“La misteriosa essenza liberatoria
contenuta nell’osservare il proprio respiro (ossia:”I Sutra Anapanasati”)” –
di Thich Nhat Hanh
< I sedici esercizi del Sutra Anapanasati >
(Commento del venerabile maestro Thich Nhat Hanh, tratto da due
discorsi di Dharma tenuti il 18 e 22 gennaio 1998 a Plum Village)
Il Sutra Anapanasati, o Sutra sulla Piena Consapevolezza del Respiro*,
tratta dei sedici esercizi per la pratica della respirazione cosciente. È un
sutra fondamentale e di grande bellezza. Esistono molti sutra importanti, ma
avvicinarsi ad essi senza aver prima studiato il Sutra Anapanasati è come
tentare di salire in cima ad una montagna senza l’aiuto di un sentiero già
tracciato. La diffusione di questo sutra in Vietnam è iniziata nel I secolo
dopo Cristo, ma il primo commento, opera del maestro Tang Hoi, risale al III
secolo ed è in cinese. Dell’Anapanasati, infatti, esistono diverse versioni
nel Canone cinese, ad esempio nel Samyukta Agama, oltre alla versione del
Canone pali, contenuta nel Majjhima Nikaya.
Purtroppo il testo cinese, intitolato “Il Grande Sutra sul Respiro”, non è
chiaro quanto il sutra corrispondente in pali, anche se, ad un attento
confronto, dopo oltre 2.500 anni, le differenti traduzioni appaiono
sovrapponibili per circa il 90 per cento. E questo è meraviglioso. Tuttavia
i sedici esercizi esposti nel Canone Pali sono molto più efficaci. Per
questa ragione ho tradotto in vietnamita e in inglese quest’ultima versione.
Il metodo della presenza mentale attraverso il respiro consente di
raggiungere visione profonda e liberazione. Sono certo che il Buddha stesso,
anche dopo aver raggiunto l’illuminazione, ha continuato a seguire il
proprio respiro in consapevolezza. Respirare in consapevolezza significa
essere sempre padroni di se stessi, essere il conducente della propria
automobile, sapere come prendersi cura di sé in modo stupendo.
Nel primo esercizio del Sutra Anapanasati riconosciamo una cosa semplice e
miracolosa:
“Inspirando, so che sto inspirando. Espirando, so che sto espirando”.
Riportate la vostra mente al corpo e al respiro, e all’improvviso vi rendete
conto: “Oh, sto inspirando, sto espirando”.
Riconoscete semplicemente il vostro respiro. Dire “so che sto.” significa
che state portando tutta la vostra attenzione, tutta la vostra mente,
sull’inspirazione e sull’espirazione.
Poiché l’attenzione della vostra mente è tutta concentrata sul respiro, ecco
che senza sforzo potete lasciare andare le preoccupazioni, la rabbia,
l’avidità, la paura, la gelosia.
La presenza mentale è come una guardia che controlla i cancelli di una
fortezza e che, quando vede una persona che entra o esce dalla fortezza, sa
se si tratta di una persona del posto o di uno straniero. La presenza
mentale è la guardia che sa che state inspirando e sa che state espirando.
La vostra mente sa riconoscere se una certa energia è salutare o nociva.
Andando avanti, sviluppando sempre di più la pratica, saprete riconoscere
“questa è gelosia, quella è compassione”, ma all’inizio esercitate
semplicemente la mente a riconoscere il respiro.
Alcuni mettono una mano sull’addome e vi portano tutta l’attenzione: “Il mio
addome si solleva (inspirando), il mio addome si abbassa (espirando)”.
Concentrando la vostra attenzione sul sollevarsi e l’abbassarsi dell’addome,
tutti gli altri pensieri si arrestano. Quando ricevete delle notizie che vi
agitano, e non riuscite a dormire, portate tutta la vostra attenzione al
movimento dell’addome: consentirete così al cervello di riposare,
all’agitazione e all’irritazione di calmarsi.
Continuando questo esercizio anche per soli 5, 10 o 15 minuti riuscirete a
conciliare un sonno profondo.
Il secondo esercizio consiste nell’osservare e prendere atto della lunghezza
del respiro:
“Inspirando un lungo respiro, so che sto inspirando un lungo respiro.
Espirando un lungo respiro, so che sto espirando un lungo respiro”.
Oppure:
“Inspirando un respiro breve, so che sto inspirando un respiro breve.
Espirando un respiro breve, so che sto espirando un respiro breve”.
Ci sono dei praticanti che cercano di forzare e modificare il proprio
respiro. Il Buddha ha detto che questo non è il modo corretto. Non pensate
che un respiro lungo sia meglio di un respiro breve, o viceversa. Prendete
soltanto atto della lunghezza del vostro respiro per quella che è
naturalmente. A volte, il fatto che il respiro sia corto è un bene, come
quando, dopo aver fatto un grosso sforzo, abbiamo bisogno di fare dei
respiri più brevi.
Altre volte, invece, ci può far bene stenderci e fare dei respiri lunghi e
profondi. Un respiro lungo va bene, un respiro breve va bene, tutto dipende
da cosa è meglio per il corpo e la mente in quel momento.
Siate dunque semplicemente consapevoli del vostro respiro, senza cercare di
intervenire su di esso. Non fate nulla, se non osservare e riconoscere,
senza reprimere o forzare. Quando c’è il sole, la sua luce non fa altro che
risplendere sulla terra. Non cerca di diffondere i suoi raggi ovunque e non
obbliga la terra ad assorbirli. Il sole splende e basta. Cerchiamo di
praticare in modo totalmente non violento, in modo amorevole verso il nostro
respiro. Quando siete seduti con la schiena curva non dovete far altro che
riconoscere questo fatto: con naturalezza il vostro corpo tornerà nella
posizione corretta. Non dobbiamo dire quanti secondi, o quanti metri è lungo
il respiro! Dobbiamo solo esserne consapevoli durante tutta la sua durata:
cominciamo dall’inizio dell’inspirazione e teniamo la mente insieme al
respiro fino alla fine. Quando espiriamo è lo stesso: seguiamo da vicino il
respiro finché non ha termine. Il praticante deve dedicarsi diligentemente a
questi due primi esercizi, in modo da padroneggiarli.
Il terzo esercizio consiste nell’essere consapevoli del corpo:
“Inspiro e sono consapevole di tutto il mio corpo, espiro e sono consapevole
di tutto il mio corpo”.
Inspirando sono consapevole dell’aria che entra e riempie i miei polmoni.
Posso sentire l’espansione e la contrazione del diaframma, sento che il
respiro tocca ogni parte del corpo. Il respiro è connesso ai movimenti del
corpo, ma nel Buddhismo esso è inteso anche come parte della mente. Quando
camminate siete consapevoli di ogni vostro passo e quando alzate una mano
portate l’attenzione al sollevarsi della mano.
Se, alzando la mano, seguite il respiro, questo diventa elemento di unione
tra corpo e mente. Seguendo il proprio respiro si possono unire corpo e
mente per cinque o dieci minuti, e anche più, mentre se non siamo
consapevoli del respiro la mente avrà la tendenza a divagare. Quando corpo e
mente sono insieme potete guardare in profondità, mentre se la mente è
lontana e insegue i pensieri è difficile ottenere sufficiente
concentrazione. E senza concentrazione vediamo le cose in modo superficiale.
Alcuni insegnanti di Dharma del passato interpretavano questo esercizio
come: “Sono consapevole dell’intero corpo del respiro”. Non sono d’accordo
con questa interpretazione perché si tratterebbe di una ripetizione del
secondo esercizio, che consiste già nella consapevolezza della lunghezza del
respiro, “il corpo del respiro”.
Questa interpretazione parte dal presupposto che se siamo consapevoli di
tutto il corpo, l’oggetto della nostra concentrazione diventa troppo vasto:
ci sono il cuore, il fegato e tutti gli altri organi. Per questo preferisce
limitare la concentrazione al “corpo del respiro”. Ma questo, a mio avviso,
è sbagliato. Intere generazioni di praticanti hanno commesso questo errore.
È estremamente importante essere consapevoli del proprio corpo. Il fegato,
il cuore, gli occhi, le orecchie, l’intestino sono tutti elementi molto
importanti della nostra pratica. Dobbiamo essere in pace con il nostro
corpo, trattarlo in modo amichevole. Abbiamo invece spesso la tendenza ad
odiarlo, a pensare che il corpo sia nemico della nostra spiritualità.
Il quarto esercizio consiste nel calmare il corpo:
“Inspiro e calmo e rassereno l’intero corpo. Espiro e calmo e rassereno
l’intero corpo”.
Il corpo può essere agitato, il fegato, o il cuore possono non essere in
buone condizioni. Nel quarto esercizio seguiamo il respiro e calmiamo il
corpo: calmiamo il fegato, il cuore, le palpebre, gli occhi, l’intestino,
ogni parte del corpo. Se praticando non cercate di calmare il corpo, come
potete calmare la mente? Per prima cosa, quindi, entrate in contatto con il
corpo e calmatene ogni parte. In seguito calmerete ogni parte della mente. A
volte abbiamo così tante preoccupazioni, ansie, paure, che il nostro corpo
diventa teso, si irrigidisce ed è causa di molti disturbi. Non si tratta di
malanni gravi, ma di piccoli problemi legati alla non buona condizione della
mente che nuoce al nostro organismo.
Dobbiamo, quindi, per prima cosa ritornare al corpo: “Sei lì, mio piccolo
cuore, so che lavori duro e io non ti presto attenzione. Fumo, bevo troppo,
e così ti faccio soffrire”. Sorridiamo al cuore o al fegato, sappiamo che
sono in difficoltà e che stanno lanciando un segnale d’aiuto. Non
pratichiamo il calmare solo a parole: abbiamo bisogno di sentire che ogni
parte del nostro corpo è davvero in pace.
Arriviamo ora ai quattro esercizi che hanno a che vedere con le sensazioni:
il quinto è sulla gioia, il sesto sulla felicità, il settimo è sulle
attività della mente, mentre nell’ottavo calmiamo le attività della mente e
le sensazioni. Iniziamo dal quinto:
“Inspiro e provo gioia. Espiro e provo gioia”.
Potete praticare questo esercizio scrivendo una lista di tutte le cose che
vi danno gioia. Ma, anche qui, non dite “inspiro e provo gioia” solo a
parole. Dovete sentire davvero in voi questa gioia. Inspirando non ho il
cancro, non ho avversione, sono ancora molto giovane, in buona salute, sono
così fortunata da essere in contatto con la pratica. Fate una lista scritta
di tutte le cose positive in voi e attorno a voi, in modo da poter essere
davvero in contatto con la vostra gioia e trarne nutrimento. In Occidente le
persone confondono l’eccitazione con la felicità. Molti giovani fraintendono
e pensano che gioia e felicità siano la stessa cosa. Hanno molta
eccitazione, ma non sono veramente felici.
In realtà gioia e felicità sono due cose diverse. Per fare un esempio, se ci
siamo persi in un deserto e all’improvviso vediamo in lontananza un’oasi,
iniziamo a sentire gioia ed eccitazione perché sappiamo che presto avremo
acqua da bere. Quando arriviamo a bere quell’acqua, l’eccitazione inizia a
diminuire. Nella nostra gioia c’è un po’ di pace, perché ora stiamo bevendo
davvero. Gustiamo realmente quella gioia: ecco, la felicità è assaporare
fino in fondo quell’acqua, non è la gioia eccitata di quando stavamo
pregustando quel bere. Per essere felici dobbiamo vivere in profondità il
momento presente. Respiriamo con gioia, consapevoli di avere già molte
condizioni per la felicità. Entriamo in contatto con tali condizioni,
rallegrandocene e vivendole con pienezza.
Il sesto esercizio consiste proprio nel godere concretamente delle cose
meravigliose che abbiamo:
“Inspiro e mi sento felice. Espiro e mi sento felice”.
Inspirando entro in contatto con le condizioni di gioia, provo gioia.
Espirando abbraccio la gioia, la assaporo, e la gioia diventa felicità. La
gioia deve condurre alla felicità. La funzione della gioia e della felicità
è quella di nutrirci, non di essere ragioni di sofferenza. Sono queste la
gioia e la felicità sane, non la gioia e la felicità dei desideri dei sensi,
come la gioia del potere, del sesso, della buona tavola.
Eppure ci sono persone che passano la giornata pensando solo cose negative
su se stessi e sugli altri. E più pensano in questo modo più si arrabbiano,
si sentono frustrate.
Per questo il Buddha ha insegnato: “Nutri te stesso con la vera gioia e la
vera felicità”.
La pratica del quinto e del sesto esercizio va fatta senza fretta. Vivete
concretamente la gioia e la felicità che sono attorno a voi e in voi. Siate
in contatto con i vostri meravigliosi occhi, che possono vedere il blu del
cielo, il verde della vegetazione. Potete ascoltare il canto della pioggia e
degli uccelli, potete godere di molte cose! Per costruire la vostra felicità
usate l’intelligenza. È vero, c’è sofferenza, ma entrate per prima cosa in
contatto con le meraviglie della vita e nutritevene. Poi potrete guardare
con più serenità ciò che non va bene e prendervene cura per trasformarlo. La
meditazione è cibo, la felicità è cibo. Se la meditazione seduta non dona
pace e gioia, ciò significa che nella pratica c’è qualcosa che non va. Ci
sono probabilmente degli ostacoli, prodotti dalla nostra mente, che
impediscono di essere in contatto con le condizioni per la felicità. Queste
ultime sono numerose, ma non riusciamo ad apprezzarle. Quando succede questo
dovremmo incontrare il nostro insegnante o i nostri amici spirituali e
chiedere il loro aiuto per rimuovere quegli ostacoli. “Inspiro e provo
gioia” è una pratica che andrebbe fatta ogni giorno, perché la gioia dà vita
e conduce alla felicità. Inspirando, sono in contatto con le condizioni per
la gioia, provo gioia. Espirando, abbraccio quella gioia. Ed essendo davvero
in contatto con essa, la gioia diventa felicità. Chiediamo anche ai nostri
fratelli e sorelle nel Dharma come praticano, in modo da imparare dalla loro
esperienza e migliorare ogni giorno la nostra pratica.
Nel settimo esercizio siamo consapevoli di tutte le sensazioni:
“Inspiro e sono consapevole delle sensazioni che sono in me. Espiro e sono
consapevole delle sensazioni che sono in me”.
Nel settimo esercizio pratichiamo la consapevolezza delle sensazioni, usando
la presenza mentale per essere in contatto con ciò che sta accadendo. Se
proviamo una sensazione gioiosa, siamo profondamente consapevoli di questa
sensazione e così continuiamo a nutrirla. Ad esempio, se state mangiando
un’arancia, siete davvero consapevoli del suo dolce sapore. Se, però,
mangiando quell’arancia siete gelosi o arrabbiati con qualcuno, il dolce
spicchio d’arancia è come un fantasma, in quanto non lo potete assaporare
pienamente.
La presenza mentale può riguardare anche cose negative: un collega, ad
esempio, vi offre dell’alcol e mentre bevete vi rendete conto del danno che
può causare al fegato e alla mente. Grazie alla presenza mentale potete
iniziare a capire come rifiutare ciò che danneggia il vostro benessere. Se,
invece, siete assaliti dalla gelosia, potete riconoscerla e dire: “Mia
piccola gelosia, so che ci sei”, senza criticare o giudicare quella
sensazione.
In questo esercizio siete semplicemente consapevoli delle sensazioni: il
dolce spicchio d’arancia, la gelosia, l’alcol. Se non lo foste, potreste
berne molti bicchieri, o pronunciare parole crudeli a causa della vostra
gelosia. Senza presenza mentale si possono fare molte cose dannose. Essere
consapevoli: è facile a dirsi, ma non è affatto una pratica semplice.
Pratichiamo allora con una comunità in cui ci si sostenga l’uno con l’altro.
Per riuscire a sostenere la presenza mentale di altri fratelli e sorelle nel
Dharma, esercitate voi stessi alla piena consapevolezza di ciò che sta
succedendo nel vostro corpo e nella vostra mente.
L’ottavo esercizio consiste nel calmare tutte queste sensazioni:
“Inspiro e calmo e rassereno le attività della mente in me. Espiro e calmo e
rassereno le attività della mente in me”.
È necessario mantenere calma qualsiasi sensazione, anche una sensazione di
gioia. Perché nella gioia c’è eccitazione e quell’eccitazione deve essere
calmata. Persino la felicità va calmata. Se poi in noi c’è una sensazione
dolorosa, che deriva dalle nostre preoccupazioni, da rabbia, gelosia,
disperazione, è davvero necessario riconoscere e abbracciare quella
sensazione.
Questo esercizio consiste proprio nel calmare le sensazioni, nello stesso
modo in cui si calma un bambino che ha il mal di pancia: ci rendiamo conto
che ha male alla pancia, lo teniamo in braccio e lo calmiamo. Come
praticanti dovete sapere come fare, non dovete lasciar passare del tempo,
permettendo alle sensazioni di distruggere il vostro corpo e la vostra
mente. Quando in voi c’è una sensazione, specialmente una sensazione
dolorosa, dovete sapere come usare l’energia della presenza mentale per
abbracciare quella sensazione, come una madre che abbraccia il suo bambino.
Dicendo: “Sono qui, sono qui. La tua mamma è qui, la mamma è qui. Quindi non
aver paura. Mi occuperò di te, abbraccerò la tua sofferenza”.
Non scappate da quella sensazione! E quando riuscite ad abbracciarla, usate
il metodo dell’inspirazione e dell’espirazione per calmarla.
Abbiamo visto che i primi quattro esercizi hanno come oggetto il corpo,
mentre i successivi quattro sono centrati sulle sensazioni. Le sensazioni
possono sorgere dal corpo o dalle percezioni. A volte abbiamo mal di testa o
mal di stomaco, fenomeni che appartengono al corpo e che ci causano una
sensazione dolorosa. Al contrario, se abbiamo dei vestiti caldi con cui
coprirci e cibo a sufficienza sorge in noi una sensazione piacevole
proveniente dal corpo. Prendersi cura del corpo significa, quindi,
procurarci delle sensazioni piacevoli. E lo stesso vale per le percezioni.
Se ci prendiamo cura delle percezioni, ridurremo le sensazioni dolorose,
anche fisiche, che provengono da esse. Le nostre percezioni erronee sono,
infatti, la radice di innumerevoli sensazioni di carattere emotivo: rabbia,
tristezza, paura, preoccupazione, desiderio.
Possiamo dire, dunque, che l’oggetto della seconda serie di quattro esercizi
sono le sensazioni, che sono in relazione sia con il corpo che con le
percezioni.
Passiamo ora agli esercizi dal nono al dodicesimo, focalizzati sulla mente.
In questo caso per mente intendiamo le formazioni mentali. Dalla psicologia
buddhista sappiamo che ci sono cinquantuno formazioni mentali. Le sensazioni
e le percezioni sono due di esse. Ne rimangono, quindi, quarantanove. La
mente viene associata a queste ultime. Infine, gli esercizi dal tredicesimo
al sedicesimo hanno per oggetto i dharma, i fenomeni, che colleghiamo alle
nostre percezioni. Prendendoci cura delle percezioni possiamo trasformare
completamente la grande sofferenza che ci procurano.
Nel nono esercizio siamo consapevoli delle formazioni mentali:
“Inspiro e sono consapevole delle formazioni mentali. Espiro e sono
consapevole delle formazioni mentali”.
Come abbiamo detto, questo esercizio è diverso dal settimo, che prendeva in
considerazione soltanto le sensazioni, mentre qui entrano in gioco tutte le
formazioni mentali. Inspirando, sono consapevole, riconosco la formazione
mentale che è presente in me in questo momento, che si tratti di rabbia,
tristezza, gelosia o avversione. La riconosco e la chiamo per nome:
orgoglio, sospetto, visione erronea, avidità. Questo è davvero importante:
le formazioni mentali vanno prima chiamate per nome e poi abbracciate.
Nel decimo esercizio rassereniamo la mente:
“Inspiro e calmo e rassereno la mente. Espiro e calmo e rassereno la mente”.
Come è possibile rendere più gioiosa una formazione mentale già presente in
noi? Come possiamo fare sorgere delle formazioni mentali positive,
benefiche? Immaginiamo di disegnare un cerchio e di dividerlo in due. La
parte inferiore rappresenta la coscienza deposito, mentre nella parte
superiore individuiamo la coscienza mentale. Sappiamo che la coscienza
deposito custodisce tutti i semi. Quando questi semi si manifestano
diventano formazioni mentali e dobbiamo esserne consapevoli. Come possiamo
far comparire delle formazioni mentali positive nella nostra coscienza
mentale? Abbiamo dei semi buoni in noi: è possibile individuarli e aiutarli
a manifestarsi per rasserenare la mente? In noi ci sono i semi della gioia,
della felicità, dell’amore, del perdono: ci sono stati trasmessi dai nostri
genitori, dai nostri insegnanti, dai nostri patriarchi. Dobbiamo aiutarli a
crescere ogni giorno.
Nel decimo esercizio cerchiamo proprio di entrare in contatto con questi
semi, per permettere loro di manifestarsi come formazioni mentali. Se
lasciamo che siano soltanto i semi della tristezza a manifestarsi, questi
prenderanno tutto lo spazio della nostra coscienza mentale, soffocando i
semi positivi. Non ci sarà più posto per la gioia. Permettiamo allora ai
semi di felicità di germogliare ogni giorno, nutrendoli con l’ascolto dei
discorsi di Dharma, con la pratica, con la meditazione camminata, respirando
in consapevolezza, leggendo i sutra.
Nell’undicesimo esercizio concentriamo la mente:
“Inspiro e concentro la mente. Espiro e concentro la mente”.
Concentrare la mente significa che quando si manifesta in noi una formazione
mentale usiamo la consapevolezza per abbracciarla. Quando c’è presenza
mentale, c’è anche concentrazione. Se abbracciamo più a lungo una formazione
mentale, positiva o negativa, riusciamo senza sforzo a guardare in
profondità nella sua natura, generando in noi saggezza, comprensione
risvegliata. Non dobbiamo fuggire davanti a una formazione mentale, bensì
trattarla con la stessa cura di un ricercatore che è consapevole
dell’oggetto della sua ricerca, o come uno studente di matematica che fa sì
che la concentrazione abbracci gli esercizi a cui si sta dedicando. Se
cerchiamo di fare degli esercizi di matematica mentre guardiamo la
televisione non avremo sufficiente consapevolezza e concentrazione.
Per riuscire a guardare nelle nostre formazioni mentali, nell’ansia, nella
tristezza, nella gelosia, nella solitudine, dobbiamo entrare in uno stato di
profonda concentrazione. Sono emozioni che ci fanno soffrire e abbiamo
bisogno di abbracciarle. La tendenza che abbiamo, invece, è opposta: vediamo
che ci mettono a disagio e cerchiamo di sfuggirle. Ora, però, siamo
determinati ad abbracciarle. A tale scopo usiamo la presenza mentale e la
concentrazione. Se non le abbracciamo, se non le osserviamo, non potremo mai
liberarcene. Se riusciamo a guardare, a riconoscere le formazioni mentali, e
a vedere che sono la radice della nostra sofferenza, diventa più semplice
lasciarle andare. In questo consiste il dodicesimo esercizio:
“Inspiro e libero la mente. Espiro e libero la mente”.
Cosa vuol dire liberare la mente? “Inspirando mi libero, lascio andare la
formazione mentale che è in me, espirando lascio andare la mia formazione
mentale”. Le formazioni mentali, come l’avidità, l’avversione, il sospetto,
l’orgoglio, sono corde che ci legano, corpo e mente, e ci rendono la vita
infelice. Quando riusciamo a guardare in profondità in queste formazioni
mentali, ad abbracciarle e a lasciarle andare, allora scopriamo la felicità
chiamata “liberazione della mente”.
“Inspirando, concentro la mia presenza mentale e la mia attenzione sulla
formazione mentale che è in me, la abbraccio con tenerezza”.
Se c’è concentrazione, la liberazione avviene in modo naturale, senza
sforzo. La preghiera non c’entra. È questione di pratica quotidiana.
Questi quattro esercizi centrati sulle formazioni mentali sono molto
importanti. Non dovremmo dire: “Posso farcela di sicuro”.
Abbiamo moltissimo da imparare a questo proposito: le formazioni mentali
sono una pratica molto vasta da approfondire. Ogni volta che una di esse
emerge, dovremmo riuscire a chiamarla per nome e ad accettarne le cause.
“Eccoti qui, ti chiami avidità, ti conosco da tanto tempo, sei una vecchia
amica. Ben trovata!”.
E le sorridete.
Questo è il metodo per riconoscere le formazioni mentali. Date loro il
benvenuto quando si manifestano. Non permettete che arrivino e vadano via
senza averle riconosciute, è molto importante! I dodici esercizi che abbiamo
visto fin qui devono essere sviluppati a fondo e con diligenza. Dobbiamo
praticarli e condividere la nostra esperienza con gli altri, per aiutare chi
arriva dopo di noi a capire come si pratica. Passiamo ora ai quattro
esercizi che riguardano i dharma o fenomeni.
Grazie ad essi ci è possibile distruggere le percezioni erronee.
Il tredicesimo esercizio consiste nella consapevolezza dell’impermanenza:
“Inspiro e contemplo la natura impermanente di tutti i dharma. Espiro e
contemplo la natura impermanente di tutti i dharma”.
Abbiamo in noi molti ostacoli dovuti all’ignoranza. Ci comportiamo come se
dovessimo vivere un milione di anni, come se fossimo eterni,
indistruttibili. Abbiamo sentito le parole del Buddha, abbiamo ascoltato il
nostro insegnante: entrambi ci hanno parlato dell’impermanenza. Sappiamo
bene che potremo vivere al massimo cento anni.
Pensiamo: quella persona ha avuto un incidente di macchina, quell’altra è in
ospedale, quell’altra ancora ha il cancro, quella è morta. Ma crediamo che
tutto questo non ci riguardi, viviamo questa specie di follia. La nostra
comprensione dell’impermanenza è molto superficiale: la vediamo solo come
un’idea, una teoria, e agiamo nella vita quotidiana come se dovessimo
esserci per sempre. Ma non è vero, non è così. La nostra vita è come un
lampo, come una nuvola nel cielo. Dovremmo concentrarci e guardare in
profondità nell’impermanenza: vedere ogni passo, ogni respiro, ogni boccone
di cibo alla luce dell’impermanenza. Non si tratta di qualcosa di negativo,
di pessimistico. È la verità e va compresa bene, perché l’impermanenza è
essenziale per la vita. Se piantiamo dei girasoli e vogliamo che crescano,
l’impermanenza è indispensabile.
Se il seme di girasole dovesse rimanere per sempre un seme, non esisterebbe
il girasole. Il seme deve scomparire affinché il girasole appaia: ecco
l’impermanenza. E poi, affinché ci siano nuovi girasoli, il girasole deve
diventare vecchio e morire. Non dite “non mi piace l’impermanenza”, perché
vorrebbe dire che non amate la vita.
Impermanenza significa anche “non sé”. In termini di tempo, infatti,
parliamo di impermanenza, mentre in termini di spazio parliamo di non sé. Se
riuscirete a vedere l’impermanenza e il non sé, vedrete l’interessere, la
vacuità. In seguito potrete ottenere l’insight, la comprensione risvegliata
dell’impermanenza.
Vivrete nella luce, nel regno dell’Avatamsaka, il mondo di non nascita e non
morte. L’impermanenza ci rende capaci di lasciare andare, e quando lasciamo
andare, ci sentiamo leggeri, liberi. L’insight dell’impermanenza ci dà
speranza, perché nulla resta uguale per sempre.
Eccoci ora al quattordicesimo esercizio:
“Inspiro e comprendo che i dharma non sono degni di essere desiderati.
Espiro e comprendo che i dharma non sono degni di essere desiderati.”.
Inspirando osservo in profondità la natura dei dharma e comprendo quanto non
siano “degni di essere desiderati”. Il termine sanscrito è viraga, ovvero
“non provare attaccamento e desiderio per qualcosa”. Dovremmo sapere che i
dharma, i fenomeni oggetto delle nostre percezioni, sono impermanenti.
Funzionano come esche, ma non sono degni del nostro desiderio, anche se per
ignoranza possiamo ritenere che non sia così.
Dobbiamo guardare con cura nella natura di ogni fenomeno, in modo da
comprenderne la relatività. Quando gettiamo un’esca nel fiume, sappiamo che
in quell’esca c’è un amo, e speriamo di ingannare il pesce. In effetti il
pesce è ingenuo, perciò non abbiamo bisogno di usare un’esca vera. Ci è
sufficiente agganciarne all’amo una di plastica. Se il pesce sapesse come
osservare la natura ingannevole delle cose, riuscirebbe a individuare l’amo
nascosto nell’esca e ne comprenderebbe la natura “non degna di essere
desiderata”.
Il Buddha ha detto che ci sono cinque tipi di desideri mondani: potere,
denaro, sesso, fama e buon cibo. La maggior parte di noi ha sofferto a causa
del desiderio di un cibo appetitoso: mangiamo una pietanza perché ha un buon
sapore, ma dopo soffriamo moltissimo. Solo allora iniziamo a vedere che
tutto ciò non è degno del nostro desiderio. Il Buddha nei suoi discorsi ci
ha offerto molti esempi: il desiderio è come una torcia che reggiamo
controvento, la cui fiamma soffia all’indietro e ci brucia; il desiderio è
anche un osso senza carne che, rosicchiato dai cani giorno e notte, non dà
alcun nutrimento. Dopo aver guardato in profondità nell’impermanenza,
possiamo osservare a fondo la natura “non desiderabile” delle cose che
vogliamo per capire come portino con loro pena e sofferenza.
Il Buddha ha anche narrato la stora di un assetato che aveva visto
dell’acqua rosa, molto profumata. Nonostante fosse stato avvisato che
quell’acqua gli sarebbe stata fatale, egli la bevve e morì. Questo è
l’effetto dei desideri dei sensi. Dobbiamo perciò ricordarci di mettere in
pratica le parole dei sutra con l’aiuto del Sangha.
Se abbiamo la presunzione di farne a meno, intraprenderemo facilmente il
sentiero errato, inseguendo i cinque desideri mondani. A questo proposito è
anche utile chiedere a chi ha sofferto molto, a causa dei propri desideri,
di parlare della propria sofferenza. È un modo eccellente per capire cosa si
rischia, soprattutto nel caso in cui non vi siate ancora addentrati in quel
regno di sofferenza e pensiate che sia una buona meta.
Proseguiamo ora con il quindicesimo esercizio:
“Inspiro e contemplo la natura di non nascita e non morte di tutti i dharma.
Espiro e contemplo la natura di non nascita e non morte di tutti i dharma”.
Il termine nirodha significa “non nascita e non morte”, ma anche nirvana.
Iniziamo a entrare in profondità nell’oggetto della nostra meditazione: dopo
aver compreso l’impermanenza e la natura non degna di desiderio dei dharma,
giungiamo al nirodha, che è la cessazione, l’estinzione di nascita e morte.
Inizialmente osserviamo che le cose nascono e muoiono, hanno un inizio e una
fine, un essere e un non essere. Il più grande dovere di un praticante è
proprio andare oltre il mondo di nascita e morte ed essere parte del mondo
di non nascita e non morte. Perché nascita e morte sono soltanto idee. Il
Sutra del Cuore ci insegna che non c’è né nascita né morte, nulla di puro e
di impuro. È uno dei discorsi del Buddha che ci mette in contatto con la
dimensione ultima, dove non ci sono l’uno o i molti. Aprire la porta di né
nascita né morte, non andare né venire, è come aprire la porta della
dimensione ultima ed essere incrollabili e liberi. Nonostante il
quindicesimo esercizio sia d’aiuto per entrare in contatto con la dimensione
ultima, ci sono persone che non apprezzano il mio insegnamento, dicendo che
spiego soltanto come inspirare ed espirare. In realtà inspirare ed espirare
seguendo il Sutra sulla Piena Consapevolezza del Respiro ci può portare
molto lontano.
Passiamo infine al sedicesimo e ultimo esercizio:
“Inspiro e medito sul lasciar andare. Espiro e medito sul lasciar andare”.
Se non riuscite a lasciare andare, non potete essere liberi. Abbandonate le
vostre idee sulla nascita e sulla morte, sull’esistere e sul non esistere.
Per essere felici occorre lasciare andare ogni convinzione che procura
sofferenza. Molti di noi credono fermamente che “questo corpo è me”, ma se
lasciano andare questa convinzione possono smettere all’istante di aver
paura.
Ancora, abbiamo l’idea che la durata della nostra vita sia di settant’anni,
ma se riusciamo ad abbandonarla diventeremo immortali.
Pensiamo di avere un sé separato, crediamo che la nostra felicità non sia la
felicità degli altri e che quella degli altri non sia la nostra. Questo ci
impedisce di essere felici. Dobbiamo lasciare andare le idee di un sé, di un
essere umano, di un essere vivente e della durata di una vita, come insegna
il Buddha nel sutra Vajracchedika, il sutra del diamante che recide le
illusioni.
Abbandonando queste idee potremo lasciare andare qualsiasi attaccamento e
saremo felici.
Guardate bene nella vostra mente per capire se c’è in voi una certa idea di
successo, se volete essere in un modo o in un altro, se pensate che starete
bene solo quando riuscirete a sposare quella persona oppure a divorziare, se
volete essere il numero uno. Si può perfino morire per idee di questo tipo!
Prendete allora quell’idea di felicità, abbracciatela e osservatela in
profondità. Sarete felici solo quando saprete come lasciarla andare. In
conclusione, il sedicesimo esercizio è molto efficace e riguarda la pratica
del lasciare andare le idee del sé e della durata della vita, condizione
essenziale per essere davvero felici e stabili.
La parte del sutra in cui sono illustrati i sedici esercizi si conclude
così:
“La piena consapevolezza del respiro, se sviluppata e praticata con
continuità secondo questi insegnamenti, darà frutti e sarà di grande
beneficio”.
In effetti, il giorno in cui ho scoperto la profondità di questo discorso
del Buddha è stato un giorno davvero felice. In precedenza avevo cercato di
impararlo e mi ero accontentato di una conoscenza teorica, senza però sapere
come godere del momento presente. Comprendere il Sutra Anapanasati, quindi,
è stato per me come trovare un immenso tesoro. Sono sicuro che anche per voi
sarà fonte di nuove comprensioni ogni volta che lo studierete e lo metterete
in pratica.
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*Per il testo del sutra tradotto da Thich Nhat Hanh e un ulteriore commento
più approfondito
consultare “Respira! sei vivo”, 1994, edizioni Ubaldini o “The path of
emancipation”, 2000, Parallax Press.
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