La luce della Morte 1

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La luce della Morte 1

di Larry Rosenberg

(prima parte)

(La trascrizione di questo discorso tenuto durante un seminario
dedicato alla meditazione di consapevolezza sulla morte (maranasati) è
apparsa suddivisa in due parti sulla rivista americana Insight
(primavera e autunno 1994).

Per l’importanza dell’argomento e la profondità con cui viene trattato
abbiamo deciso di offrire ai lettori il testo integrale, nonostante la
lunghezza.
Purtroppo Larry Rosenberg ha dovuto disdire la sua presenza al ritiro
in programma a Pomaia (28/8 – 6/9/1998) e annullare il seminario a
Roma proprio sul tema della morte e la pratica del Dharma; con la
pubblicazione di questo suo discorso vorremmo contribuire a
presentarne l’insegnamento su un tema tanto cruciale per il lavoro
interiore)

– Toccare la paura della morte –

La meditazione sulla consapevolezza della morte è una della pratiche
più antiche di tutte le tradizioni buddhiste.

Per citare le parole del Buddha: “di tutte le impronte, quella
dell’elefante è la più grande. Similmente, di tutte le meditazioni di
consapevolezza, quella sulla morte è la più grande”.

(1)Il Libro Tibetano dei Morti fu uno dei primi testi ad attrarre
l’attenzione dei praticanti buddhisti americani negli anni 60/70 e
certamente uno dei più conosciuti.
La grande popolarità in America del buddhismo Vajrayana ha risvegliato
un forte interesse nella meditazione sulla morte in generale e sugli
stati di bardo in particolare.

Il libro di Sogyal Rinpoche The Tibetan Book of Living and Dying è
solo l’ultimo di una lunga serie di testi buddhisti che trattano della
morte e dei vari aspetti ad essa collegati.

Secondo Edward Conze, il noto storico del buddhismo:

Se possiamo credere a Buddhaghosa (l’autore del Visuddhimagga), tra le
40 pratiche meditative esistenti, solo due si possono considerare
benefiche in qualunque circostanza: Lo sviluppo della compassione e Il
ricordo della morte.

Quest’ultima ci induce a una riflessione sulla certezza della morte e
ad abbandonare la ricerca di ciò che è senza valore e ad accrescere
costantemente la nostra agitazione fino a perdere del tutto
l’indolenza.

Tutto ciò è in accordo con Platone quando nel Fedone dice (64A) che
“gli autentici devoti della conoscenza sono solo coloro che praticano
il saper morire o l’incontrare la morte”.

In realtà, per un buddhista poche cose sono salutari come il meditare
sulla morte, inevitabile conseguenza della vita governata da
attaccamento e ignoranza.

Sono molte le forme di Maranasati ( consapevolezza della morte ) che
sono state tenute in alta considerazione fin dai tempi del Buddha.

La nostra cultura non ci incoraggia ad affrontare la morte mentre
siamo ancora vivi e vegeti e posso presumere, anche senza conoscervi,
che provate delle resistenze a intraprendere questo tipo di
contemplazione.

Credo che Woody Allen, con la sua ‘saggezza hollywoodiana’ abbia reso
perfettamente l’idea quando dice in uno dei suoi film: “Non è che
abbia paura delle morte; è solo che non voglio esserci quando accadrà
!”.

Direi che per i praticanti di vipassana è il contrario: noi
riconosciamo apertamente la nostra paura di morire e vogliamo
veramente essere lì quando accadrà!

Molti di noi non prestano molta attenzione al fatto ovvio che moriremo
e cercano in tutti i modi di distrarsi. Perché allora contemplare
formalmente la nostra morte mentre siamo ancora vivi? Perché ci
prepariamo alla nostra morte?

La meditazione formale può essere molto utile per far emergere e
lasciar andare le nostre paure latenti, specialmente la paura che
tutti abbiamo di morire e con la quale possiamo non essere entrati in
contatto.

La consapevolezza della morte è stata per me una pratica molto
importante che ho fatto a volte anche in modo molto intensivo.
Il mio primo contatto con questa meditazione è avvenuto quasi 30 anni
fa in modo molto naturale e informale ; a quell’epoca studiavo con
Badrayana, un insegnante indiano.

Trascorremmo tre mesi in una cittadina messicana, isolata da tutto.

Una sera, mentre ero seduto nella mia stanza e praticavo la
consapevolezza del respiro, egli venne a dirmi con tono entusiasta:
“Interrompi tutto e vieni con me.”
Scoprii che uno degli operai del posto, ubriaco, era annegato nella
baia e il suo cadavere era poi riapparso sulla spiaggia.

Per motivi religiosi che ignoravamo, gli abitanti del villaggio si
rifiutavano di toccare il corpo e si erano limitati a mettere il
cadavere in una scatola con del ghiaccio.
Volevano che noi, forestieri, vegliassimo il cadavere fino a quando
non fossero giunti il giorno seguente da Mexico City i parenti del
morto e un prete.
Rimanemmo tutta la notte a vegliare il cadavere.

Non riuscivo a capire perché fosse così importante che facessi quest’esperienza.

Il mio insegnante stava facendo tutto questo , perché la considerava
una straordinaria opportunità che ci era caduta in grembo.

Rimanemmo quindi seduti tutta la notte con il cadavere in
putrefazione, gonfio, blu e che emanava un odore orribile.

Attraversai momenti di paura, nausea, resistenza e dubbio tremendo
riguardo la necessità dell’impresa.

Chi era il mio insegnante per infliggermi quest’esperienza?

Mi osservava con molta attenzione e ogni volta che notava una forte
reazione mi chiedeva: “Che cosa stai provando in questo momento?”.

Gli raccontavo ciò che sentivo e lui diceva: “Va bene. Siedi con questo.

Stai col tuo respiro e siedi con esso”.

Sedemmo con il cadavere fino al mattino seguente, quando arrivarono un
prete cattolico e i familiari del defunto.

Durante la notte il mio insegnante continuò a rammentarmi che non ero
esente dalla stessa legge: se qualcosa appare deve anche scomparire.

Quel corpo morto non era qualcosa capitato per caso, ma ciò a cui
siamo tutti soggetti e che tutto pareggia.

Mi invitava costantemente a riflettere sul fatto che quel corpo era il
mio vero insegnante; a vederlo come se fosse il mio corpo.

Alla fine fui in grado di calmarmi e di prestare totale attenzione al
cadavere e alle reazioni che mi suscitava.

La sua condizione di cadavere mi divenne più chiara, e così la mia di
essere vivo.

Ritornando a quell’esperienza, sebbene estremamente sgradevole al
momento, fu invece di incomparabile valore.
La nostra idea della morte
Approfondendo la capacità di meditare sulla consapevolezza della
morte, impariamo a illuminare la vita con la luce della morte.

Non si tratta di un esercizio sulla morbosità o sull’autocompassione,
né ha lo scopo di terrorizzarci ; spesso ci si sente leggeri, felici e
sollevati dopo aver riconosciuto direttamente la verità della nostra
morte inevitabile.

È un’opportunità straordinaria che ci si presenta per lavorare con la paura.

Ciò di cui abbiamo paura non è la morte, ma la nostra idea della
morte, un’idea molto potente.

Molte pratiche meditative buddhiste in occidente si concentrano su
oggetti collegati alla bellezza, alla gioia o alla pace, insomma
qualcosa di attraente.

Certo, la morte viene ricordata spesso negli insegnamenti e riveste
un’importanza vitale per la comprensione di anicca, ovvero
l’impermanenza, il cambiamento, l’incertezza.

La riflessione su anicca, sul fatto cioè che tutto ciò che sorge
passa, è fondamentale per la pratica della saggezza; tuttavia non
viene usata spesso in maniera sistematica e continuativa come soggetto
della contemplazione formale.

Nove anni fa feci un discorso al Cambridge Insight Meditation Center
sulla consapevolezza della morte; verso la fine qualcuno fuggì dalla
stanza, evidentemente sopraffatto dall’ansia.

Più tardi quella stessa persona mi raccontò della paura che il mio
discorso le aveva fatto sorgere.

Thich Nhat Hanh mi consigliò molta prudenza nell’insegnare Maranasati,
soprattutto per quelle persone che, sofferenti fisicamente o
psichicamente, sono ancora fortemente dominate dal Desiderio e
dall’Avversione.

Saggiamente, credo; da allora ho condiviso questa pratica con pochi
meditanti, ma i tempi sono cambiati e mi sembra chiaro adesso che la
meditazione sulla consapevolezza della morte è troppo importante per
non parlarne apertamente.

Portare alla coscienza l’idea della nostra morte può essere di grande
giovamento solo se decidiamo di praticare maranasati, perché questo
significa illuminare la vita con la luce della morte.

Molti aspetti della nostra vita crollano quando vengono esposti a
questa luce mentre altri diventano ancora più preziosi.

Vorrei citare alcuni casi in cui la pratica della consapevolezza della
morte mi ha aiutato.

Spesso ha fatto uscire allo scoperto la paura della natura finita del
corpo fisico.

Far emergere la paura della morte ci fornisce un’opportunità di usare
sati-pañña, ovvero la consapevolezza con discernimento, perché la
saggezza può deprivare questa naturale fonte di ansia di un po’ del
suo potere.

Vi invito a ricordare che ciò di cui la maggior parte di noi ha paura
non è veramente la morte, ma l’idea che abbiamo della morte.

Ho l’impressione che oggi ci sia molto più interesse nella
contemplazione della morte di quanto non ce ne fosse nove anni fa.

C’è stato anche un aumento consistente di praticanti sinceri e
impegnati pronti a offrire sostegno; naturalmente può essere una
grande pratica di Dharma.

Quando lavoravo con Ajahn Suwat, un monaco thailandese della foresta,
su ciò che egli chiamava “venire a patti con la vera natura del
corpo”, io ero già seriamente impegnato nei cinque precetti, avevo
anni di studio e di pratica intensiva e il supporto del sangha; ma la
cosa più importante era la sua presenza amorevole e profondamente
equanime di fronte alle forti reazioni emotive che avevo all’idea
della mia morte.

Egli aveva affrontato le sue paure ed era in grado di aiutarmi ad
affrontare le mie.

Ciò nonostante rimango cauto.

Le pratiche che ora vedremo vogliono solo essere un’introduzione.

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