La meditazione come “modo di essere”

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La meditazione come “modo di essere”

di J. Kabat Zinn

Due modi di considerare la meditazione

Abbiamo detto che la meditazione non è una tecnica o una serie di tecniche,
quanto piuttosto un modo di essere; dunque potrebbe essere utile rendersi
conto che ci sono due modi, apparentemente contraddittori, di considerarla;
la proporzione in cui sono mescolati questi due modi è variabile, a seconda
dei diversi maestri e delle varie tradizioni. In questo testo mi
coglierete, forse, a usare i termini di entrambi perché entrambi sono
ugualmente importanti e veri, e la relazione è molto utile e creativa.

Uno dei due approcci consiste nel ritenere la meditazione uno strumento, un
metodo, una disciplina che ci permette di coltivare, rifinire e
approfondire la nostra capacità di prestare attenzione e dimorare nella
consapevolezza del momento presente. Più pratichiamo il metodo, che in
realtà potrebbe essere una quantità di metodi differenti, più è probabile
che con il tempo diventeremo capaci sempre più stabilmente di occuparci di
ogni oggetto o avvenimento che sorge nel campo della consapevolezza, in noi
o fuori di noi. Quella stabilità può essere percepita nel corpo come nella
mente e spesso si accompagna a una maggiore vivezza di percezione, a una
calma nell’osservazione; una pratica sistematica come questa genera
spontaneamente momenti di chiarezza e di visione profonda della natura
delle cose, anche di noi stessi. In questo modo di considerarla, la
meditazione è vista come un prò cesso: risulta essere un vettore che mira
in direzione della saggezza, della compassione e della chiarezza, una
traiettoria che ha un inizio, una parte centrale e una fine (anche se è
difficile affermare che si tratti di un processo lineare e alle volte
sembra consistere di un passo avanti e sei indietro!). A questo riguardo,
la meditazione non è dissimile a qualunque altra competenza e abilità che
si possa sviluppare con l’esercizio. Ci sono anche istruzioni e
insegnamenti che fanno da guida lungo il percorso. Questo modo di
considerare la meditazione è necessario, importante e valido. Ma – ed è un
grosso « ma » – se è vero che il Buddha stesso si applicò a fondo alla
meditazione per sei anni e arrivò a realizzare una straordinaria libertà e
chiarezza, questo modo di descrivere il processo in base a un metodo in sé
non è completo e può dare un’impressione erronea di ciò che implica in
realtà la meditazione.

I risultati dei loro calcoli ed esperimenti hanno costretto i fisici a
descrivere la natura delle particelle elementari in due modi complementari,
come particelle e come onde, anche se in realtà sono un’unica cosa; qui
però il linguaggio ci tradisce, perché a quel livello non sono propriamente
« cose » ma piuttosto proprietà dell’energia e dello spazio al nucleo
centrale di ogni cosa, a livelli impensabilmente piccoli. Ugualmente, c’è
un secondo modo di descrivere la meditazione, altrettanto valido, una
descrizione che è essenziale per comprendere appieno che cosa sia in
realtà, quando la pratichiamo.

Questo secondo modo di descrivere la meditazione considera che, qualunque
cosa sia la « meditazione » in sé, in ogni caso non è affatto uno
strumento. Se è un metodo, è il metodo del senza metodo. Non è un « fare ».
Non si tratta di andare da nessuna parte, non c’è nulla da praticare, non
c’è inizio, parte centrale e fine, non c’è alcun ottenimento e niente da
ottenere. Piuttosto è la realizzazione e incarnazione diretta in questo
preciso istante di quelli che si è già, al di fuori del tempo e dello
spazio e di ogni tipo di concetti; è un riposarsi nella natura intrinseca
del proprio essere, in ciò che viene chiamato « stato naturale » oppure «
mente originaria » oppure « pura consapevolezza, non-mente o semplicemente
vacuità. Si è già tutto ciò che si potrebbe sperare di diventare, dunque
non sarà necessario alcuno sforzo di volontà, nemmeno per riportare la
mente al respiro, e non c’è nulla che si possa ottenere: lo si è già. Per
parafrasare Kabir: non c’è tempo, né spazio, né corpo, né mente. E non c’è
scopo, nella meditazione: è l’unica attività umana (l’unica non-attività,
in realtà) *MEDITAZIONE*

che intraprendiamo per se stessa, per nessun altro scopo se non quello di
essere svegli e presenti a ciò che è.

Per esempio, come potremmo mai « raggiungere » il nostro piede, visto che
non ne siamo separati? Non ci verrebbe neppure in mente di raggiungerlo: è
già qui. La mente razionale ne fa un qualcosa, « un piede », ma finché non
lo si sega via dal corpo il piede non è una cosa separata dotata di una
propria esistenza intrinseca: è semplicemente la fine della gamba, fatta in
modo da poterci reggere ritti e da permetterci di camminare. Quando lo
pensiamo è un* piede,* ma quando siamo in piena consapevolezza, al di
fuori, al di sotto e al di là del pensiero, è semplicemente quello che è. E
ce l’hai già, o in altre parole non è e non è mai stato altro che te
stesso. Lo stesso vale per gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua e
tutte le altre parti del corpo. Per dirla con san Francesco: «Quello che
stai cercando è il cercatore stesso ».

In base allo stesso dato, come si può raggiungere la coscienza, la
conoscenza, la mente originaria quando questa, per parafrasare Ken Wilber,
« sta leggendo queste parole »? Come possiamo riprendere i sensi se i
nostri sensi sono già pienamente funzionanti? Le orecchie odono già, gli
occhi vedono già, il corpo percepisce già. È solo quando trasformiamo
queste funzioni in concetti che le separiamo di fatto dal corpo del nostro
essere, che per sua stessa natura è già integro, già completo, già
senziente, già risvegliato.

Questi due modi di intendere la meditazione sono paradossalmente
complementari proprio come lo sono la natura particellare e ondulatoria
della materia a livello quantico e subquantico. Questo significa che
nessuna delle due nature è completa in sé; insieme, diventano vere entrambe.

Per questa ragione è importante conoscere e tenere a mente entrambi i modi
di descrivere la meditazione fin dai primissimi inizi della pratica. In
questo modo è meno probabile che si resti prigionieri dei due corni del
pensiero dualistico, da una parte lottando troppo duramente per raggiungere
ciò che si è già e dall’altra rivendicando di essere già ciò che in realtà
non si è ancora assaggiato né realizzato e non si sa dove andarlo a
pescare, anche se tecnicamente parlando può essere vero che lo si è già.
Non si tratta solo di avere la potenzialità di diventarlo, sebbene dal
punto di vista strumentale è proprio così. Noi lo siamo, ma non sappiamo di
esserlo.

Queste due descrizioni si danno forma a vicenda. Quando le consideriamo
vere entrambe, anche solo concettualmente, all’inizio, lo sforzo che
facciamo per sederci a meditare – o per fare il* body scan,* la meditazione
di scansione, o per praticare lo yoga o per portare la consapevolezza in
ogni aspetto della vita – sarà lo sforzo giusto; avremo l’atteggiamento
giusto perché ricorderemo che in realtà, in termini della natura assoluta
della vita e della mente, non c’è alcun luogo dove andare e non è
necessaria alcuna lotta. Di fatto lottare e darsi da fare può diventare ben
presto controproducente. Se lo teniamo a mente ci ricorderemo più
volentieri di essere delicati con noi stessi, rilassati e sereni anche di
fronte alle turbolenze della mente o del mondo. Avremo meno la ^ tendenza a
idealizzare la nostra pratica o a perderci in fanta-. sie di vittoria sul
punto a cui arriveremo « se facciamo tutto giusto ». Ci lasceremo meno
trascinare nelle contorsioni della nostra reattività personale, saremo più
pronti a lasciar andare e più capaci di dimorare senza sforzo nel non-fare,
nel non-combattere, nella nostra mente originaria di principianti, nella
radiosità naturale della vacuità infinita della mente, spaziosa,
compassionevole e interconnessa, al di là di ogni sorta di istruzione che
ci potremmo bisbigliare da soli all’orecchio (cosa in sé legittima, dal
punto di vista strumentale).

Dalla prospettiva relativa e temporale è necessario quello che il Buddha
chiamava « retto sforzo » (retto nel senso di « saggio »): noi impariamo
quella lezione e arriviamo a conoscerla in prima persona quando pratichiamo
giorno dopo giorno per settimane, mesi, anni, decenni. Perché è fuori
discussione che ci perdiamo nella perpetua agitazione di corpo e mente; è
fuori discussione che, quando ci sediamo a meditare, scopriamo tanto spesso
che la nostra capacità di mantenere l’attenzione ha vita breve ed è
difficilissima da sostenere, che la nostra consapevolezza è tanto spesso
offuscata, che la mente non è poi tanto luminosa e limpida, che gli oggetti
dell’attenzione non sono poi tanto vividi, per quanti discorsi ci siamo
fatti sullo stato naturale della mente e sulla sua natura luminosamente
vacua. Dunque è essenziale che ricordiamo a noi stessi di stare seduti,
invece di saltar su appena la mente si fa annoiata o agitata; di tornare al
respiro, *esempio, o di lasciar andare il concatenamento di pensieri che ci
ha portato via; e di installarci di nuovo e sempre nella consapevolezza
stessa.

Dopo aver convissuto per un po’ con queste descrizioni della meditazione,
scoprirete che a poco a poco diventano vecchi amici e alleati familiari. La
pratica trascende, gradualmente o anche all’improvviso, ogni idea di
pratica e di sforzo, e qualunque sforzo ci si metta non è più fadca ma vero
amore. I nostri sforzi diventano l’incarnazione della conoscenza di noi
stessi e quindi della saggezza. Ma, anche qui, non è niente di speciale:
noi « siamo » più di quanto facciamo, perché non c’è differenza sostanziale
fra noi e la consapevolezza che intercorre tra noi e il nostro piede, da
cui non ci separiamo mai.

Eppure… il piede di un Mikhail Barishnikov o di una Marta Graham nel
pieno della forma non è proprio lo stesso di noi gente comune. I loro piedi
« sanno » qualcosa che i nostri forse non sanno, anche se nella loro natura
essenziale sono la stessa cosa. Ci possiamo meravigliare di questa identità
come di quella differenza. Possiamo amarla. E possiamo « esserla», a nostra
volta, perché essenzialmente lo siamo già.

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