,
che appartiene a ogni vita, è un bisogno talmente
primario da richiederci inevitabilmente
una maggiore disamina.

Siamo abbastanza coscienti che, tra felicità e
desiderio, vi sia un legame di qualche tipo, perché
la maggior parte di noi, almeno in una fase
iniziale, ha l’impressione di poter essere felice
solamente realizzando i propri desideri. In questo
apparente connubio tra felicità e soddisfazione
del desiderio consiste la grande fonte della
nostra sofferenza, poiché molti pensano di spe
rimentare una felicità maggiore nella moltiplicazione
dei desideri.

Riguardo a ciò, spesso non
si presta attenzione alla prospettiva teosofica e a
quella delle tradizioni spirituali d’Oriente.
Il Buddhismo associa il desiderio perlopiù
a emozioni conflittuali e negative, idea che
spesso si riscontra anche nella letteratura tradizionale
teosofica. Il linguaggio e i concetti
contenuti ne Il gran gioiello della discriminazione
(o Vivekachudamani) di Samkaracarya, analogamente
si riflettono ne Ai piedi del Maestro
del giovane Krishnamurti.

Il libro cita quattro
requisiti essenziali per progredire nella vita
spirituale: capacità di discriminazione, assenza
di desiderio, buona condotta e amore. È interessante
notare come il capitolo più breve sia
quello dedicato all’assenza di desiderio che,
tra tutti i requisiti, si afferma essere il più arduo.
La ragione di ciò è che è difficile vivere in
assenza di quanto aneliamo, poiché ci identifi-
chiamo fortemente con i nostri desideri.
La nostra analisi, pertanto, deve partire proprio
da qui: cos’è il desiderio? Tutti, infatti, ne
parlano e hanno delle teorie al riguardo. Vorrei
proporvi una mia definizione sulla quale riflettere;
la potete tenere per buona se per voi ha
senso, altrimenti potete anche non considerarla.

Un desiderio è un pensiero che rincorre una
sensazione o un sentimento. In che modo si
origina il desiderio? Qual è il processo che determina
questo stato della mente dal quale ci si
dovrebbe liberare? Sappiamo che sul piano fisico
ci avvaliamo dei cinque sensi. La tradizione
spirituale indiana parla di “organi di conoscen
za”, Jñana-indriya, con ciò indicando orecchie,
occhi, naso, mani e bocca e i relativi cinque sensi:
udito, vista, olfatto, tatto e gusto. Con i sensi
si acquisisce la conoscenza del mondo esterno:
possiamo, infatti, vedere, toccare, udire e via dicendo.
Tuttavia, ai sensi, pur essendone parte,
non è direttamente associato alcun desiderio.

Esso è infatti un processo: si comincia toccando
e, se al tatto vi è sensazione di morbidezza,
allora si prova piacere; viceversa, se l’oggetto
punge, sentiamo dolore. Questo vale anche per
il gusto, la vista e tutti gli altri sensi. Il processo
però continua perché, se si limitasse esclusivamente
al piano delle sensazioni, non potrebbe
esservi desiderio. Una volta individuato quanto
è all’origine di piacere o dolore, si apre una fase
in cui si è attratti dalle cose piacevoli e si cerca
di evitare quelle sgradevoli. Tale fase è più complessa,
perché implica attaccamento e avversione:
ovunque, le nostre esperienze sono definite
da ciò che desideriamo o non desideriamo:
cibo, libri, persone, paesi, nazioni, religioni…
tutto quel che cade all’interno del processo,
fino al punto in cui quanto ci circonda assume
il colore di ciò che ci attrae o ci respinge.

Questo, tuttavia, non è ancora un desiderio
in senso pieno, perché sono interessati solo il
corpo fisico e quello astrale. L’ultima fase, creatrice
di questa “mente del desiderio”, è la vera
responsabile del problema. Qui, infatti, il processo
coinvolge anche la mente, giacché essa
ricerca costantemente la ripetizione delle esperienze
piacevoli e la rimozione di quelle sgradevoli.
Tale attività è fonte di dipendenze, di
guerre ed egoismi, di tutto ciò che costituisce
un problema per la società umana. È un punto
di estrema rilevanza per chi percorre un cammino
spirituale, perché la causa del problema
è il coinvolgimento globale della nostra intera
personalità: il fisico, l’emotivo e il mentale entrano
a far parte di questo processo, il quale
distorce la natura della nostra mente.

Perché allora, appagando un desiderio, spe
rimentiamo la “felicità”? Pensiamo, per esempio,
a quando vediamo un’automobile che ci
piace e che riusciamo poi ad acquistare; oppure
a quando la persona di cui siamo innamorati diventa
il nostro partner; o a quando otteniamo
un impiego in quel bellissimo ufficio proprio
dietro l’angolo di casa. Consideriamo “felicità”
ogni esperienza di soddisfazione dei nostri desideri.
Ciò accade perché, almeno per un istante,
non siamo più tormentati dalla smania di
volere quell’oggetto particolare e, per un breve
momento, tutti i pensieri che comprendono la
percezione del sé si acquietano, svanendo gradualmente.

La felicità si può descrivere come
l’esperienza di libertà dal desiderio, la cui assenza
è direttamente connessa con la felicità e con
l’oblio di sé. Una volta Madame Blavatsky, parlando
della nostra reale difficoltà a vivere una
spiritualità autentica, fece ricorso a parole forti,
cosa che talora soleva fare nel descriverla. Ella
sosteneva la necessità di “paralizzare” la personalità
per poter vivere la vita spirituale, concetto
già espresso da san Paolo nella seconda lettera
ai Corinti, quando afferma che essere assenti
nel corpo significa essere presenti a Dio.

Non può esserci egoismo nell’esperienza
dell’autentica felicità. A un’osservazione più
attenta, si può comprendere che la felicità è
l’espressione di un qualcosa che origina ancor
più nel profondo. Si dice che dietro il desiderio
vi sia la volontà, dietro Kama, Atma; tuttavia,
nell’esistenza ordinaria ciò non si rivela mai
completamente ed è necessario riflettervi. La
vita spirituale può sembrare assai complicata,
ma la si può anche guardare con occhi diversi.
In molti casi l’esperienza spirituale è assai semplice
e non dipende da quanto si studia, si legge
o impara. Certe volte, infatti, per vivere questa
esperienza, pensiamo di doverci impegnare
sempre di più con nuove teorie e pratiche ma,
dal mio punto di vista, quest’idea non è corretta.

Porto un esempio banale citando il sole. In
ogni momento di ogni giorno esso risplende
su tutto il pianeta e talvolta è completamente
celato alla vista, oscurato dalle nubi. Analogamente,
nella nostra vita individuale, l’assenza
di luce è dovuta alle nubi di emozioni, pensieri
e desideri egoistici che proiettiamo attorno a
noi.

Possiamo tuttavia accedere alla nostra luce
interiore esercitando una certa quantità di controllo.
Nei momenti di felicità autentica, quelle
nubi all’improvviso si dissolvono e ci rendiamo
veramente conto che tale esperienza riguarda
qualcosa di più profondo. In termini tecnici si
parla di Manas-Taijasi, cioè di mente illuminata
da Buddhi, il sole spirituale che è dentro di noi.
La sua semplicità, che è anche il nostro obiettivo,
è tutta qui e le varie tradizioni suggeriscono
diverse teorie e pratiche per poterla raggiungere.
In particolare, c’è una frase contenuta ne La
Voce del Silenzio (v. 300) che da quarant’anni rappresenta
per me un enigma: “La compassione non
è un attributo; è la Legge delle leggi”.

Perché la compassione dovrebbe essere più
potente del Karma, dei cicli o della forza di gravità?
Nella sua normale accezione, essa è il desiderio
di dare sollievo alla sofferenza altrui, cosa
certamente straordinaria, ma non più di tutte le
altre leggi. Ovviamente, questo vale solo in apparenza.
C’è un’espansione dal centro del nostro
ego verso gli altri quando, compassionevoli,
li avvolgiamo con il nostro amore. Per quegli
Esseri che sono diventati perfetti nella compassione
non esiste separazione o differenza tra sé
e gli altri. L’esperienza della “Legge delle leggi”
è dunque quel processo di continua espansione
dal proprio centro ed è una possibilità alla nostra
portata.

Molto spesso, per il ruolo che occupo, incontro
gruppi di teosofi e mi chiedo cosa li motivi
a partecipare alle nostre riunioni. All’inizio
del percorso spirituale ciò capita, credo, sull’onda
di un bisogno, quale il desiderio di ascoltare
qualcosa che lo faccia star meglio e a proprio
agio, o in pace. È naturale che sia così e va bene,
ma c’è dell’altro. In incontri come il nostro,
mentre siamo assieme, è possibile sperimentare
qualcosa di particolare, di cui sembriamo avere
consapevolezza quando accade e che si può
descrivere come una sensazione di espansione,
come un sentirsi più grandi. È la possibilità di
un’unione, è un esperimento di armonia: quando
ha luogo, qualcosa accade.

Mi è sempre più chiaro che, in questa particolare
fase del mondo contemporaneo, ce n’è
un enorme bisogno. Molti di noi sono consapevoli
che, dentro ciascuno, sta accadendo qualcosa;
come se una pressione interna imprimesse
un senso di urgenza e un qualcosa di grande
cercasse di farsi strada per trovare espressione
in questo mondo, nonostante la nostra indisponibilità,
perché troppo indaffarati. Credo che
il valore intrinseco delle nostre riunioni stia
nella possibilità di compiere una grande opera
mettendoci a disposizione di qualcosa che ci è
ignoto: possiamo attribuirgli il nome di Maestri,
Guide, o altro, ma sappiamo veramente poco di
cosa si tratti.

Compassione, apertura, disponibilità, dunque:
queste so sono le prerogative di cui ora c’è
grande necessità. Certo, si richiede sempre ulteriore
conoscenza ma, se ci si limiterà solo a
quella, il lavoro della Società Teosofica risulterà
inutile.

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