La gioia spirituale

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La gioia spirituale

(del venerabile Ajahn Tiradhammo)

© Ass. Santacittarama, 2005. Tutti i diritti sono riservati.
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(Traduzione di Chandra Candiani)

Il seguente insegnamento è stato adattato da un discorso tenuto dal Ajahn
Tiradhammo, il settimo giorno di un ritiro di dieci giorni, in Svizzera, nel
maggio del 1988. I ‘sette fattori di illuminazione’ a cui si fa riferimento
nel discorso sono: consapevolezza, investigazione, energia, gioia,
rilassamento, concentrazione, equanimità.

“Quando c’è gioia, siamo pronti a scoprire nuove cose… Se abbiamo già
deciso che la vita è sofferenza, non ci accorgeremo di nient’altro.”

Talvolta, possiamo fare l’errore di pensare che la vita religiosa sia una
sorta di autoflagellazione. Oppure, tendiamo a credere che la vita
spirituale dovrebbe sfociare in una qualche speciale purezza. Con questa
idea, guardiamo noi stessi e naturalmente non vediamo che impurità;
essendoci fatti un concetto dell’illuminazione, esaminiamo le nostre menti e
non scorgiamo che l’opposto, confusione e conflitto.

Ma il fatto è che queste idee che abbiamo sulla pratica non sono che idee.
Pensare: “Io sono qui e il Nibbana è da qualche parte lassù; io sono solo un
idiota confuso e il Nibbana è tutto purezza e profondità” non è che una
proiezione di concetti. Quando si cala nella pratica reale, l’illuminazione
significa in realtà essere consapevoli della confusione stessa. La saggezza
è consapevolezza dell’ignoranza. Non si tratta di conoscere la nostra
saggezza, ma di usare la saggezza per conoscere l’ignoranza!

Tutta la pratica della presenza mentale consiste nel comprendere la vera
natura dell’essere proprio qui. Non cerchiamo di collegarci con qualche
sorta di ‘saggezza nibbanica’ che fluttua nello spazio, né aspettiamo che la
saggezza ci cada in braccio. Cerchiamo di essere consapevoli della natura
della condizione umana così com’è. Quando realmente comprendiamo la vita per
come è, allora cominciamo a trascenderla. Se cerchiamo di trascenderla prima
di conoscerla veramente, siamo solo preda di un’illusione.

Ajahn Chah usava dire: “Dobbiamo accollarci le cose, prima di poter
comprendere quanto sono pesanti.” Vedere quanto sono pesanti è vedere dukkha
(impermanenza). Avendo visto dukkha, lasciamo andare. Quando abbiamo
lasciato andare, ci accorgiamo di come si possa essere leggeri. “Ah, che
sollievo!”. E’ qui che subentra la gioia o piti, come viene chiamata nei
‘fattori di illuminazione”.

Ci sono molti modi di tradurre questo termine piti. Così come ci sono molti
tipi di gioia. Ieri abbiamo parlato di come, spinti da dukkha a ricercare la
via, arriviamo alla fiducia e questa fiducia, a sua volta, condiziona la
gioia.

Dunque, abbiamo varie qualità di gioia che sorgono nella pratica per cause
diverse, e personalmente ho trovato molto utile riflettere su di esse.
L’importanza
della gioia e la sua funzione sembrano andare perdute quando parliamo
dell’addestramento
spirituale.

Piti non è solo il piacere del divertimento. Ma è un genere di esperienza
che conduce ad aprirsi alla vita, a risvegliarsi. Quando c’è gioia siamo
pronti a scoprire nuove cose. D’altro lato, se abbiamo già deciso che ‘la
vita è sofferenza’ e la riteniamo ‘insopportabile’, non ci accorgeremo di
nient’altro.

Guardate i bambini: notate come osservano e vogliono scoprire, la
fascinazione che hanno per le cose. Tristemente, da adulti, siamo troppo
sofisticati per andare in giro a esaminare i fiori o altre piccole cose.
Funzioniamo a un livello molto più concettuale. Quando vediamo un fiore,
pensiamo ‘fiore’. E poi: “Sì, so tutto riguardo ai fiori. Ho visto fiori
tutta la vita e questo è solo un altro fiore.” In realtà, ogni fiore è un
fiore unico: è qui, in questo momento, in questo tempo, in questo posto,
questo fiore.

Se, per esempio, riusciamo ad ascoltare veramente un uccello che canta, c’è
solo il suono. Ed è molto diverso dal pensare: “Oh, un altro uccello che
canta.” Se ascoltiamo realmente, c’è semplicemente il suono che accade
proprio in questo momento, in questo posto, in questa situazione; e c’è il
conoscere tutto questo, c’è l’ascoltare. Ed è una realtà completamente
diversa dal pensare ‘un uccello che canta’.

Se ricadiamo sempre nei concetti, allora il dialogo interno non fa che
chiacchierare: “Uccello che canta. Fiore. Persona che parla. Vorrei che
stessero zitti. Candela che brucia…” e coì via. E pensiamo di sapere tutto
della vita! Non facciamo che giocare con questi concetti nella nostra testa
e tutto quello che essi fanno non è che muoversi da una parte all’altra del
cervello, escono dalla memoria per essere verbalizzati e poi vi rientrano.
Se viviamo solo con dei concetti della vita, può diventare molto noioso,
sono sempre le stesse vecchie parole: fiore, uccello, albero.

Benché sia naturale che apprendiamo e comprendiamo attraverso il linguaggio,
molti di noi ne sono diventati prigionieri. Con la meditazione abbiamo ora
l’opportunità
di portare un profondo cambiamento nella nostra civiltà occidentale.
Cerchiamo di comprendere a un livello non concettuale. In meditazione
comprendiamo la natura dell’esperienza in modo diretto.

Le persone completamente identificate con le parole, possono sentirlo come
minaccioso. Ma non stiamo parlando di aggirare completamente le parole;
dobbiamo comunque esprimere noi stessi; dobbiamo comunicare. Ma dovremmo
riconoscere che le parole che usiamo nella comunicazione non sono le stesse
dell’esperienza che cerchiamo di trasmettere.

Nella nostra società si dà così poco spazio al silenzio. Ai giorni nostri,
le parole sono pronunciate a voce così alta e con tanta forza che talvolta
sono l’unica cosa che sentiamo. Ma è proprio lo spazio del silenzio che ci
fa accedere a un altro modo di entrare in relazione e che lo nutre. Che
meraviglia ritornare come bambini e non essere limitati dalle parole!

All’inizio, i bambini non hanno una parola per il fiore. “Cos’è?” chiedono.
E noi rispondiamo: “E’ un fiore.” Va bene, devono imparare a comunicare, ma
forse dovremmo aggiungere: “Béh, è chiamato fiore, ma la parola non è quel
che veramente è. Ha la sua propria perfetta natura che è così com’è.”
Conoscere questo ‘così com’è’ è conoscere la gioia. E conoscere la gioia
significa che possiamo riportare in vita molte delle belle qualità che
avevamo perduto. Ora abbiamo una chiave segreta che ci aiuta a liberarci
delle nostre abitudini.

La qualità della gioia può anche essere ulteriormente sviluppata. Al di là
di piti, o della gioia spirituale, c’è una qualità molto più stabile, nota
come sukha. Di solito, questo termine sukha viene tradotto semplicemente con
‘felicità’, l’opposto di dukkha, ma non è sufficiente. La felicità
momentanea è come una farfalla che svolazza attorno. Certo va bene, ma non è
la profonda qualità di benessere contenuta nel termine sukha. Vivendo così
tanto nei concetti, la nostra vita è diventata noiosa, e l’eccitazione
passeggera ha assunto per noi una grande importanza.

Sukha, d’altro lato, significa: “Va tutto bene così”, è un senso di calma e
di benessere che pervade tutto il corpo e la mente. Rende la mente colma di
pace e raccolta, creando una solida base per il samadhi, la concentrazione.

Tornando alla gioia, la gioia è spontanea. Non puoi prevederla. Non puoi
crearla. Sorge nel momento. Quando c’è vera gioia, sei nel momento. E in
questo modo la gioia diventa per noi un punto di riferimento significativo:
se c’è vera gioia, sappiamo di essere nel momento, e se siamo veramente nel
momento, allora c’è vera gioia.

Dunque, cercate di scoprire da dove proviene la gioia. Notate cosa la
sostiene e cosa la fa svanire. Quando lo facciamo stiamo cominciando a
coltivare la gioia, come uno dei ‘fattori di illuminazione’.

La gioia diventa una delle qualità che ci conducono al risveglio.

Ajahn Tiradhammo, canadese, è un discepolo anziano del venerabile Ajahn
Chah, e dal 1988 abate del monastero Dhammapala a Kandersteg in Svizzera
(www.dhammapala.ch).

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