LA MEDITAZIONE come ricerca della verità
Cosa significa meditare?
È difficile dare una risposta a quella che potrebbe sembrare una domanda piuttosto semplice. Si
potrebbe anzi dire che il buon meditante, più pratica e maggiormente si rende consapevole di quanto
lessenza della meditazione stessa sia sfuggente, inafferrabile, indefinibile.
Possiamo tuttavia dire che la meditazione è uno stato di puro essere, di chiara consapevolezza, di
attenzione osservante: uno stato originariamente naturale, ma per il quale è necessario un lavoro su
di sé. Si ritorna alla condizione normale del corpo e della mente: uno stato di unità, precedente a
qualsiasi dualità.
Attraverso una serie di esercizi di indagine della propria meccanica fisica e mentale (dalle
sensazioni e dai pensieri più grossolani a quelli più sottili), si è pienamente presenti,
consapevoli, qui ed ora: si realizza la pienezza della pura attenzione. La meditazione è attenzione:
non si tratta di cosa stai facendo, ma di come lo fai.
La meditazione è la tua natura: non è un risultato è una condizione reale. Non deve essere
raggiunta, deve solo essere riconosciuta. È la tua essenza: non puoi averla e non puoi non averla.
Non può essere posseduta, non è una cosa. La meditazione è osservazione: non fare niente, non
ripetere dei mantra, non ripetere il nome di dio semplicemente osserva la tua mente. Non
disturbarla, non ostacolarla, non reprimerla.
La meditazione non è un credo, non è un dogma, non è un culto, non è una religione, non è una
morale, non è un giudizio: è unesperienza evidente in se stessa. La meditazione è non-fuggire: è
rilassarsi ed essere nel momento, nel presente. È permanere nel qui e ora. La meditazione è
chiarezza di visione. È uno stato di pienezza, di vuoto e di unità. La meditazione è larte della
consapevolezza: è una resurrezione dalla cecità di ciò che è, è essere presenti.
La meditazione non è una tecnica, non è un pensiero particolare, non è uno sforzo, non è
concentrazione: è comprensione ed equilibrio, è equanimità e silenzio, è ascolto e stabilità. La
meditazione non è staccare la spina: è lo stato naturale della mente, la sua semplicità, è il
lasciare andare la presa, la quiete originaria. Meditare è addestrarsi in ciò che è stato chiamato
il miracolo della presenza mentale: si scopre che quella che ritenevamo allinizio una pratica
circoscritta in tempi e luoghi prestabiliti (la palestra, la nostra camera, ad esempio) diventa via
via una macchia dolio che si espande sempre più, in grado di mutare radicalmente il nostro stare
nel mondo, il nostro vivere la vita.
Meditare non significa rifugiarsi nel proprio paradiso mentale, bensì avere un contatto semplice e
diretto con la realtà (interiore – noi stessi – ed esteriore), liberi dagli innumerevoli filtri che
si interpongono tra la mente e il vero. Meditare vuol dire fare piazza pulita delle innumerevoli
teorie psicologiche, filosofiche, affascinanti quanto pretestuose, fare piazza pulita di parole e
spiegazioni, e volgersi verso il Sé, la propria natura, in direzione di una conoscenza non più
meramente intellettuale, bensì autentica e diretta.
“La dualità è creata dal linguaggio” ( Osho)
“Voi camminate, state camminando, state facendo una passeggiata di primo mattino. Il linguaggio
stesso – cioè, dire ‘state camminando’ – crea il problema; il problema sta appunto nel nostro
linguaggio. Nel momento in cui diciamo che qualcuno ‘sta camminando’, supponiamo che ci sia qualcuno
che cammina, il camminatore. Ci chiediamo: come è possibile che avvenga il camminare se non c’è
colui che cammina? Il Buddha afferma che non c’è il camminatore, ma solo il camminare. La vita non
consiste di cose. Il Buddha dice che la vita è fatta di eventi e questo è esattamente quanto
dichiara la scienza moderna: ci sono solo processi e non cose – eventi.
Anche dire che la vita esiste, è sbagliato. Esistono soltanto migliaia e migliaia di processi. La
vita è solo un’idea. Non c’è nulla definibile ‘vita’. […] La dualità è creata dal linguaggio.
State camminando, il Buddha dice che esiste solo il camminare. State pensando, il Buddha dice che
c’è solo il pensare, non colui che pensa. Il pensatore è creato dal linguaggio. Poiché usiamo un
linguaggio basato sul dualismo, ogni cosa viene divisa in dualità. Mentre pensate, c’è un gruppo di
pensieri, bene – ma non c’è colui che pensa. Se veramente desiderate comprenderlo, dovrete meditare
profondamente e arrivare a un punto dove il pensare scompare.
Nel momento in cui il pensare scompare sarete sorpresi: anche colui che pensa non c’è più. Il
pensatore scompare insieme al pensare. Era solo un’apparenza di pensieri in movimento. State
guardando un fiume. Esiste veramente quel fiume oppure è solo un movimento? Se toglieste quel
movimento, ci sarebbe ancora il fiume? Una volta tolto il movimento, il fiume scomparirebbe. Non è
il fiume che si muove, il fiume non è altro che lo ‘scorrere'” (da La disciplina della trascendenza,
pp. 297-298).
“Devi diventare uno” ( Osho)
“Il Maestro Zen Gutei era solito alzare un dito ogni volta che rispondeva alle domande dei suoi
discepoli. […] Prova a osservare la tua vita: se stai facendo qualcosa e tutto a un tratto smetti,
chi se ne accorge? Ti tieni occupato con cose banali dalla mattina alla sera, e come unico risultato
alla sera sei stanco morto e te ne vai a dormire. Al mattino poi sei pronto a ricominciare tutto da
capo – ancora le stesse cose inutili. È un circolo vizioso: vivi una vita non-essenziale, ti
incontri con altri esseri non-essenziali, ti ci attacchi… Ma hai una tale paura a dare un’occhiata
alla banalità di questa vita, che continui a volgere le spalle, è troppo deprimente rendersi conto
della banalità della tua vita – «Ma che sto facendo?».
E se poi ti accorgi che tutto quello che stai facendo è assolutamente inutile, il tuo ego va a
pezzi, perché l’ego si sente importante solo quando fai qualcosa che giudichi di capitale
importanza. E così ti inventi dei significati per le cose insulse che continui a fare. Devi credere
che stai facendo il tuo dovere di cittadino, che stai servendo la patria, la famiglia, l’umanità –
come se senza di te le cose non potessero andare avanti. In realtà niente di quello che stai facendo
è importante, ma tu devi dargli un significato, come potrebbe altrimenti sopravvivere il tuo ego?
Vivi nell’ignoranza e continui a fare cose non-essenziali. E qualunque cosa tu faccia, persino le
tue meditazioni, le tue preghiere, il tuo andare a messa… tutto è futile. Anche se preghi non può
essere una cosa più profonda che leggere il giornale, perché il problema non è quello che fai, il
problema è come sei tu. Se tu hai profondità, allora dovunque tu vada, qualunque cosa tu faccia, le
tue azioni saranno essenziali, profonde. Ma se tu sei superficiale, anche se vai a messa o preghi
tutto il giorno, non fa nessuna differenza: entri in chiesa allo stesso modo in cui entreresti al
cinema. Tu sei lo stesso, perciò che sia un cinema o una chiesa non può fare molta differenza. […]
Perché Gutei alzava un dito ogni volta che rispondeva alle domande dei suoi discepoli? […] Tutti i
tuoi problemi nascono perché non sei uno, sei frammentato, diviso, in conflitto. Tutti i tuoi
problemi sorgono perché c’è il caso dentro di te, non c’è nessuna armonia. […] Quando la tua mente
è divisa non riesci a pregare, non sei in grado di meditare, perché c’è sempre un conflitto dentro
di te. E ricordati questo: la parte in cui ti stai impegnando di più perde energia ogni momento che
passa, e la parte avversa, che è poi la parte critica, diventa sempre più forte e alla fine sarà
quella che deciderà il tuo comportamento. […]
Pazienza significa che sei pronto ad aspettare all’infinito. E se sei veramente pronto ad attendere
all’infinito, non ti sfiorerà più il pensiero che non è ancora successo niente. Non ha più alcun
senso chiedersi perché si sta sprecando tanto tempo… se sei pronto ad aspettare all’infinito non
c’è più niente che vada sprecato, e se la tua attesa è eterna, infinita, l’altra parte non avrà più
niente da dire, viene automaticamente resa impotente. È necessario raggiungere l’unità, annullare la
continua lotta interiore. Ecco perché Gutei era solito alzare un dito ogni volta che parlava dello
Zen. Con questo gesto intendeva dire: «Sii uno! – e tutti i tuoi problemi saranno risolti».
Vi sono molte religioni, molti cammini spirituali, molti metodi, ma il punto essenziale è sempre lo
stesso: devi diventare uno. Qualunque cosa tu scelga di essere diventa uno, e se riesci ad essere
infinitamente paziente, se puoi abbandonarti totalmente, diventerai uno. Se entrerai in silenzio
profondo, se non vi saranno più pensieri e sarai in stato di meditazione, raggiungerai l’unità. Se
preghi Iddio e la tua preghiera diventa così intensa che tu non esisti più, ti sei completamente
dissolto nella preghiera, questo basterà.
Potando il tuo giardino, se riesci a farti assorbire totalmente da quello che stai facendo, e non vi
è più spazio o pensiero per nient’altro – allora sei in meditazione, allora colui che medita è
diventato la meditazione – e improvvisamente tutte le onde del maya scompaiono, e tutte le illusioni
cadono. Sei pervenuto tutto a un tratto a un livello diverso, hai raggiunto un differente spazio
dell’essere, sei arrivato all’Uno. Quando tu sei uno, ecco che raggiungi l’Uno, il Supremo. Quando
sei molte persone, quando sei diviso, sei nel mondo. I mondi sono tanti e Dio è Uno. Ma per
conoscere quell’Uno devi prima diventare tu uno, prima d’allora non potrai mai conoscerlo” (da Dieci
storie zen, pp. 119-124).
Due affermazioni sulla Verità
Huang Po, nel suo Ch’uan-hsin fa-yao scrive: “L’uomo comune si aggrappa all’oggetto, colui che cerca
predilige il cuore. Chi ha dimenticato entrambi – cuore e oggetto – a questi si manifesta la verità
assoluta”. In un altro testo, La raccolta di Lin-Chi (uno dei testi più importanti della tradizione
zen), leggiamo: “«Dimmi, come posso vedere la natura del Buddha?». Ta-chu rispose: «Il vedere stesso
è la natura del Buddha»”. La natura del Buddha è naturalmente un modo zen per indicare la Verità.
Dunque, in entrambi i brani si parla di Verità e l’invito è quello di abbandonare un certo concetto
comune di verità, e cioè quello che potremmo chiamare ‘oggettivistico’, ‘sostanzialistico’, in
ultima istanza: dualistico.
Questo è molto chiaro soprattutto nel testo citato dalla Raccolta di Lin-Chi: il monaco era alla
ricerca della natura del Buddha e addirittura chiede di vederla. Ma qui sta il sommo errore. Vedere,
ascoltare, leggere, ricercare: sono tutte attività che intendono la verità come un oggetto tra i
tanti. Essa invece non è qualcosa da vedere, neanche da contemplare o da meditare; neppure qualcosa
su cui riflettere, di cui disquisire. La Verità è il vedere stesso. La rivoluzione va fatta nel
vedere; quando questa rivoluzione è compiuta, allora la verità mi sta davanti, qualsiasi cosa io
abbia di fronte a me: un albero, una persona, un foglio o il Buddha stesso!
Per quanto riguarda invece la citazione da Huang Po, anch’essa ha un suo aspetto interessante. Si
potrebbe pensare – e spesso molti lo dicono – che bisogna rientrare in noi stessi per scoprirvi la
Verità. Ah, quante volte abbiamo sentito dire frasi di questo genere, in tutte le minestre! “Entra
in te stesso, cerca in te stesso: lì è la verità!”, ecc. Ora, Huang Po non segue questa via. C’è il
cuore e c’è l’oggetto. Di solito ci si da’ agli oggetti, al godimento che ne possiamo trarre, e via
di questo passo. Poi qualcuno realizza che questo tipo di vita è uno stato di schiavitù: non posso
essere così dipendente dagli oggetti da relegare la mia felicità ad essi, diventandone quindi
succube. Questo è tutto, tranne che libertà. Un oggetto può essere un bell’orologio, ma anche
un’emozione, un’idea, una persona, ecc.
E allora ci si dirige verso il cuore. Ah, ecco di nuovo lo stesso meccanismo che fa capolino: il
meccanismo della ricerca, del dualismo, dell’intendere la verità come un oggetto tra i tanti. Non la
trovo tra le cose? E allora la troverò in me stesso. Capito? Siamo ancora all’interno di una logica
di mancanza, di ricerca. E infatti Huang Po dice: “Colui che cerca predilige il cuore”. Ma finché
cerchi, non trovi proprio niente. Solo abbandonando la ricerca, ecco che soffia la Verità. Sembra
semplice, vero? Ma lo sappiamo tutti: è la cosa più ardua. La nostra mente si ribella: vuole sempre
alimentarsi, vuole fagocitare tutto: non è abituata a starsene quieta. Povera schiava…
“Liberarsi da tutte le dottrine” ( Osho)
“Per raggiungere la verità è necessario liberarsi da tutte le dottrine, da tutte le strutture
formali. La realizzazione della verità accade solo quando si è totalmente liberi. L’attaccamento è
un segno di dipendenza; indica mancanza di fiducia in se stessi. La fede negli altri e non in se
stessi è una forma di schiavitù. Solo l’uomo libero dalla fede negli altri è veramente libero. La
fede nei preti, nelle sette o nelle scritture indica che sei dipendente. Anche la fede nelle parole
o nei credo è dipendenza. Io ti dico: solo la vera libertà conduce alla verità. Devi disfarti di
tutti i pensieri e di tutti i credo che hai acquisito dagli altri, non importa chi essi siano.
Fa parte della crescita naturale di un uomo arrivare a riconoscere la propria ignoranza. E una volta
che l’ha realizzata, non deve mai tornare indietro. Questa tendenza a dimenticare è autoinganno; è
un tentativo di rendere luminoso il buio vuoto del sé. Un complesso d’inferiorità è figlio di questo
vuoto e coloro che soffrono di un senso di inferiorità bramano la posizione sociale, la forza e il
potere. Sono come zoppi che bramano di compiere grandi prodezze di abilità fisica. […]
È impossibile scappare da se stessi. Per rendere tollerabile la tensione un uomo ha bisogno di
intossicarsi, per esempio con il vino, le donne, il canto, la ripetizione di mantra, preghiere o
adorazioni. Il desiderio di ricchezza, di potere e di conoscenza, tutto questo non è altro che il
desiderio di dimenticare il sé. E per farlo è necessario un vino molto forte. Alcuni si rivolgono
alla religione, che per loro diventa così un potente narcotico. Questa è la ragione, nelle
cosiddette società del benessere, dell’aumento di interesse nella religione.
Ma è ancora una corsa. La questione fondamentale non è come cambiare la direzione della corsa, ma
come porle fine una volta per tutte. Il filosofo scappa attraverso il pensiero, l’artista attraverso
la sua creazione, il politico attraverso il potere, il ricco attraverso le ricchezza, l’asceta
attraverso la rinuncia e il devoto attraverso Dio. Ma la verità può essere realizzata solo dall’uomo
che non cerca affatto di scappare dal proprio sé” (da Il lungo, il corto, il nulla, pp. 135-136).
“Ho gettato via la tua paura” ( Osho)
“Un vecchio saggio stava attraversando la giungla in compagnia di un suo giovane monaco. Scese la
notte e cominciarono a calare le tenebre. Il vecchio saggio chiese al giovane monaco: ‘Figlio mio,
credi che lungo questo sentiero ci siano pericoli? Questo sentiero attraversa una fitta foresta e
stanno calando le tenebre. Abbiamo qualcosa da temere?’. Il giovane monaco era molto sorpreso,
poiché in un sannyasin non dovrebbe mai sorgere il problema di avere paura, sia che si trovi in una
notte buia oppure illuminata, sia che si trovi in una foresta oppure sulla piazza del mercato,
quindi quella domanda era davvero sorprendente. Inoltre, questo vecchio non aveva mai avuto paura.
Che cosa gli stava accadendo? Perché adesso mostrava di aver paura? C’era qualcosa che non andava!
Camminarono ancora un po’ e la notte diventò più buia. Il vecchio chiese di nuovo: ‘C’è qualcosa di
cui dobbiamo preoccuparci? Raggiungeremo presto la città più vicina? Quanto è ancora distante?’. Poi
si fermarono vicino a un pozzo per lavarsi le mani e il viso. Il vecchio consegnò al giovane monaco
la borsa, che portava in spalla, dicendogli: ‘Abbi cura della mia borsa’. Il giovane pensò:
‘Certamente deve contenere qualcosa, altrimenti non sarebbe sorto in lui il problema della paura e
non avrebbe raccomandato di prendermi cura della borsa’.
Per un sannyasin era insolito anche il fatto di prendersi cura di qualcosa; in questo caso, non
avrebbe senso diventare sannyasin, infatti chi ha delle cose da custodire ha una proprietà. Che
bisogno ha un sannyasin di prendersi cura di qualcosa? Il vecchio cominciò a lavarsi il viso e il
giovane diede uno sguardo nella borsa: vide che conteneva un lingotto d’oro, e comprese la causa
della paura. Lo gettò via, e mise nella borsa una pietra di uguale peso. Il vecchio, subito dopo,
tornò in fretta dal giovane e si riprese la borsa; la tastò, ne verificò il peso sollevandola, se la
mise sulla spalla e si rimise in cammino.
Dopo un breve tratto, tornò a chiedere: ‘Sta diventando proprio buio, abbiamo perso la strada? C’è
qualche pericolo?’. Il giovane gli rispose: ‘Non avere paura. Ho gettato via la tua paura’. Il
vecchio saggio era sconvolto. Guardò immediatamente nella borsa e vide che al posto dell’oro c’era
una pietra. Per un attimo rimase attonito e poi, scoppiando in una risata, esclamò: ‘Che idiota sono
stato! Portavo in spalla una pietra e avevo paura perché credevo fosse un lingotto d’oro’. A quel
punto, lo gettò via e disse al giovane monaco: ‘Dormiremo qui questa notte, visto che al buio è
difficile trovare la strada’. E quella notte dormirono pacificamente nella foresta” (da Ricominciare
da sé, pp. 142-144).
“Ogni volta che ami, il sé scompare” ( Osho)
“Io insegno l’amore per se stessi. Ma ricorda, amore per se stessi non significa orgoglio
egocentrico, niente affatto, significa esattamente l’opposto. La persona che ama se stessa scopre
che in lei non esiste alcun sé. L’amore dissolve sempre il sé: questo è uno dei segreti alchemici
che dev’essere compreso, appreso, sperimentato. L’amore dissolve sempre il sé. Ogni volta che ami,
il sé scompare. Quando ami una donna, almeno nei pochi istanti in cui senti amore reale per lei, in
te non esiste un sé, alcun ego. L’ego e l’amore non possono esistere insieme. Sono come la luce e
l’oscurità: quando viene la luce, l’oscurità si dissolve. Se ami te stesso, ti sorprenderai: l’amore
per se stessi implica la scomparsa del sé. Nell’amore per se stessi non esiste mai un sé.
Questo è il paradosso: l’amore per se stessi è totale assenza di sé. Non è egocentrismo; perché ogni
volta che esiste la luce non c’è alcuna oscurità, e ogni volta che esiste amore non c’è alcun sé.
L’amore scioglie il sé congelato. Il sé è simile a un cubetto di ghiaccio, l’amore è simile al sole
del mattino. Il calore dell’amore… e il sé inizia a sciogliersi. Più ami te stesso meno troverai
un sé dentro di te, per cui diventa una meditazione profonda, uno slancio appassionato verso il
divino. E tu lo sai! Forse non sai nulla dell’amore per te stesso, perché non ti sei mai amato. Ma
hai amato gli altri, e devi aver colto dei bagliori fugaci.
Devono esserci stati istanti rarissimi in cui per un secondo, improvvisamente, tu non eri più
presente e solo l’amore esisteva, solo l’ energia dell’amore fluiva, senza avere un centro: dal
nulla verso il nulla. Quando due amanti sono seduti vicini, due nulla sono seduti vicini, due zero
siedono vicini; e questa è la bellezza dell’amore: ti svuota totalmente del tuo sé. Ricorda, dunque:
l’orgoglio egocentrico non è mai amore per se stessi. L’orgoglio egocentrico è esattamente
l’opposto. La persona che non è riuscita ad amare se stessa diventa egocentrica” (da Con te e senza
di te, pp. 70-71)
“Se ti rilassi, sarai nel presente” ( Osho)
“L’idea di essere nel presente non ti permetterà di rilassarti. Di fatto, se ti rilassi, sarai nel
presente. All’inizio, se ti rilassi il passato piomberà su di te: tante cose che hai soppresso, alle
quali non hai mai permesso di emergere al cospetto della tua coscienza, che hai evitato, si
affolleranno in te. Quando ti rilassi le porte sono aperte; tutte queste cose volevano da sempre
presentarsi alla tua coscienza, ma non glielo hai permesso. Adesso che non le costringi più saranno
loro ad affollarsi; ma si tratterà di un fatto temporaneo.
E verranno anche molti sogni repressi sul futuro. Per qualche tempo ci sarà il caos: devi rilassarti
e osservare il caos. Non c’è alcun motivo d’ansia, è un fatto naturale. È come se una stanza fosse
rimasta chiusa per molti giorni, poi la apri e ne esce cattivo odore; se la tieni aperta ci sarà un
nuovo afflusso d’aria fresca e il cattivo odore se ne andrà. […] Non cercare di essere nel
presente; piuttosto, rilassati, in modo che il passato e il futuro siano entrambi presenti, e se ne
andranno da soli. Non ti devi preoccupare; limitati a osservare. Non fare assolutamente nulla,
perché se fai qualcosa, ancora una volta reprimerai. […]
Il problema nasce perché ti metti ad agire, e dici: ‘Questa idea non dovrebbe essere presente’.
[…] Se non fai nulla cominciano a succedere tante cose, e la prima è questa: tutte le repressioni
che sono state liberate voleranno lontano da te. Presto verrà il giorno in cui il cielo sarà
assolutamente sgombro: allora sarai nel presente. […] Rilassati e basta; ora qualsiasi cose
accada, accade. E se non succede nulla, anche questo va bene.
Uno stato di abbandono è uno stato di abbandono! Ora non hai più alcuna idea di quello che dovrebbe
succedere. Se il passato ti assale, ti assale; se si intromette il futuro, si intromette. Non ti
preoccupare minimamente di essere nel presente, perché questo non ti permetterà di lasciarti andare.
È sufficiente che ti rilassi. Ma il rilassamento è diventato pressoché impossibile perché poni così
tante condizioni: questo dovrebbe essere e questo no; questo pensiero è cattivo, questo è buono;
questo viene dal demonio, questo da Dio. E tu stai continuamente scegliendo, manipolando, lottando,
organizzando. Non puoi lasciarti andare.
Dimentica ogni moralità, dimentica ogni giudizio. Nulla è buono, nulla è cattivo. Tutto è ciò che è.
Rilassati. All’improvviso, un giorno, il presente sorge in tutto il suo profondo splendore. Allora
non ci sono più nuvole, né pensieri, né desideri. Ed essere nel presente vuol dire attraversare la
porta dell’esistenza” (da La vera saggezza, pp. 232-234).
“Ascolta il corpo” ( Osho)
“Esistono due tipi di persone. Una continua a lottare coi sensi: come uccidere il corpo, come non
gioire attraverso il corpo; come non cadere innamorati, come non mangiare con gusto… queste
persone continuano a lottare contro i loro sensi, e diventano grandi asceti. Di fondo, essi sono
masochisti, si divertono a storpiare se stessi. Ma la società tributa loro grande rispetto, e quel
rispetto diventa una forte lusinga. Essi vengono ritenuti grandi uomini, perché non si preoccupano
dei loro sensi. Ma non possono essere tanto ‘grandi’, perché i sensi sono le porte per incontrare
l’infinito che ti circonda. I sensi sono le porte: attraverso loro, l’infinito entra in te, e tu
entri nell’infinito.
Quelle persone continuano a chiudere le loro porte. E quindi, le loro case, i loro corpi, diventano
prigioni, ed esse soffrono. E più esse soffrono, più sono rispettate e adorate, perché la gente
pensa che abbiano fatto qualcosa di miracoloso, pensa che abbiano trasceso il corpo. Non è affatto
necessario trascendere il corpo. La sola cosa è che il corpo deve funzionare nel giusto modo, alla
perfezione. È un’arte, non si tratta di austerità. Non si tratta di privazioni: non si deve lottare
contro il corpo, lo si deve semplicemente comprendere. E il corpo è così saggio… è più saggio
della mente, ricordalo, perché esso esiste da un tempo più lungo. La mente è sorta da pochissimo, è
solo un bambino.
Se ascolti i sensi, diventi semplice. Certo, nessuno ti darà alcun rispetto; tutti diranno che sei
un uomo sensuale… e un uomo sensuale è più vivo di un uomo che non lo è. Ma a nessuno interessa la
vita; tutto sono interessati solo a qualcosa di morto che possa essere adorato. […] Ascolta il
corpo, perché tu sei qui per goderti questo momento, che ti è stato dato: questo momento
estremamente colmo di grazia, questa beatitudine che ti sta accadendo. Tu sei vivo, consapevole…
in un mondo infinitamente vasto!” (da Il libro del nulla, p. 162 e pp. 164-165).
“L’uomo perfetto è senza io”
La distinzione, il dualismo è allontanamento dall’unità originaria; il pensiero discriminante è
l’uscita dal pensiero contemplante. La parzialità è il tradimento della visione universale e di una
obiettività equilibrata e serena. Gli artifizi di una raffinata dialettica menano a un atteggiamento
di contrasto, di opposizione. Il Tao è la fine di questo approccio. In esso ogni elemento ha il suo
senso: tutto deriva, tutto è condotto e tutto si muove nel Tao. Conoscenza è realizzazione interiore
di questa unità. È un atto di semplicità e di naturalezza, non uno stratagemma, un espediente
elaborato. Non è qualcosa di pensato, di architettato: è un realizzare senza motivo, è un agire
senza ricerca di un fine. Si dà, si compie nella sua spontaneità, nella sua immediatezza, senza
volontà di compiersi, senza scelta.
La grande intelligenza abbraccia, la piccola discrimina […].
La comprensione conduce all’unità […].
Compiere senza sapere perché, ecco il Tao” (dal Zhuang-zi).
“Il saggio deve fare il vuoto nel proprio spirito”
“La via suprema. La sua essenza è profonda e oscura, la sua vetta confusa e segreta. […] Mantenete
il vostro spirito nella quiete: il vostro corpo si perfezionerà da sé. Siate calmo e puro, non
affaticate il vostro corpo, non agitate la vostra anima e vivrete a lungo. […] Che il vostro
spirito non conosca nulla […]. Turbare la legge del cielo, contrariare i sentimenti degli esseri
significa impedire alla natura di compiersi. […] Sciogliete il vostro cuore, lasciate andare il
vostro spirito, annientate la vostra anima e i diversi esseri del mondo ritroveranno la loro radice
comune. Chi ritrova la propria radice senza saperlo non si allontanerà dall’indistinzione
primordiale, mentre chi prende coscienza della propria radice ne é definitivamente allontanato.
[…]
Non cercate di sapere quello che sono, e tutti gli esseri nasceranno del tutto naturalmente. […] L’uomo comune ama chi gli assomiglia e detesta chi è diverso da lui. Colui che ama la somiglianza e
detesta la differenza vuole, a sua insaputa, essere al di sopra degli altri uomini del mondo. […] Un grand’uomo esercita la sua influenza sugli uomini come il corpo proietta la sua ombra e il rumore
provoca gli echi. Se qualcuno lo interroga, risponde a ciò che gli viene chiesto.
È l’uguale. Per regola di condotta non ha altra cosa se non il silenzio e l’imparzialità. Dietro la
molteplicità dei fenomeni che vanno e vengono, ritrova l’infinito, dietro la comparsa e la scomparsa
degli esseri, riconosce l’eternità. La sua persona si definisce attraverso l’identificazione con
quanto è comune a tutti. Ciò che è comune a tutti non ha esistenza propria, e come potrebbe ciò che
non ha esistenza propria possedere un’esistenza? […] Coloro che sono considerati privi di
esistenza, questi sono gli amici del cielo e della terra. […]
Il Tao abbraccia e sostiene tutti gli esseri. Infinita è la sua grandezza! Il saggio deve fare il
vuoto nel proprio spirito per comprenderlo […]. Amare gli uomini ed essere benevolo verso gli
esseri, ecco la bontà. Considerare come identiche le differenze, ecco la grandezza. Non mostrarsi né
altezzoso né eccentrico, ecco la larghezza di spirito. Abbracciare la varietà delle differenze, ecco
la ricchezza. Attenersi alla virtù, ecco la regola. È attraverso la virtù che si afferma la
personalità dell’uomo. Chi in tutte le cose si conforma al Tao è armato contro i colpi della sorte.
Chi non si lascia abbattere dal succedersi degli avvenimenti esterni, conserva l’integrità del
proprio carattere” (dal Zhuang-zi).
“L’essere che giunge al senza-forma”
“Colui che comprende veramente il Destino non si preoccupa di ciò su cui la sua intelligenza non può
incidere. […] Perché le occupazioni giornaliere meritano di venire abbandonate? Perché la vita
merita di essere trascurata? Chi abbandona le proprie occupazioni non affatica più il suo corpo; chi
trascura la propria vita non altera più la sua vitalità. […] Tutto ciò che ha un viso, una forma,
un colore ed emette suoni è un essere. Questi esseri, come possono distinguersi uno dall’altro?
Poiché non sono che forme, come può uno di loro sorpassare gli altri in qualcosa? Ma l’essere che
giunge al senza-forma permane in ciò che è senza trasformazione.
Se egli va fino in fondo, come potrebbe venire ostacolato da altri esseri? Ha colto la giusta
misura, l’essenza nascosta, la fine e l’inizio di tutti gli esseri. Unifica la propria natura, nutre
il proprio soffio, giunge alla virtù primitiva e può così comunicare con la creazione cosmica. Un
tale uomo conserva l’integrità della sua natura celeste, la sua anima è senza incrinatura. Come
potrebbero gli altri esseri penetrare in lui? […]
Se la posta di una partita è una tegola, tutti i giocatori saranno abili; se è una fibbia di
cintura, il giocatore risentirà un lieve spavento; se è un oggetto d’oro, sarà molto turbato.
L’abilità del giocatore resta la stessa, ma la sua emozione proviene dall’attaccamento a un bene
esteriore. Così, colui che si lega a un bene esteriore, interiormente sarà del tutto inabile. […] Zhong-ni ha detto: «Vivere ritirati senza esagerare con l’interiorità, vivere nel mondo senza
esagerare con l’esteriorità, tenersi nel giusto mezzo, ecco le tre cose che permettono di arrivare
al culmine della reputazione». […]
L’artigiano Shui torniva oggetti così perfetti che sembravano disegnati con il compasso e la
squadra; il suo dito seguiva la forma delle cose senza che la sua coscienza intervenisse. Giungeva a
simile abilità perché la sua anima, concentrata, era libera da ogni ostacolo. Far dimenticare
l’esistenza dei piedi: è questo l’adattamento perfetto delle scarpe; far dimenticare l’esistenza
delle reni: è questo l’adattamento perfetto della cintura; far dimenticare la distinzione tra il pro
e il contro dà la misura dell’adattamento perfetto dello spirito umano; non subire alcun cambiamento
interiore e non lasciarsi dirigere dal mondo esteriore è come adattarsi sempre e in ogni caso, è
possedere una facoltà di adattamento dimentica di se stessa. […]
L’uomo perfetto […] non si preoccupa dei suoi orecchi né dei suoi occhi; passeggia senza scopo
lontano dal mondo polveroso e trova la propria libertà nella pratica del non-agire. Ciò significa
che agisce senza aspettarsi nulla, e guida gli uomini senza costringerli. Voi fate sfoggio del
vostro sapere per abbagliare gli ignoranti; coltivate la vostra persona per mettere in risalto i
difetti degli altri uomini; volete brillare” (dal Zhuang-zi).
“Due denominatori comuni a tutte le vie spirituali” (Arnaud Desjardins)
“Interrogando monaci cristiani in Francia, monaci zen in Oriente, maestri tibetani e sufi, saggi
induisti, ho sempre ritrovato due denominatori comuni a tutte le vie spirituali: il primo è ciò che
chiamiamo vigilanza. La vigilanza corrisponde all’assorbimento cosciente dei diversi nutrimenti nel
momento in cui questi provocano in noi desideri, paure, amore o odio e tutte le reazioni abituali.
Il fatto di essere coscienti permette di digerire e di assimilare questi nutrimenti in un modo
diverso, e quindi permette il raffinamento dell’ energia così accumulata che invece non può prodursi
quando siamo identificati con le nostre emozioni. […]
I dialoghi di San Gregorio Magno su san Benedetto […] sono eloquenti a questo riguardo: «Ogni
volta che una preoccupazione troppo viva ci trascina fuori di noi, noi restiamo certamente noi
stessi, e tuttavia non siamo più con noi stessi, perdiamo di vista noi stessi e ci disperdiamo nelle
cose esterne. Al contrario, ho potuto vedere che quest’uomo venerabile (San Benedetto) abitava
presso di sé, sempre attento e vigile su di sé, si teneva sempre in presenza del suo Creatore, si
esaminava senza sosta e non lasciava che lo sguardo della sua anima venisse distratto dall’esterno».
L’insegnamento del Buddha insiste allo stesso modo sulla necessità dell’attenzione: «Coloro che sono
attenti hanno già ottenuto la vita eterna, coloro che non sono attenti sono già morti». Ci sarebbe
da comporre un’intera antologia su questo tema attingendo a tutte le grandi tradizioni. È la prima
differenza capitale dalla vita ordinaria in cui non ci si accorge di essere identificati, confusi,
in cui il soggetto è assorbito dall’oggetto, in cui non c’è alcuna discriminazione tra lo
‘spettatore’ e lo ‘spettacolo’, tra il testimone e il fenomeno (sensazione, emozione, pensiero).
E il secondo denominatore comune si fonda sul primo, se non ci sono tracce del primo non ce ne
saranno del secondo, e rappresenta un atteggiamento radicalmente nuovo rispetto al meccanismo di
attrazione e repulsione, «amo, non amo, invidio, non invidio» […]. Che voi la chiamiate
sottomissione alla volontà di Dio o accettazione di ciò che è, di tratta sempre di un atteggiamento
insolito, che contrasta con la vita ordinaria. […] Ogni volta che ricevete coscientemente
un’impressione, che vivete coscientemente una situazione, diminuite il consumo di energia e
assimilate molto meglio l’ energia ricevuta. […]
Ogni volta che svolgerete questo lavoro sulle emozioni per cui, grazie alla vigilanza, ritornerete a
ciò che è e non sarete più trasportati dalle emozioni negative né dipendenti dalle emozioni
positive, spingerete più lontano questa alchimia interiore che è la trasformazione dell’ energia.
Innanzi tutto risparmiamo l’ energia, in seguito la trasformeremo in materia sempre più sottile e
infine fisseremo questa materia sottile in noi. […] Quando non sprechiamo più la nostra energia
nelle emozioni ordinarie, nei pensieri ordinari e nei loro meccanismi grossolani, trasformiamo la
materia grossolana in materia sottile (da L’audacia di vivere, cap. 2).
“Più si vive meno si pensa, più si pensa meno si vive” (Arnaud Desjardins)
“Sino a quando rimarrete prigionieri del mondo delle dualità, sarete asserviti al desiderio del loro
aspetto felice alla paura del loro aspetto doloroso. È un vicolo cieco. […] Il cammino consiste
nella scoperta dell’ energia nella sua forma non ancora divisa in polarità contrarie […]:
unicamente la potenza della vita. […] Se non avete più paura di voi stessi […], se voi siete
fedeli a voi stessi per quello che siete ogni giorno, potete scoprire in voi la vita non duale
[…]. Non potete stabilirvi nel grande silenzio del nirvana se non avete prima messo radici a
livello dell’ energia fondamentale non ancora divisa in polarità contrarie. […]
La ‘Manifestazione’ è un’espressione dell’ energia, quindi noi risaliamo in noi stessi il cammino
dell’ energia. […] Dovete ripercorrere all’inverso il cammino della manifestazione per tornare al
non-manifestato, dal momento che questo livello sottende tutte le peripezie della vostra attività e
vi permette di liberarvi completamente dall’identificazione con il personaggio che siete, col suo
nome, la sua storia, le sue predisposizioni, il suo karma. […] Per cominciare, accettate senza
paura l’integrità di voi stessi. […]
Quando avrete potuto scoprire in voi uno stato dell’essere senza conflitto, saprete che la realtà
ultima è al di qua della polarità […]. Più avete paura della ricchezza, della pienezza, della
potenza della vita, più diventate schiavi della testa e dei pensieri. La mente è essenzialmente il
frutto di questa paura di vivere. Vi rifugiate in un mondo di idee perché in tale mondo soggettivo
potete fare quello che volete. I pensieri corrispondono a nostre tendenze ripetitive che possiamo
indefinitamente rimuginare. Più si vive meno si pensa, più si pensa meno si vive. E coloro che sono
assillati dalle fantasie della mente, tagliati fuori dalla realtà, possono intendere anche questo
messaggio: l’importante non è pensare, l’importante è sentire.
maschile dell’esistenza e cerchiamo di agire, di fare qualche cosa, di fare sempre qualche cosa; è
il contrario della meditazione, della contemplazione, la nevrosi dell’attivismo. […] Più
privilegiate l’aspetto maschile sull’aspetto femminile, più vi impedite di sentire e vi condannate a
pensare. Ma i valori maschili dell’attività hanno qualcosa di rassicurante, fosse pure in maniera
nevrotica. Mentre i valori femminili, detti di apertura, hanno una dimensione in qualche modo
spaventosa. A che mi aprirò?
I valori della recettività e dell’accoglienza sembrano pericolosi! E se mi apro a ciò che si esprime
in me stesso è altrettanto pericoloso. […] Vivere significa fare spazio il più presto possibile e
nel modo più completo possibile ai valori femminili, e domandarci che senso diamo noi alla parola
‘apertura’. […] Aprirsi significa aprirsi senza imbrogliare. […] Tutto è Grazia […]. Aprirsi
significa aprirsi con tutto il proprio cuore. Sviluppare i valori femminili della ricettività e
dell’accettazione significa svilupparli in tutti i modi. Consiste nel non proteggersi più” (da
L’audacia di vivere, cap. 1).
“La natura di buddha e l’attenzione costante” (Tulku Urgyen Rinpoche)
“È certo che nel momento in cui siamo in preda alle forme mentali abituali o alle onde incalzanti
delle emozioni, per esempio dell’ira, è molto più facile riconoscere il nudo stato di
consapevolezza. Questo non accade se si è allenati solo allo stato di meditazione calmo e tranquillo
in cui non sorgono pensieri ed emozioni negative. In questo caso, a causa di quello che viene
chiamato ‘morbido piacere’, è in realtà molto più difficile riconoscere lo stato autentico della
mente non dualistica. Allenandoci solamente a una condizione di serenità potremmo […] rimanere,
per la durata di eoni, in un ininterrotto stato profondamente assorto. Questo stato è simile a
un’intossicazione indotta dal piacere spirituale della pace e della tranquillità […].
Al contrario, provare una profonda disperazione, grande paura ed essere preoccupati può costituire
una base valida per la pratica. Per esempio, se soffriamo di una malattia letale, se siamo in un
punto di morte e in quel momento ricordiamo di osservare la natura della mente, la nostra esperienza
sarà molto diversa da quella derivante da un normale allenamento allo stato calmo. È proprio
l’intensità dell’emozione che permette una più acuta introspezione nell’essenza della mente.
Lo stesso accade quando siamo così in preda all’ira da avere l’impressione di essere un’enorme
fiamma divampante di ira concentrata: se riconosciamo la nostra condizione naturale e lasciamo
andare, lo stato di saggezza si mostra completamente nudo, più chiaro e vivido che mai. Oppure se
improvvisamente proviamo un senso di paura, come quando siamo inseguiti da un branco di cani
rabbiosi e la mente è come pietrificata, se in quel momento, anche se è molto difficile, riusciamo a
ricordare di riconoscere l’essenza della mente, la nostra visione interiore sarà più potente della
normale condizione di introspezione frutto della pratica meditativa.[…]
Ciò che considera o osserva la natura di buddha si chiama presenza mentale, o attenzione costante,
nel senso di sorvegliare ininterrottamente la natura di buddha come un vaccaro fa la guardia alla
sua mandria. […] Perciò ci sono due elementi: la natura di buddha e l’attenzione costante, il ‘non
dimenticarla’. […] Fin dall’inizio la vacuità si sperimenta senza bisogno di costruirla: si dà
importanza al processo di spogliare la consapevolezza fino alla sua condizione di nudità totale,
senza generare attaccamento alla vacuità” (dai capp. 1 e 2).
La medicina del silenzio (Anselm Grün)
“Ecco cosa scrive [C.G. Jung] a un uomo che voleva assolutamente parlare con lui: «La solitudine è
per me una fonte mircolosa che rende la vita degna di essere vissuta. Il parlare mi diventa sempre
più spesso un peso e avverto sovente il bisogno di tacere per più giorni per riprendermi dalla
futilità delle parole. Sono sul piede di partenza e guardo indietro solo quando non c’è altro da
fare. Questa partenza è in sé una grande avventura, ma non una di cui si desideri parlare in modo
dettagliato […]. Tutto il resto è silenzio! Questa rivelazione mi diventa ogni giorno più chiara,
svanisce il bisogno di comunicare». […]
«In qualunque luogo ti trovi non paragonarti agli altri e avrai pace» (Abba Poemen). […] Invece di
guardare gli altri scorgo me stesso per come sono. Sono in me. Ci sono, semplicemente. Questa è la
condizione necessaria a trovare pace. Quiete significa infatti semplicemente essere presenti,
riposare, […] cogliere in pace l’attimo. […] «L’abate Poemen chiese all’abate Giuseppe: ‘Dimmi
come posso diventare un monaco’. E l’altro rispose: ‘Se vuoi trovare pace in questo e nell’altro
mondo, in ogni occasione ripeti: ‘Chi sono io?’, senza giudicare mai nessuno». […]
È importante prendere sul serio i nostri sentimenti, senza attribuire immediatamente loro un
giudizio di valore. Ognuno di essi ha un senso. Anche la rabbia e la collera hanno un senso. Si
tratta solo di gestirle in modo adeguato. L’aggressività vuole regolare il rapporto tra distacco e
intimità. Quando diventiamo aggressivi, dunque, ciò è sempre segno che abbiamo bisogno di maggiore
distacco, che abbiamo dato agli altri troppo potere su di noi. […] Il silenzio è il sentiero
spirituale per eccellenza. Nel silenzio incontriamo noi stessi e la nostra realtà interiore. Ma il
silenzio è anche una via per liberarci dai pensieri che ci occupano costantemente. Non si tratta di
un silenzio esteriore, ma di un silenzio del cuore.
Il silenzio esteriore, tuttavia, può essere d’aiuto affinché il cuore taccia, affinché le emozioni
si acquietino e smettano di condizionarci. Il parlare delle ferite ricevute è sicuramente un buon
sistema affinché esse guariscano. […] Ma esiste senza dubbio anche la medicina del silenzio. Nel
silenzio i moti interiori possono quietarsi, la polvere sollevata può depositarsi, così che l’animo
si rischiari come un vino torbido che, riposando, ridiventa limpido. […] «Un fratello che viveva
con altri fratelli chiese ad Abba Bessarione: ‘Che cosa devo fare?’. L’anziano gli rispose: ‘Taci e
non misurare te stesso’»” (pp. 112-113, 121-125, 127-128).
“Il pensiero discorsivo è distrazione” (Tulku Urgyen Rinpoche)
“Se perdiamo la presenza cominciamo a vagare nella ‘nera dissipazione’ delle ordinarie e abituali
forme mentali. […] Dobbiamo accorgerci quando siamo distratti: il pensiero discorsivo è
distrazione, ma, quando ne riconosciamo l’essenza, arriviamo alla condizione senza pensieri. […] Nel momento in cui ci accorgiamo di distrarci, pensiamo: «Sto cominciando a divagare»; riconoscendo
l’identità di chi si è distratto, automaticamente ritorniamo al punto di vista. Ricordare è come il
momento in cui si preme l’interruttore, quando la luce è accesa non c’è bisogno di continuare a
premere. Dopo un po’ di nuovo dimentichiamo e ci allontaniamo: a questo punto dobbiamo ricorrere di
nuovo alla presenza deliberata.
distrazione] lo si lasci semplicemente continuare. Naturalmente, dopo un po’, l’attenzione comincia
di nuovo a scomporsi e possiamo non accorgerci della distrazione, poiché è spesso molto sottile e
arriva di soppiatto, come un ladro. Ma quando ce ne accorgiamo, dobbiamo far funzionare la presenza
e rimanere in una condizione naturale. Questo stato naturale è la presenza senza sforzo.
È importante, a questo punto, un senso di naturale continuità e fluidità. Se si suona una campana,
il suono si propaga per un po’ di tempo e il riconoscimento durerà un certo tempo. […] Quando
riconoscete l’essenza della mente, lasciate che semplicemente sia, lasciatela com’è e il
riconoscimento durerà per un po’. Questo si chiama ‘sostenere la continuità’. Non elaborare
significa non abbandonare la continuità. Il più grande ostacolo alla pratica è la distrazione.
Proprio nel momento in cui si riconosce l’essenza della mente si vede che non c’è nulla da vedere.
[…]
Quando la si riconosce, la si lasci semplicemente com’è, senza interferire o modificare: questo si
chiama non elaborare. Quando perdiamo la continuità, siamo distratti, trascinati via dai pensieri.
[…] Perdere la continuità significa essere distratti, che a sua volta in pratica significa
dimenticare. […] Proprio nel momento in cui dite: «Ho perduto il punto di vista [un altro modo per
indicare la presenza], mi sono distratto», di nuovo riconoscete, e immediatamente contemplate la
vacuità. A questo punto lasciate così com’è, senza ansia o paura, che sarebbero solo altri pensieri.
Da dove è venuto il pensiero? Non è altro che espressione della consapevolezza. La consapevolezza è
vacuità, la sua espressione è il pensiero.
tempo, la sua espressione è il pensiero concettuale. Non fissate la vostra attenzione
sull’espressione: riconoscete, piuttosto, l’essenza. In questo modo l’espressione non ha il potere
di sussistere, ma semplicemente crolla o si riassorbe nell’essenza. […] È molto importante […] che ricordarsi di riconoscere e il riconoscere siano simultanei, senza che tra i due momenti
trascorra il benché minimo lasso di tempo. […] Proprio nell’istante in cui guardiamo vediamo che
non c’è nulla da vedere, lo vediamo nell’istante stesso in cui guardiamo. Nel momento in cui
vediamo, c’è libertà dai pensieri” (dal cap. 10).
“L’essenza della mente è già vuota” (Tulku Urgyen Rinpoche)
“Riconoscendo la natura vuota, ci liberiamo dalla sua espressione, il flusso del pensiero illusorio.
Ogni volta che questa espressione torna a dissolversi nello stato della consapevolezza, si
progredisce e, alla fine, la realizzazione si manifesta. […] Non dobbiamo decidere: «Non sopporto
i pensieri. Voglio lo stato risvegliato! Devo realizzare l’illuminazione!». Questo tipo di
attaccamento e di sforzo non porterà mai all’illuminazione. Lasciando ripetutamente che
l’espressione dell’attività del pensiero si esaurisca in modo naturale, i momenti di puro rigpa
[consapevolezza] cominciano automaticamente e naturalmente ad allungarsi. Quando non c’è più nessun
pensiero si diventa buddha. A questo punto lo stato libero dai pensieri è privo di sforzo […].
La nostra natura è vuota chiarezza. Non possiamo separare i due aspetti. Vuoto significa ‘non fatto
di qualcosa’, e la nostra natura è sempre stata così. Tuttavia, pur essendo vuota, ha la capacità di
conoscere, sperimentare, percepire. […] La capacità di riconoscere che l’essenza della mente è
vuota si chiama ‘chiarezza’. Se la mente fosse solamente vacuità, spazio nudo, cosa o chi saprebbe
che è ‘vacua’, ‘vuota’, ‘nulla’? Non vi sarebbe conoscenza. Vacuità e chiarezza sono indivisibili.
Questo diviene evidente nel momento in cui osserviamo […].
Chiamiamo questo allenamento ‘ meditazione’, ma […] non si tratta di svuotare l’essenza della
mente cercando di mantenere uno stato vuoto creato artificialmente. Perché? Perché l’essenza della
mente è già vuota. Allo stesso modo non è necessario far sì che questa essenza vuota diventi
chiarezza; è già chiarezza. Tutto ciò che dovete fare è lasciare le cose come stanno. In realtà non
c’è nulla che si debba fare […]. C’è solo un riconoscimento iniziale, che in seguito non richiede
abilità né che tentiate di migliorarlo. Lasciate le cose come sono naturalmente, questa è la
meditazione o meglio la ‘non meditazione’.
Il punto cruciale è non distrarsi nemmeno per un istante: quando avviene il riconoscimento, il punto
chiave della pratica è la non meditazione senza distrazione. ‘Distrazione’ significa che quando
l’attenzione oscilla e si perde, pensieri ed emozioni cominciano a formarsi: «Voglio fare questo e
quello. Ho fame. Voglio andare nel tal posto. Mi chiedo che cosa dovrei dire a questa persona. Dirò
questo». La distrazione è il risultato di tutti questi pensieri, quando la continuità della
consapevolezza non dualistica si perde. L’allenamento consiste semplicemente nel ristabilire il
riconoscimento. Se c’è il riconoscimento non c’è altro da fare […] In questo modo gli strati di
nubi si dissolvono gradualmente.
verificarlo di persona. Il momento che chiamate ‘natura’ è qualcosa che dovete fare e poi mantenere
in modo forzato, è qualcosa di artificioso o che è sufficiente lasciare com’è naturalmente? Voi
stessi dovete osservarlo. Se durante la pratica cominciate a pensare: «Questo stato non è proprio
quello giusto, dovrebbe essere un po’ diverso», oppure: «Penso che questo sia lo stato», «Forse
questo non è lo stato!», «Adesso ci sono», «L’ho appena sperimentato! Adesso è scivolato via!».
Questa non è naturalezza spontanea.
Uno degli effetti dell’allenamento al rigpa, lo stato risvegliato, è la progressiva diminuzione del
pensiero concettuale, l’opposto del rigpa. L’intervallo tra i pensieri si estende e si presenta
sempre più frequente. Lo stato di consapevolezza spontanea […] si prolunga progressivamente. La
continuità del rigpa non è qualcosa che dobbiamo mantenere deliberatamente: […] dovrebbe
manifestarsi spontaneamente” (dal cap. 7).
Fonte: lameditazionecomevia.it
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