La mente, il mondo, il Dhamma
(del venerabile Ajahn Sucitto)
© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro “Kalyana”
Traduzione di Letizia Baglioni.
Estratto del libro “Kalyana, il sentiero graduale del Buddha”, su gentile
concessione dell’Editore Ubaldini.
“Quando si vede con autentica saggezza il sorgere del mondo, non si aderisce
all’idea della non-esistenza del mondo. E quando si vede con autentica
saggezza il cessare del mondo, non si aderisce all’idea dell’esistenza del
mondo.
Il mondo, in generale, è schiavo dell’attaccamento, di ruoli e preconcetti.
Ma colui che non si coinvolge e resta libero da tali attaccamenti, da punti
vista, opinioni dogmatiche e tendenze latenti, non resta invischiato in
questa o quella identità prestabilita”.
Il Buddha, Samyutta Nikaya 12, 15
Imparare a pacificare la mente può essere molto difficile. Non è sempre
facile trovare il modo di fermare la mente che va a caccia di oggetti, o
scrollarsi di dosso un cruccio o un’ossessione. Come fare a calmarsi, e
provare un senso di equilibrato benessere interiore? Possiamo invitare la
mente a fare attenzione a se stessa, e renderla idonea alla riflessione
saggia e alla comprensione intuitiva? Siamo capaci di contemplare quello che
ci succede, le nostre debolezze, quali che siano, in termini di stati
d’animo ed emozioni, e il modo giusto per guarirle?
Abbiamo una qualche voce in capitolo rispetto ai nostri sentimenti di
bisogno, angustia o gioia, o è qualcosa che ci capita e basta? La via della
liberazione ha a che vedere con la libertà di vivere ciò che vorremmo vivere
in termini di bontà, armonia e felicità.
La libertà comincia con la libertà di scegliere il sentiero, che non è un
obbligo. E’ l’invito del Buddha: “Se vuoi venire, sei il benvenuto”. Quindi
fin dai suoi esordi il sentiero è fatto di offerte e possibilità. Questa
libertà di scelta sta alla base della fiducia e dell’interesse. Dobbiamo
sempre tenere presente che mettere in pratica un insegnamento comporta
entrambi, per via della natura della mente. La mente non può funzionare come
si deve in mancanza di libertà: il ‘cuore’ della mente (citta) non tollera
ordini.
Il problema è che spesso la nostra situazione è tale per cui la mente non è
lasciata sgombra da occupazioni per un lasso di tempo apprezzabile: è
sollecitata dalla stimolazione sensoriale e indotta da varie forme di
pressione sociale a impegnarsi e a funzionare in certi modi. La mente viene
afferrata e sbattuta da una cosa all’altra, da un suono a uno stato d’animo
a una faccenda urgente da sbrigare. Per molti, la mente è qualcosa che viene
attivato da forze e pressioni esterne, più che agire di sua spontanea
volontà; una specie di pesce morto in lavatrice: può muoversi parecchio, ma
ciò non significa che sia vivo.
La mente può trovarsi in uno stato simile, agendo e reagendo in balia di
circostanze che la dominano, per cui pensiamo che sia molto attiva quando in
realtà non riusciamo a farla agire su stessa. Non riusciamo a indurla a una
condizione di quiete, o a lasciar andare l’agitazione. Non possiamo, con la
semplice forza di volontà, far nascere uno stato di benessere.
E neppure capiamo bene il perché: la mente è troppo coinvolta per
riconoscere in che cosa è coinvolta. Così come una persona rapita da una
banda di pirati difficilmente saprebbe descriverli con precisione o dire da
dove siano venuti, allo stesso modo una mente posseduta non riconosce il
proprio assalitore. Magari c’è solo una vaga sensazione di tristezza o di
fatica. In queste condizioni non siamo veramente padroni della nostra vita.
Possiamo riflettere su come questo processo sia dipendente da forze esterne,
quali il denaro o il lavoro; si può essere letteralmente posseduti dalla
smania di portare avanti un certo progetto, dall’ansia di successo e la
paura del fallimento. Se c’è un legame emotivo personale nei confronti delle
forze mondane, la mente non potrà che restarne coinvolta. Da qui
l’importanza mai troppo ribadita di imparare a ricordarci di quello che
abbiamo già e saperlo apprezzare; la rinuncia, che è vivere con semplicità,
allenta la presa del materialismo.
Inoltre dobbiamo fare i conti con l’insicurezza del mondo, praticando con
l’ansia che ci produce. Il mondo delle forze sociali ed economiche è al di
là della nostra capacità di controllo. Dobbiamo vedere il suo sviluppo e la
sua decadenza come qualcosa che essenzialmente non ci appartiene. Perfino
questo corpo, il suo aspetto, il suo stato di salute e di vigore, sono cose
su cui abbiamo poca voce in capitolo; entro certi limiti possiamo tenerlo in
forma, ma la sua natura è di essere altrimenti. Il corpo decade, non lo si
può evitare. Puoi cospargerlo di unguenti e profumi, ma il suo odore
naturale trapela.
La sua fame, la sua stanchezza, i suoi acciacchi, si fanno sentire. Notate
quanta parte della nostra attenzione è investita nel mondo dei fenomeni, nel
tentativo di renderlo confortevole e comodo per poi spazientirci e
disperarci, spesso con conseguenze dolorose per noi stessi e per gli altri,
quando si rifiuta di essere come piacerebbe a noi.
Per prendere in mano la situazione occorre sapere che cosa è di nostra
competenza, e prendere contatto con una realtà più fondamentale. Da dove
cominciare? Da sempre, chi cerca la libertà interiore si rivolge alla mente,
alla coscienza, al cuore o anima. Questi sono alcuni dei termini che vengono
usati; però, finché permane l’ignoranza, abbiamo solo un’idea approssimativa
di cosa sia, in concreto, il cuore, l’anima o la mente. Pensiamo in termini
di ‘cammino interiore’, per cui immaginiamo che la mente sia qualcosa che
sta ‘dentro’, magari dentro al nostro corpo, mentre tutto ciò che non è
mente, e dunque di qualità inferiore o non spirituale, sia ‘là fuori’.
Quel modo di pensare ci offre indubbiamente una certa base per essere più
consapevoli dei nostri processi emotivi e psicologici, ma ci porta a credere
di essere un’entità indipendente da tutto il resto. Produce un’insicurezza
di fondo riguardo a quale sia il rapporto fra la mente e tutto il resto da
cui è separata. E l’effetto dualistico non finisce qui: se la mente sta
dentro al corpo significa che è distinta dal corpo, se può osservare
pensieri e sentimenti dev’essere separata da entrambi. E quindi: che ne
facciamo di quello che sta dall’altra parte dello steccato?
Vuol dire che non ci importa più? Così si cade nel solipsismo: non esiste
altro che la mia mente, io sono qui dentro, tutto quello che sta fuori è
solo un sogno. E’ un punto di vista che porta alla dissociazione, o magari a
un atteggiamento di condiscendenza nei confronti del mondo fenomenico che
tinge l’esperienza con i toni del fastidio o dell’egocentrismo. E che dire
degli altri? Se i nostri rapporti sono impostati in quel modo non ci sarà
molta comprensione reciproca.
Inoltre, immaginare che la mente sia ‘dentro’ rende il campo della
meditazione molto angusto. Nel tentativo di isolarsi dall’esterno, la mente
diventa letargica e inibita. A volte, il gesto di rivolgersi verso l’interno
produce forti sentimenti di imbarazzo. E gli atteggiamenti che vi si
associano possono essere vari: forse ci si sente in pericolo, o si sente il
bisogno di mettersi in posa, come quando si viene additati in un gruppo di
persone. Quindi l’imbarazzo è separativo, non fomenta la benevolenza o la
fiducia, quindi rende difficile riconoscere le proprie debolezze. Quando la
meditazione viene portata avanti in queste condizioni diventa difficile: la
mente si rifiuta di aprirsi, si rifiuta di calmarsi.
Il luogo dell’attenzione tranquilla non si trova in realtà né dentro né
fuori. Si può rimanere fissati sia all’esterno sia all’interno. Se ci
fissiamo sul piano esterno, il raggio dell’attenzione sarà incostante, e ci
sentiremo in balìa di forze sociali, sensoriali o economiche. Concentrandoci
su uno stato interno, le nostre intenzioni si distorcono nelle abituali
forme di insicurezza quali la presunzione, il dubbio e la paura. Entrambi i
difetti si associano a un’incapacità di stabilizzare e comprendere o entrare
in empatia con l’esperienza.
C’è un senso di separazione che desume l’esistenza di due realtà
sostanziali. Allora la mente viene concepita come qualcosa di immateriale, e
il corpo come materiale: sono diversi. Di più, la mente stessa ha due
modalità separate, una razionale e una irrazionale, che non dialogano tra di
loro. In ogni dicotomia, il risultato è che un aspetto cerca di dominare o
controllare l’altro. La mente però non può sopprimere o controllare le
sensazioni corporee, la malattia e la vecchiaia. La razionalità non può
passare sotto silenzio l’angoscia, la solitudine o la passione; e senza
felicità ci inaridiamo. La divisione produce inadeguatezza e conflitto.
Questa esperienza dissonante è ciò su cui si basano il nostro linguaggio e
la nostra cultura, ma l’esperienza che il Buddha ha insegnato e incoraggiato
è quella di una realtà diversa e più ampia, che ha un’origine co-dipendente.
Origine co-dipendente significa che i contenuti della nostra esperienza non
sono né oggettivamente reali né soggettivamente indotti. Non sono ‘là fuori’
e non accadono solo ‘nella mia testa’.
Non possono essere attribuiti a un singolo agente personale, dio, se stessi,
un demone, o impersonale, quali il fato, il kamma, l’ignoranza e via
dicendo. ‘Interno’ ed ‘esterno’ sono solo modalità dell’attenzione, e ogni
agente, forza e affetto è mutevole. Non possiamo negare categoricamente
l’effetto del kamma, o l’esistenza del sé, della divinità e via dicendo,
solo che i loro effetti dipendono dall’attenzione e dall’autorità di cui
vengono investiti. Se fossero verità ultime o assolute, la liberazione
dipenderebbe da questi e non dal modo in cui vengono trattati. In altre
parole, l’esperienza della verità ultima o della libertà dipenderebbe da
forze superiori (il che negherebbe la sua natura di verità ultima) e non vi
sarebbe alcun sentiero della pratica nel presente. D’altro canto, negare
l’esistenza relativa di divinità, sé, demoni, kamma, ignoranza, virtù e via
dicendo sarebbe come svuotare di significato il sentiero e le sue
caratteristiche.
Dunque l’origine co-dipendente è la via di mezzo. Essa dà conto
dell’esistenza relativa e degli effetti visibili di qualunque cosa sorga,
per ciò stesso collocando il sentiero nel mondo manifesto dell’esperienza.
Di conseguenza, se vogliamo seguire un sentiero ed evitare gli estremi
dell’esistenza (le cose sono reali indipendentemente) e della non esistenza
(le cose sono pura illusione) è necessario dare accurata attenzione e
partecipare consapevolmente al contesto stesso in cui viviamo.
Nell’accostarci al territorio della mente, non dovremmo trattarla come un
demone, una divinità o un sé. La mente non è una cosa, ma neppure è nulla: è
un conoscere in cui fattori in relazione sorgono e cessano. La mente è più
una risonanza, una vibrazione sintonica, che una cosa. Ciascun momento di
risonanza dipende e si esprime in termini di forma, sensazioni, percezioni,
attività mentali e processo della coscienza discriminante, al livello
sensoriale e mentale. Il contenuto dell’esperienza è il risultato di un
processo in cui coscienza, impressione sensoriale e volizione giocano il
ruolo chiave, e in cui a loro volta questi tre fattori si influenzano e si
determinano a vicenda.
La forma è l’impressione che discerniamo per prima e da cui deduciamo la
presenza di una materia fisica. Concettualmente c’è una massa fisica ‘là’,
ma l’esperienza effettiva è quella di una forma ‘qui’. La coscienza visiva
discrimina fra forma e sfondo; la coscienza mentale discrimina fra ‘là
fuori’ e ‘qui dentro’. Le coscienze funzionano di concerto al livello della
percezione; per cui riteniamo che un suono scaturisca da una corda quando
viene pizzicata in quanto il movimento della corda e il suono sorgono
insieme alla conoscenza acquisita che il suono viene prodotto in quel modo.
Osservate bene il contenuto della vostra esperienza: la forma lascia
supporre che vi sia una materia. Quel sottinteso è l’attimo del
riconoscimento in cui la forma è conosciuta in quanto rossa, o come un uomo
o una macchina, e in cui sorge una sensazione che può essere piacevole,
spiacevole o neutra. Poi subentrano le attività mentali: l’impressione
generata da quella percezione e le inclinazioni derivanti da quelle
impressioni, ossia la direzione che prenderà l’attenzione. Dunque potrà
esserci interesse o no, un’inclinazione ad avvicinarsi o ad allontanarsi.
Questa è la natura della nostra esperienza, e non accade né dentro né fuori.
Una volta capito questo, non c’è bisogno di guardare avanti, fuori o
dentro, perché il fulcro dell’attenzione è sempre su quello che sta
sorgendo. Ciò significa che la qualità dell’attenzione è integra e ferma.
Non ci si sforza di percepire o sentire alcunché, perché il punto dove
l’attenzione riposa è il criterio della realtà in questo momento.
Naturalmente il tipo di accettazione richiesta per una stabilità (samatha)
di questo tipo è qualcosa che si coltiva; siamo programmati alla non
stabilità, a non ricevere le cose così come sono.
E’ qui che la devozione può aiutare. Per poter meditare dobbiamo cominciare
con lo stabilirci o accomodarci in uno spazio dove siamo in grado di
ricevere le impressioni che sorgono. La devozione è un fattore chiave in
questo senso. Un altare o un canto aiutano a sostenere quell’iniziale
invito, quel richiamo al momento presente, offrono il contesto nel quale
possiamo aprire il cuore a ciò che è sacro per noi. Questa apertura viene
sostenuta dall’oggetto stesso del nostro rispetto, e da qui traiamo la forza
di farci toccare da ciò che sta accadendo, che sia piacevole o spiacevole,
qualunque cosa ci susciti. A questo punto le tecniche e i sistemi di
meditazione offrono gli strumenti per acquisire fermezza e orientamento, ma
quelle tecniche possono essere maneggiate nel modo dovuto solo se abbiamo
avuto un tirocinio in termini di moralità, generosità e benevolenza.
Comprensibilmente, vorrei che la mente fosse felice, o almeno disposta a
collaborare, e quindi immagino di dover essere per forza di buon umore. C’è
attaccamento al contatto piacevole, al contatto con cose che capiamo o con
cui abbiamo dimestichezza. C’è una forte inclinazione a volere il contatto
solo con ciò che è stabile e sicuro. Occorre trovare una via di mezzo: non
si tratta di rinunciare a scegliere e non proteggersi, si tratta di basare
la propria scelta su un’inclinazione verso il salutare, piuttosto che
desiderabile da altri punti di vista. C’è una forma di agio che nasce
dall’innocenza, o quanto meno dal ‘prendersi le proprie responsabilità’, a
patto di avere le spalle larghe e saper contemplare gli stati difficili in
termini di Dhamma.
Per cui, ci proteggiamo dall’avidità, dalla gelosia e dalla stizza, ma non
dall’insicurezza e dall’incertezza. Le fluttuazioni che intervengono
rispetto a situazioni, persone, stati d’animo e condizioni è un segno del
Dhamma. E’ il tema adatto da proporre al cuore. A volte ci si affanna tanto
a cercare stabilità o permanenza in un’idea, un sistema, un gruppo, una
comunità, un mestiere, un ruolo… o una pratica meditativa. Ci si sforza di
conformarsi al modello e di piegare la vita alle sue esigenze. Questo è un
ostacolo al sentiero, anche se di tipo molto sottile. E’ solo quando capiamo
che ogni forma di sicurezza va a detrimento della libertà e della purezza di
presenza che avviene il lasciar andare, e che il nostro approccio al Dhamma
si approfondisce.
Considerate quanti dei nostri pensieri ruotano attorno al bisogno di
permanenza. Quanti dei nostri progetti danno per scontato che ci sarà un
futuro. Quante attività si propongono di risolvere un certo problema una
volta per tutte, e quanta della nostra delusione è dovuta al fatto che
pensavamo di avere qualcosa di solido, ma che poi è cambiato. Tutto questo
nutre la nostra riluttanza a confrontarci con l’ignoto, se non addirittura
la paura. La reazione emotiva immediata è credere che non saremo capaci di
affrontare l’ignoto. Ecco perché tanta parte della nostra vita è dedicata a
soddisfare il bisogno di rassicurazione e di sicurezza, cosa che ci depriva
dell’autorità che ci darebbe un’autentica stabilità. Cerchiamo stabilità in
cose che non possono essere stabili, sicurezza in ciò che non può essere
sicuro, permanenza in ciò che non può essere permanente.
Prendendo atto di questo, consolidatevi nella virtù, nell’astenervi dal fare
intenzionalmente ciò che nuoce. Cercate in questo la stabilità e la
permanenza. E’ qualcosa che richiede un impegno attivo, non si può fare
passivamente, è una modalità consapevole di porsi in relazione che va
riaffermata di continuo. Ecco in cosa cercare la permanenza, se volete,
perché non è qualcosa che esiste oggettivamente là fuori o qui dentro, è una
risposta, qualcosa in cui bisogna impegnarsi e attivarsi di continuo. Invece
di mirare a rendere perfette le condizioni esterne, cercando il luogo
perfetto dove vivere, la gente perfetta con cui vivere, e una soluzione ai
problemi su quel piano, dovreste cercare di perfezionare questo tipo di
risposta.
Da qui nasceranno energia, vitalità, sensibilità e chiarezza. Diversamente,
non c’è fine al sentimento di mancanza, al lamento, all’infelicità e alla
depressione perché le cose sono andate male un’altra volta, come se fosse in
loro potere andare diversamente da così. ‘Male’ è un’aggiunta: le cose
seguono il proprio corso naturale. Quando una lampadina si fulmina non è che
va ‘male’, diventa vecchia e poi si fulmina, è la sua natura, è andata bene,
si è immessa in un processo di cambiamento nel quale fa il suo mestiere alla
perfezione.
Quando vediamo le cose alla luce del retto punto di vista, possiamo
coinvolgerci attivamente motivati dalla compassione, per portare bontà, agio
e benessere alle creature e a questo pianeta. Questo è il grande cuore, il
buon cuore. Tutti i nostri requisiti monastici e relativi doveri non hanno
altro significato, da un punto di vista spirituale, che darci i mezzi e
l’occasione di fare il bene, gioire nel fare il bene e trasmetterlo agli
altri. La mente allora può essere una sensibilità che emerge dal piano della
bontà, invece di una cosa alla ricerca di un nido. La mente non è qualcosa
che risiede o si nasconde da qualche parte, o destinata a diventare
qualcosa. E’ una risonanza che dipende dal tipo di attività e di
coinvolgimento che portiamo nella nostra vita. Quando ci coinvolgiamo
lucidamente, la risonanza è lucidità; quando lo facciamo generosamente o con
apprensione c’è la corrispondente risonanza. Se il nostro modo di
coinvolgerci è inconsapevole, la risonanza sarà sorda e fuori tono.
Siamo disposti a vivere così? Come si genera un campo di azione? Ci saranno
volte in cui la risposta darà luogo a un’azione nel mondo, e volte in cui la
risposta darà luogo a un’azione nella mente. In questo modo il rigido
dualismo di mente e mondo viene dissolto dalla comprensione. Quando sembrano
separati possiamo investigare (c’è forse paura? o presunzione?) e ricordare
quel che dobbiamo fare per tornare in equilibrio.
Considerate: la forma è qualcosa che sorge in dipendenza dalla coscienza e
dalla percezione, e viceversa. Le sensazioni sono fluttuanti e mutevoli.
Quel che riveste un’importanza cruciale sono le attività mentali
dell’intenzione e dell’attenzione, in che modo ci accostiamo o evitiamo e in
che modo facciamo attenzione. Siamo la nostra intenzione: è l’intenzione che
ci plasma; e il mondo è la portata e la qualità della nostra attenzione. In
questo modo sorge l’esperienza di cui siamo parte. Ma il processo del
tirocinio mentale ci consente di scegliere. Quando entriamo nel reticolo
generato da mente e mondo, il luogo della liberazione, il luogo della
verità, sono intenzione e attenzione. Possiamo scegliere di rivolgerle al
bene, al luminoso, abbandonando le aspettative personali. Qui sta la nostra
libertà, la nostra facoltà di scelta. Ecco cosa coltiviamo in meditazione.
Nient’altro che si potrebbe fare meditando porterà gran frutto.
° ° °
Ajahn Sucitto, inglese di nascita, è stato ordinato monaco buddhista
(bhikkhu) in Thailandia nel 1976. Tornato al suo paese nel 1978, ha
praticato sotto la guida di Ajahn Sumedho per quattordici anni, assumendo in
seguito la direzione spirituale della comunità del monastero Cittaviveka di
Chithurst (www.cittaviveka.org) dove attualmente risiede e nel cui contesto
sono nati i discorsi raccolti in questo volume. Accanto al suo impegno
principale come membro anziano del “Sangha della foresta”, che fa capo a una
rete di monasteri occidentali nella tradizione di Ajahn Chah, da molti anni
offre insegnamenti e ritiri di meditazione ai laici in varie parti edl
mondo.
Lascia un commento