La fine di Rabindranath Tagore

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La fine

(di Rabindranath Tagore)

E’ ora che io parta, mamma;
io sto per partire.
Quando, nel buio che scolora
dell’alba solitaria, stenderai
le braccia nel letto
cercando il tuo bambino,
io dirò: «Il bambino non c’è» –
mamma, io sto per partire.

Diventerò una debole corrente
d’aria, e ti carezzerò;
diventerò poiccole onde
nell’acqua, quando ti bagni,
e ti bacerò e ti bacerò ancora.

Nelle notti di tempesta, quando
la pioggia picchia sulle foglie,
mi udrai bisbigliare nel tuo letto,
e il bagliore della mia risata
entrerà nella tua stanza con i lampi
attraverso la finestra aperta.

Se rimarrai sveglia fino a tardi
nella notte, pensando al tuo bambino,
ti canterò dalle stelle una nenia:
«Dormi, dormi, mammina».
Mi poserò furtivo sul tuo letto
sui raggi vaganti della luna,
e riposerò sul tuo seno
mentre tu dormi.

Diventerò un sogno, e scivolerò
nella profondità del tuo sonno
attraverso i forellini
delle tue palpebre;
e quando ti desterai
guardandoti intorno spaventata,
volerò fuori nel buio
come una piccola lucciola.

Quando, alla grande sagra del puja,
i bimbi dei vicini verranno a giocare
intorno alla casa,
mi fonderò nella musica del flauto
e pulserò tutto il giorno nel tuo cuore.

La zietta verrà con i doni del puja
e chiederà: «Sorella,
dov’è il nostro bambino?»
Le dirai dolcemente, mamma:
«E’ nelle pupille dei miei occhi,
è nel mio corpo e nel mio cuore».

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