La libertà del cuore
(del venerabile Ajahn Sumedho)
© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro “La mente e la via”
Traduzione di Elizabetta Valdrè
Estratto del libro “La mente e la via”, su gentile concessione dell’Editore
Ubaldini.
Molte persone si servono del concetto di libertà come ideale da seguire
nella vita. Vogliamo ottenere una qualche forma di libertà: libertà fisica,
spirituale o emotiva. Nessuno vuole essere imprigionato, costretto, legato,
perciò la libertà diventa un ideale. È un concetto importante da
contemplare, perché non sempre capiamo cosa significhi libertà.
Per buona parte della vita proviamo attaccamento agli ideali, e la nostra
società ce ne fornisce una gran quantità a cui aggrapparci. La libertà è uno
di questi. Aggrapparsi all’ideale senza una saggia riflessione sulle sue
reali implicazioni ci porta all’insoddisfazione, perché la vita raramente ci
dà la libertà che vorremmo avere o che pensiamo di meritare.
Cercare la libertà che parte dal desiderio
Possiamo sentirci continuamente delusi dalla vita, non perché stiamo vivendo
qualcosa di veramente sbagliato, ma perché la vita non ci dà quello che
vogliamo o che pensiamo di meritarci. Ci capita spesso di dire: “Non è
giusto”. Pensiamo che le cose dovrebbero sempre essere giuste. È facile
rendersi conto che, al momento della nascita, certi possiedono il meglio che
offra la vita, altri invece nascono in situazioni orribili e infelici. Tanta
disuguaglianza è davvero ingiusta, non è così? Perché gli americani non
distruggono gli armamenti? Perché in Medio Oriente non fanno altro che
combattere, bombardando e distruggendo una bella città come Beirut? Perché
si muore di fame in Africa? Perché nell’America Centrale ci sono povertà e
ingiustizia? Non è giusto, non vi pare? Non è giusto che la vita sia così, e
desideriamo che sia altrimenti. Quello a cui tendiamo è la libertà, ma ci
tengono a freno le convenzioni e persino il corpo fisico.
L’aspetto paradossale in tutto questo è che, a quanto pare, seguire i propri
impulsi e desideri non porta veramente alla libertà. Ho tratto questa
deduzione dalla mia esperienza di vita. Ho scoperto che quando pensavo di
essere libero di seguire i miei desideri, finivo per sentirmi confuso e
schiavo del desiderio. Avevo un’infinità di scelte, una molteplicità di
possibilità da cui essere attratto o respinto. La nostra ‘società libera’
non è che questo. Però, a quanto pare, la varietà di scelte e di possibilità
porta sempre a uno stato di confusione.
Al contrario, in una società che presenta un minor numero di opportunità, la
vita non è così complicata. La vita monastica, per esempio, non lo è perché
non dà molte scelte. Quando mi sveglio al mattino, non posso domandarmi:
“Che mi metto stamattina?” “Come mi pettino i capelli?” Non c’è grande
possibilità di scelta. A molti la vita monastica sembra una sorta di castigo
in cui tutto è proibito; non puoi far questo, non puoi far quello. L’effetto
della disciplina sulla mente è quello di semplificare la vita. Non si resta
intrappolati in una quantità di scelte sul piano dell’esperienza sensoriale.
Quando vi abbandonate alla vita monastica, quando smettete di resisterle e
di desiderare altre opportunità per fare ciò che volete, la vostra vita ne
risulta, ovviamente, semplificata. È molto più chiara e diretta.
La libertà non si trova nel desiderio, ma c’è libertà nel Dhamma. Si può
condurre una vita che non sia basata sulle preferenze e sugli attaccamenti.
E quando la vita non è più impegnata in scelte infinite, quando non ci sono
più tutte le opinioni, le opportunità e le idee con cui siamo messi a
confronto in una società complicata, c’è la semplicità. La mente (o il
cuore) si liberano per mezzo della semplicità e di una direzione morale.
Siamo capaci di rispondere e aprirci alla vita come non potremmo fare in una
vita complicata dal desiderio, dalla preferenza e dall’attaccamento
personale. Essendoci aperti alla vita, ci rendiamo conto che la libertà del
cuore non è libertà di fare quello che si vuole.
Qualsiasi desiderio derivi dall’ignoranza ci porta ad attività o a
esperienze non abili. Il desiderio ci spinge sempre a ottenere qualcosa, a
sbarazzarci di qualcosa o ad aggrapparci a qualcosa, perché tale è la natura
del desiderio. Non appena il desiderio ottiene ciò che vuole, inizia a
volere qualcos’altro. Non ho mai visto un desiderio soddisfatto, un
desiderio felice per aver ottenuto ciò che voleva. Potrà esserci una certa
soddisfazione personale nel momento in cui si ottiene ciò che si vuole, poi
però il desiderio inizia a muoversi verso qualcos’altro. Non si può essere
soddisfatti nemmeno quando si ottiene ciò che si desidera, nemmeno se si
possiedono ricchezza, potere, prestigio e il meglio che offre la vita. Per
esempio, se diventaste molto ricchi, iniziereste immediatamente a
preoccuparvi di perdere tutto il vostro denaro. La paura della perdita e il
desiderio di guadagno non hanno mai fine.
Fintanto che siamo intrappolati nelle illusioni che il desiderio crea
dall’ignoranza, il nostro resta un mondo fondato sulle illusioni. Il
desiderio non libera mai il cuore; lo condiziona a sperare in una libertà
futura. La ricerca della libertà tramite il desiderio non fa altro che
aumentare la schiavitù e l’illusione.
Aprirsi al Dhamma
Il Buddha diede risalto all’indagine sulle illusioni di cui siamo preda
tramite l’esame della natura stessa del desiderio, della sofferenza e della
cessazione del desiderio. Esaminando il desiderio, vediamo che non è altro
che un movimento. Non è una persona, né un assoluto; sorge e scompare:
questo è il movimento del desiderio. Se non lasciamo che il desiderio cessi,
un desiderio ne condizionerà un secondo che, a sua volta, ne condizionerà un
terzo e il processo andrà avanti all’infinito.
Il termine buddhista ‘attenzione’ (in Pali: sati) significa ‘riflettere,
portare alla coscienza, portare alla mente le cose così come sono’. Per
essere attenti, bisogna concentrare gli sforzi sul momento presente, a meno
che non vi sia un pericolo immediato verso il quale l’istinto di
conservazione vi rende attenti. Nelle situazioni normali, dovete esercitare
un certo sforzo per osservare, in modo imparziale, come sono le cose.
Impariamo a osservare senza giudizio, a non proiettare qualcosa sul momento,
che poi cercheremo di giustificare o di difendere. Quando attenzione e
saggezza cooperano, c’è la capacità di prendere nota e di essere ricettivi.
Diventiamo sensibili alle cose come sono; in breve, al Dhamma.
Perciò, ‘Dhamma’ è un termine che abbraccia tutto. Significa ‘le cose così
come sono realmente, senza alcun pregiudizio’. Significa ‘la legge
naturale’. Quando contempliamo il Dhamma, non partiamo da un’idea
preconcetta. Se ne dessimo una definizione precisa, cominceremmo a cercare
qualcosa, non vi pare? Non è quella la via. La via dell’attenzione consiste
nell’aprire la mente al come è: qui e ora.
Spesso si ignorano tempo e luogo. Possiamo essere qui e desiderare di essere
altrove. Il tempo è ora, ma raramente siamo col momento presente; gran parte
della vita è occupata dai ricordi del passato o dalle aspettative e dalle
paure per il futuro. Facciamo progetti per il futuro e pensiamo al passato,
ma non prendiamo neppure nota del vero Dhamma del qui e dell’ora – così
com’è adesso. Pensando al passato e al futuro siamo preda della forza del
desiderio e attratti verso qualcos’altro. Riflettere in tal modo sulla
condizione umana aiuta a capire perché il mondo è così com’è.
L’intenso desiderio del cuore
Vediamo come nella vita moderna la gente cerchi di rendere giusta ogni cosa
o di impedire terribili ingiustizie. È una nobile causa. È apprezzabile. Ma
non è sufficiente. Finisce che cerchiamo di pulire la casa e di mettere a
posto ogni cosa. Ma non appena ne abbiamo pulito una parte, l’altra comincia
di nuovo a sporcarsi. È come cercare di pulire Londra con uno spazzolino.
Non si può. Non troverete mai la perfezione nelle strutture sociali che
dovrebbero assicurare la giustizia, l’uguaglianza e la clemenza, perché vi
si intrufola l’imperfezione.
La società diventerà ben ordinata, equa e giusta quando sarà libero il cuore
della gente. Finché sarà preda dei desideri, delle richieste, delle
illusioni e dell’ignoranza, il meglio che si possa fare è avere leggi che
creino determinate norme. Se qualcuno non si attiene alle norme, finirà in
prigione. È il meglio che si possa fare. Non avremo mai vera uguaglianza o
giustizia o clemenza nel regno sensoriale, perché esse provengono dal cuore.
Non scaturiscono dagli occhi, dalle orecchie, dal naso, dalla lingua o dal
corpo; è solo nel cuore che le cose sono eque, che ci sono clemenza,
giustizia e uguaglianza.
Cosa intendiamo per cuore? La parola può essere usata per indicare un organo
del corpo, o può riferirsi alla nostra natura emotiva. Di solito si
riferisce ai sentimenti. Per esempio, se siamo delusi, diciamo che ‘ci hanno
spezzato il cuore’. Poi, c’è la parola ‘mente’ che si riferisce a qualcosa
di meno emotivo. La mente ha a che fare col processo intellettivo, con la
capacità di razionalizzare e di pensare; quando, però, parliamo della
capacità di sentire e di reagire con amore, usiamo la parola ‘cuore’, non la
parola ‘mente’.
Tutti anelano alla libertà, in un modo o nell’altro. Speriamo che arrivi
qualcuno a esaudire i nostri desideri e a renderci felici, come Cenerentola
in attesa del principe azzurro. Forse siamo in attesa del Messia, o di
Maitreya se siamo buddhisti, o del primo ministro, del presidente giusto che
metterà il paese sulla buona strada. C’è il desiderio intenso di qualche
forza esterna, di qualcosa al di fuori di noi, che ancora non si è
presentata.
Di solito, quel genere di aspirazione viene esaudita, in ogni cultura, dalla
sua religione, dall’aspirazione spirituale verso qualcosa di supremo.
L’aspetto sensoriale dell’umanità non riesce mai a soddisfarci veramente;
ecco perché esiste la religione: per soddisfare quel bisogno
dell’aspirazione umana. Mira al divino, o a ciò che c’è di elevato, a
qualcosa verso cui dobbiamo innalzarci. Quando qualcosa vi ispira, lo
spirito sale in alto, non sprofonda verso il basso. Quando sprofonda, si
colma di angoscia, di disperazione, di vanità o depressione; è quel che
chiamiamo ‘andare all’inferno’. Vi si spezza il cuore, lo spirito affonda e
voi non coltivate aspirazioni, non puntate a qualcosa di elevato.
La nascita e la coscienza sensoriale rafforzano il senso di separatezza. La
coscienza sensoriale è una coscienza che opera separazioni e discriminazioni
che ci fanno sempre sentire alienati dalle cose. Sul piano sensoriale c’è
sempre una sensazione di separazione e di conflitto.
Possiamo aspirare alle cose mondane, alla ricchezza e alla fama, ma non sono
sufficienti. Pur aspirando a una posizione mondana, nel momento in cui la
contempliamo, ci rendiamo conto che non è effettivamente ciò che vogliamo.
Proviamo naturalmente l’aspirazione a elevarci. È il desiderio intenso
dell’unione o non separazione. In termini buddhisti, è l’aspirazione al
Dhamma, alla verità. Quando abbiamo un’aspirazione simile, ci eleviamo
invece di lasciarci intrappolare dall’attaccamento ai sensi.
Accettare le condizioni planetarie
Il corpo umano è composto da elementi planetari: l’elemento solido,
l’elemento liquido, il fuoco e l’aria. Dobbiamo vivere del cibo che cresce
sul pianeta. Abbiamo bisogno dell’acqua, del calore del sole, abbiamo
bisogno dell’aria. Quando il corpo muore, gli elementi fanno ritorno al
pianeta; non vengono trasportati in cielo. In questa vita sensoriale che
comporta l’esistenza in un corpo umano, dobbiamo accettare le limitazioni
del corpo terreno, non desiderare di uscirne per far ritorno al pianeta. Un
desiderio simile sarebbe un’illusione dell’ego. Sarebbe come dire: “Non mi
piace questo pianeta. Sono stufo di questo corpo. Verrò trasportato in uno
spazio più sottile, più etereo”. Un desiderio simile si basa sull’illusione
di un sé separato, sull’avversione nei confronti di quel sé separato, e sul
desiderio di ottenere qualcosa di meglio, di più raffinato, o più sottile.
Questo è movimento del desiderio, non aspirazione.
Una delle lezioni più importanti che impariamo nella meditazione è
l’accettazione della terra e del corpo. Meditiamo molto sul corpo;
all’inizio la meditazione si focalizza sul corpo fisico. Impariamo a calmare
il corpo e a vivere senza ignorarne i bisogni o cercare di piegarli ai
nostri desideri. Se non comprendiamo il corpo, possiamo trascurarlo o
trattarlo molto male. Quando, per esempio, meditando proviamo dolore,
possiamo cercare di far tacere il corpo imponendogli di non sentirlo.
Possiamo cercare di ottenere uno stato simile a una trance in cui ci
scordiamo del corpo. Ma quando il corpo inizia a sentire dolore o fame,
quando dobbiamo andare al bagno, pensiamo che sia disgustoso. Non è giusto,
non vi pare? Entriamo in un regno di beatitudine ed ecco che,
improvvisamente, dobbiamo andare al bagno. Non è giusto!
Contemplando il corpo nella meditazione non ci proponiamo di assumere una
posizione favorevole o contraria nei suoi confronti, ma di capirlo. È così,
il corpo è così. Non pensiamo ad esso in modo personale.Che sia attraente o
sgraziato, vediamo il corpo semplicemente come corpo. Non vediamo più il mio
corpo in opposizione al tuo corpo; è solo questo corpo. Sente in questo
modo, è in questo modo e funziona in questo modo.
Quando lo accettiamo per quello che è, il corpo non crea tanti problemi. I
corpi creano problemi quando non li accettiamo, quando li respingiamo, li
esaltiamo, li usiamo come non dovremmo. Allora i corpi possono diventare
condizioni davvero disgraziate e infelici con cui convivere. Ma il corpo in
sé non è un ostacolo quando lo accettiamo, lo comprendiamo, lo conosciamo.
Questa è l’accettazione della nostra condizione planetaria, con tutto quello
che comporta: il processo di invecchiamento del corpo, le malattie che
contrae e la sua morte. Essendo nato, cresce, invecchia e muore. È ciò che
si prevede che faccia. Quando lo consideriamo Dhamma, non presenta più alcun
problema. È come è.
L’aspirazione al divino
Il corpo umano non è un fine in sé. Non importa quanto è bello o sano, non è
quello che siamo, non possiamo mai sentirci soddisfatti delle semplici
funzioni corporee. Non è ciò che siamo, perciò non possiamo mai sentirci
davvero tranquilli e a nostro agio col corpo; o col pianeta. C’è
l’aspirazione, il sollevarsi verso qualcosa di più elevato, o di più
sottile.
Quando osserviamo la vita planetaria, cosa vediamo? Se studiamo la vita
animale sul pianeta, ci accorgiamo che ha come fulcro la sopravvivenza: per
sopravvivere gli animali debbono essere forti, intelligenti o essere in
maggioranza. Gli animali non stipulano accordi e non possono avere leggi.
Per esempio, sul piano animale non ci si può mettere d’accordo per non
uccidere. Anche noi del regno umano, non siamo molto meglio, non vi pare?
Siamo creature molto distruttive, disposte a ucciderci l’un l’altro e a
uccidere gli animali, ma possiamo aspirare a elevarci al di sopra di tutto
ciò.Se fossimo solo animali, non saremmo neppure capaci di aspirare a
qualcosa di meglio. Ci sarebbero solo la legge della giungla e la selezione
naturale; non concepiremmo nemmeno l’idea di qualcosa di più elevato. Ma lo
facciamo. Possiamo pensare alla giustizia, all’uguaglianza, all’equità;
abbiamo una mente che può concepire simili possibilità. Lo spirito umano
aspira a un piano più elevato di quello della pura e semplice sopravvivenza.
La mente che sprofonda afferma che gli esseri umani sono in ogni caso solo
animali: la selezione naturale è una legge di natura e le cose stanno così.
Questa mente pensa che non siamo meglio degli altri animali, e che dobbiamo
accettare il fatto. Dovremmo procurarci quanto possibile per noi stessi,
perché dobbiamo sopravvivere. Questa mente pensa: “Io mi sono preso la parte
che mi spetta. Se tu sei così stupido e debole da non prenderti la tua,
peggio per te; così è, peccato”. È un affossamento pessimista e fatalista
dello spirito ai livelli più infimi. Ma parlando con la mia mente, io so che
posso aspirare a qualcosa di più elevato e vedo le persone intorno a me
pensarla allo stesso modo. Gli esseri umani possono aspirare al divino.
Parlando del divino, cosa significa effettivamente? ‘Divinità’ non è una
parola che di solito si usa nel Buddhismo. Spesso, la gente si accosta al
Buddhismo perché è stanca della divinità. Tutto quel parlare di Dio e della
vita oltre la morte… li hanno stancati. Non ci credono. Vogliono qualcosa
di più realistico. Non mirano a qualcosa che avverrà dopo la morte o nella
prossima vita, a qualcosa che non vedono, non conoscono, non toccano. Ma se
non ci fosse nulla di divino, non potremmo concepire la divinità. La
capacità di concepirla deriva dal fatto di averla sfiorata in ciò che
conosciamo e sperimentiamo effettivamente… per lo meno a sprazzi.
La divinità della gentilezza, della compassione, della gioia e della
serenità
La gentilezza di una madre nei confronti del figlio è una specie di
divinità, non vi pare? È un’esperienza di divinità. Dare con generosità solo
perché qualcuno ha bisogno di qualcosa, sacrificare i privilegi e le
comodità personali per il benessere altrui, è per me un tocco di divinità.
Quando siamo equi e onesti con le cose, quando non agiamo in base a
pregiudizi o inclinazioni, quando c’è gioia e serenità mentale, quando la
mente è chiara e non vincolata a stati inferiori, siamo in contatto con la
divinità.
Invece di parlare della divinità, i buddhisti dicono: “La nostra intenzione
è quella di realizzare il nibbana”. Che cosa significa realmente nibbana? Si
riferisce alla realizzazione che otteniamo quando non ci aggrappiamo a
nulla; la realizzazione in cui sperimentiamo le qualità generose della
gentilezza, della compassione, della gioia e della serenità. Creiamo un
collegamento con qualcosa di elevato; siamo allineati col divino;
sperimentiamo il vero benessere, la vera tranquillità e beatitudine.
Se foste in procinto di incontrare un essere divino, che aspetto pensereste
che abbia?
Che percezione prende forma nella vostra mente? Quando, ad esempio, pensate
a Gesù Cristo, è probabile che il pensiero si accompagni alla percezione
della compassione. Osservando quello che accade nella mia mente, mi accorgo
che quando non c’è alcun interesse personale, quando non faccio richieste
alla vita, sorge il sentimento della compassione. Non è qualcosa che
proietto in una situazione; avviene spontaneamente. Quando non c’è alcun
desiderio personale di guadagno o di alcunché d’altro, si manifesta la
compassione per l’infelicità e la confusione degli altri esseri. La
compassione non è uno stato d’animo che deriva da un’idea preconcetta;
niente del genere. È comprensione delle cose così come sono, della quantità
di sofferenza presente nel mondo a causa dell’ignoranza.
Al contrario, provare dispiacere per qualcuno può scaturire da una paura
personale. Qualcuno ha il cancro, e noi pensiamo: “Oh, quel poveraccio ha il
cancro; sono felice di non averlo. Spero di non ammalarmi di cancro”. Allora
proiettiamo le nostre idee su quella persona. Ma quella non è compassione.
Compassione significa apertura vera alle sofferenze altrui, non perché si
voglia ricavarne qualcosa, ma perché si è disposti a essere pazienti e a
condividere le infelicità che altri stanno sopportando. Siamo disposti a
sopportare la disgrazia, la tristezza e l’infelicità che vediamo intorno a
noi, senza cercare di uscirne o di incolparne qualcuno.Quella è la
compassione; è ciò che chiamerei una qualità divina.
Per me la gioia è il sentimento che si prova quando vediamo che nella vita
una cosa veramente bella è anche buona. È un sentimento molto positivo e non
deriva dalla volontà di possesso del buono o del bello; non c’è gioia in
questo. La gioia è un modo spontaneo di entrare in contatto col bello, col
buono, col vero, presente negli altri esseri e in ogni cosa. In questo stato
di letizia, non c’è nulla dell’invidia e della gelosia che provengono dal
coinvolgimento di aspetti personali. Se siamo ancora intrappolati nella
visione egoica, quando vediamo qualcuno veramente bello e buono, possiamo
provare invidia. Pensiamo: “È meglio di me”. E forse proseguiamo il discorso
dicendo: “Sarà anche buono, però… ” Lo mortifichiamo, non è così? Godere
della bellezza, della verità o della bontà solo se la possediamo, non è
gioia. È avidità. L’esperienza vera della gioia è un’altra qualità divina.
La serenità d’animo esiste quando la mente è calma e distaccata. La mente
serena sa stare con la vita, con le cose così come sono, senza attaccamento.
Allora la mente è imparziale, volta alla conoscenza e luminosa. Quella è
un’altra esperienza di divinità.
Libertà è nibbana, la realizzazione dello stato di non attaccamento in cui
sperimentiamo vera gentilezza, compassione, letizia e serenità. Si può
parlare di libertà in rapporto all’equità e alla giustizia, ma ciò di cui
parlo è l’aspirazione del cuore umano al divino, all’unicità e alla non
separazione.
Che cos’è la libertà del cuore? Direi che è la libertà di scelta tra
l’elevazione e lo sprofondamento. Quale volete scegliere? In ogni momento
dato della nostra vita, possiamo provare dispiacere per noi stessi, pensare
a quello che non ci piace e che non va nel mondo, oppure possiamo scegliere
di riflettere sul Dhamma, cercare di capirlo e seguire la nostra aspirazione
al divino.
Domanda: Quando penso alla libertà, mi viene in mente la spontaneità. Se,
quando pratichi l’attenzione, non fai altro che osservare e scrutare tutto,
prima di fare qualsiasi cosa, non significa che hai perso la spontaneità?
Risposta: No, ma hai sottolineato una difficoltà di linguaggio. Quando dici
‘osservare e scrutare’ viene in mente qualcuno impegnato a fare qualcosa. Ma
essere attenti non significa impegnarsi a osservare tutto in modo da non
riuscire a reagire alle situazioni che si presentano. La spontaneità deve
scaturire dalla fiducia, non è così? Non puoi tenerti legato a un’idea
preconcetta ed essere spontaneo.
Per essere spontaneo devi aver fiducia e, in termini buddhisti, la fiducia
ha il proprio fondamento nel Buddha-Dhamma-Sangha. Quando la fiducia si
trasforma in una solida base, non c’è necessità di esseri diffidenti o
ansiosi nei riguardi delle esperienze della vita. La spontaneità opera a
partire da quella fiducia, che non si basa su una visione personale.
La nuda attenzione – la presenza mentale – ci consente di rispondere in modo
spontaneo alle esperienze della vita, perché riponiamo la fiducia nel
Buddha-Dhamma-Sangha. Siamo più spontanei perché non partiamo dall’illusione
fondamentale di un sé che deve proteggersi. Decade completamente l’illusione
sintetizzata in: “Sono uno che deve stare in guardia dalla forze del male o
ne verrò schiacciato”. C’è il riconoscimento, la conoscenza, la purezza del
cuore in cui si confida e ci si acquieta. Il resto si prende cura di sé.
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