La morte del Guru di Yoganandaji

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La morte del Guru di Yoganandaji

La morte (mahasamadhi) del Guru di Yoganandaji (Sri Yukteswarji)

CAPITOLO XLII

dell’Autobiografia di uno yoghi

– di Paramahansa Yogananda

GLI ULTIMI GIORNI TRASCORSI COL MIO GURU

“Guruji, sono lieto di trovarvi solo, questa mattina”. Ero appena arrivato all’eremítaggío di Serampore, con un fragrante fardello di frutta e di rose. Sri Yukteswar mi guardò con dolcezza.

«Qual è la domanda che mi vuoi fare?”. Il Maestro si guardò
intorno come se cercasse una scappatoia.

“Guruji, sono venuto a voi quando ero uno studente di liceo. Adesso sono adulto ed ho anche qualche capello bianco. Sebbene mi abbiate inondato di silenzioso affetto fin dal primo momento che vi ho incontrato, vi siete accorto che solo una volta, il giorno del nostro incontro, mi avete detto: – Ti voglio bene?”.

E lo guardai supplichevole.

Il Maestro abbassò lo sguardo: “Yogananda, devo portare nel
freddo reame del linguaggio i caldi sentimenti che sono meglio serbati nel silenzio del cuore?”

” Guruji, lo so che mi amate, ma le mie orecchie mortali anelano a sentirvelo dire”

“Sia come tu vuoi. Nella mia vita coniugale spesso ho desiderato un figlio per portarlo sul sentiero dello yoga; ma quando
giungesti tu nella mia vita, fui appagato. In te ho trovato mio figlio”. Due limpide lacrime brillavano negli occhi di Sri
Yukteswar.

“Yogananda, ti amerò sempre”

“La vostra risposta è il mio passaporto per il cielo”. Sentii un peso togliermisí dal cuore e dissolversi per sempre al suono delle sue parole. Spesso il suo silenzio mi aveva preoccupato; sapevo che egli era antiemotívo e padrone di sé, ma spesso temevo di non essere riuscito a soddisfarlo compiutamente. Aveva uno strano carattere che non si poteva mai conoscere appieno; un carattere calmo e profondo, insondabile dal mondo esteriore, i cui valori egli aveva da lungo tempo superati.

Pochi giorni dopo, quando parlai dinanzi ad un’enorme pubblico all’Albert Hall di Calcutta, Sri Yukteswar acconsentì di sedere accanto a me sul podio, col Maharaja di Santosh e il sindaco di Calcutta.

Il Maestro non fece alcun apprezzamento, ma durante la conferenza lo guardavo ogni tanto e mi pareva di vedere nei suoi occhi una luce di compiacimento.

Parlai, quindi, agli alunni dell’Uníversità di Serampore. Mentre guardavo i miei antichi compagni di classe, ed essi guardavano il loro vecchio “Monaco pazzo”, lacrime di gioia si mostravano senza vergogna. Il mio professore di filosofia, il dottor Ghoshal
‘dalla lingua d’argento’, venne a salutarmi. Tutta la nostra passata incomprensione era stata dissolta dall’alchimia del
tempo.

La Festa del Solstizio d’Inverno fu celebrata alla fine di
dicembre nell’eremítaggio di Serampore. Come sempre, i discepoli di Sri Yukteswar vi si riunirono tutti, venendo da vicino e da lontano. I devoti sankirtan, gli assolo cantati dalla voce
dolcissima del famoso cantante bengali Kristo-da, il festino servito da giovani discepoli, le commoventi parole del Maestro pronunciate sotto le stelle nell’affollato cortile dell’ashram…

Ricordi! ricordi! Gioiose feste di anni lontani! Quella notte, però, doveva accadere qualcosa di nuovo.

“Yogananda, ti prego di parlare agli ospiti in inglese!”.

Gli occhi del Maestro ridevano, mentre egli mi faceva questa richiesta doppiamente insolita. Ricordava forse la mia
imbarazzante situazione a bordo della nave, che aveva preceduto la mia prima conferenza in inglese? Raccontai la storia ai miei confratelli, terminando con fervide parole di omaggio per il nostro Guru.

“La sua onnipotente guida è stata sempre con me, non solo sulla nave”, conclusi, “ma ogni giorno di tutti i quindici anni
trascorsi nella grande e ospitale America”.

Quando gli ospiti se ne andarono, Sri Yukteswar mi chiamò nella stessa camera da letto dove una sola volta, dopo una festa come questa’ mi era stato concesso di dormire nel suo letto. Oggi il mio Guru vi stava quietamente seduto e i discepoli erano disposti in semicerchio ai suoi piedi. Sorrise, nel vedermi entrare in fretta nella stanza.

Yogananda, parti adesso per Calcutta? Ti prego di tornare qui domani. Ho alcune cose da dirti”.

Il pomeriggio seguente, con poche e semplici parole di
benedizione, Sri Yukteswar m’insignì del mio nuovo titolo
monastico di Paramahansa .

“Questo nome prende ora ufficialmente il posto di quello
precedente di Swami”, mi disse mentre m’inginocchiavo dinanzi a lui.

Rídendo silenziosamente, pensai a tutti gli sforzi che avrebbero fatto i miei allievi americani per pronunciare ‘Paramahansaji’.

Il mio compito sulla terra è ormai terminato; tu devi
continuarlo”. Il Maestro parlava calmo, i suoi occhi erano dolci e tranquilli; il cuore mi palpitava di paura.

“Ti prego di mandare qualcuno ad assumere la responsabilità del nostro ashram di Puri”, continuò Srí Yukteswar. “Lascio tutto nelle tue mani. Tu saprai guidare con successo la nave della tua vita e dell’organizzazíone verso le divine sponde”.

Piangendo, abbracciai i suoi piedi. Egli si alzò e mi benedisse con amore.

Il giorno seguente chiamai da Ranchi un discepolo, Swami
Sebananda, e lo mandai a Puri a dirigere l’eremitaggio. Il mio Guru discusse con me i dettagli legali per la sistemazione dei suoi averi. Era ansioso di evitare contestazioni da parte di parenti, dopo la sua morte, per il possesso dei due eremitaggi e di altre proprietà che egli desiderava devolvere solo a scopi caritatevoli.

“Recentemente si sono fatti dei preparativi perché il Maestro visitasse Kidderpore, mi disse, un pomeriggio, il condiscepolo Amulaya Rabu, “ma egli non ci volle andare”.

Sentii in me un gelo premonitore. Alle mie incalzanti domande, Sri Yukteswar rispose solo: “Non andrò più a Kidderpore”, e per un istante il Maestro tremò come un bimbo impaurito.

(“L’attaccamento dell’uomo alla dimora fisica, che è ínsito nella sua stessa natura `, scrisse Patanjalí, “esiste in lieve misura perfino nei grandi Santi”. In alcuni suoi discorsi sulla morte, il mio Guru aveva aggiunto: “Proprio come un uccello che è stato a lungo imprigíonato in una gabbia, esita ad abbandonare la sua solita dimora quando trova la porta aperta”).

“Guruii”, lo pregai fra i singhiozzi, “non dite questo! Non
ditemi più parole simili!”.

Il viso di Sri Yukteswar si distese in un placido sorriso.

Sebbene prossimo a compiere ottantun anni, appariva sano e forte.

Scaldandomi giorno per giorno al sole dell’amore del mio Guru, ínespresso ma profondamente sentito, allontanai dalla mia mente cosciente le varie allusioni che egli aveva fatte sul suo
prossimo trapasso. «Maestro, il Kumbha Mela si raduna questo mese ad Allahabad”, dissi, mostrando al Guru le date del Mela in un almanacco bengali.

‘Vuoi davvero andarvi?”

Non avvertii la riluttanza di Sri Yukteswar a lasciarmi andare e continuai: “Una volta voi aveste la fortuna d’incontrare Babaji al Kumbha di Allahabad. Forse questa volta avrò anch’io la
ventura di vederlo”.

“Non credo che lo incontrerai là”, mi rispose il Guru e poi
tacque, non desiderando opporsi ai miei progetti.

Quando ventiquattr’ore dopo partii per Allahabad con un piccolo gruppo, il Maestro mi benedisse quietamente nel solito modo. A quanto pare, io rimanevo immemore e insensibile ai sottintesi nell’atteggiamento di Sri Yukteswar, perché il Signore voleva risparmiarmi il dolore di dover assistere impotente alla fine dei mio Guru.

Nella mia vita è sempre avvenuto che, alla morte di coloro che ho profondamente amato, Dio provvedesse misericordiosamente a
tenermi lontano dalla scena.

La nostra comitiva giunse al Kumbha Mela il 23 gennaio 1936. La riboccante folla di oltre due milioni di persone- costituiva uno spettacolo impressionante. La caratteristica particolare del popolo è la riverenza innata – anche nel più semplice contadino – per i valori dello Spirito e per i monaci e sadhu che hanno
rinunciato ai legami del mondo per cercare un divino ancoraggio.

Vi sono, è vero, degli impostori e degli ipocriti, ma l’India rispetta tutti, per amore di quei pochi che illuminano la nostra terra di superne benedizioni. Agli occidentali che assistevano a quello spettacolo era offerta un’occasione unica per sentire il polso vitale del paese, l’ardore spirituale al quale l’India deve la sua inesausta vitalità insopprimibile dai colpi inferti dal tempo.

Il nostro gruppo trascorse il prímo giorno in sbalordita
contemplazione. Vedemmo migliaia di pellegrini tuffarsi nel fiume sacro per, ottenere la remissione dei peccati; assistemmo a
solenni riti religiosi celebrati da sacerdoti brahmini; vedemmo devote offerte gettate ai piedi di silenziosi sannyasi; guardammo passare teorie di elefanti, di cavalli con gualdrappe e cammelli di Rajputana dal lento passo, seguiti da una strana parata
religiosa di sadhu nudi che sventolavano scettri d’oro e
d’argento, bandiere e gagliardetti di velluto di seta.

Anacoreti dai fianchi stretti in una fascia, unico indumento, sedevano tranquillamente a piccoli gruppi, i corpi cosparsi delle ceneri che proteggono dal caldo e dal freddo. L’occhio spirituale era palesemente segnato sulla loro fronte da una macchia fatta con pasta di legno di sandalo. A migliaia si vedevano swami dalla testa rasata, vestiti di color ocra, con il loro bastone di bambù e la ciotola delle elemosine. I loro visi splendevano della pace di chi ha rinunciato al mondo, mentre con i discepoli camminavano e discutevano di argomenti filosofici.

Qua e là sotto gli alberi, intorno a immense cataste di ceppi ardenti, stavano pittoreschi sadhu con i capelli intrecciati e attorcigliati sul sommo del capo. Alcuni avevano barbe
lunghissime avvolte a spirale e legate in un nodo. Meditavano calmi; o stendevano le mani in un gesto di benedizione sulla folla che passava: mendicanti, maharaja assisí su elefanti, donne avvolte in sari multicolori e con i braccialetti tintinnanti ai polsi e alle caviglie, fakirí dalle sottili braccia
grottescamente sollevate, brahmacharí che portavano sostegni per poggiare i gomiti durante la meditazione, e umili saggi la cui solennità celava un intimo rapimento. E su tutto questo frastuono si udiva l’incessante richiamo delle campane del tempio.

Nel nostro secondo giorno di mela entrammo in vari ashram e
capanne provvisorie, offrendo il nostro pronam a santi
personaggi.

Ricevemmo la benedizione del capo del ramo Giri dell’Ordine
Swami, un magro e ascetico monaco con ridenti occhi di fuoco. Poi ci recammo a visitare un eremitaggio, il cui guru aveva
osservato il voto del silenzio e di una rigida dieta di frutta durante gli ultimi nove anni.

Sul Palco centrale nell’atrio dell’ashram sedeva un sadhu cieco, Prajna Chakshu, profondamente versato nei shastra e molto
rispettato da tutte le sette.

Dopo un breve discorso da me tenuto in indi sui Vedanta, il
nostro gruppo lasciò il pacifico eremitaggio per salutare uno swami che era lì accanto, Krishnananda, un bel monaco dalle
guance rosee e dalle potenti spalle. Distesa accanto a lui, una leonessa addomesticata. Vinta dal fascino spirituale del monaco – e non, ne sono convinto, dal suo, fisico possente! – la belva della jungla rifiuta la carne e preferisce il riso e latte. Lo swami ha insegnato al fulvo animale a pronunziare: ”Om” in un profondo e suggestivo ruggito. Un devoto felino!

Un altro nostro incontro, un’intervista con un dotto giovane sadhu, è ben descritta nel brillante diario di viaggio del signor Wright:

“Attraversammo con la Ford il bassissimo Gange su uno
scricchíolante ponte di zattere; insinuandoci a mo’ di serpe ci facemmo strada in mezzo alla folla e per strette, intricate
stradine giungemmo al punto sul fiume che Yoganandaji m’indicò come il luogo del primo incontro fra Babaji e Sri Yukteswarji.

Poco dopo scendemmo dalla macchina e camminammo per un tratto fra il denso fumo dei fuochi dei sadhu e su sabbie sdrucciolevoli, per giungere a un gruppo di minuscole capanne di fango e paglia.

Ci fermammo dinanzi ad una di queste abitazioni provvisorie, che aveva una minuscola entrata senza porta. Era l’asilo di Kara Patri, un giovane sadhu errante, noto per la sua eccezionale intelligenza. Egli sedeva a gambe incrociare su un mucchio di paglia gíalla. Sua unica copertura, e anche l’unico suo possesso, era un panno color ocra gettato sulle sue spalle. “Un volto
davvero divino ci sorrise dopo che tutti e quattro fummo entrati, a quattro zampe, nella capanna ed ebbimo offerto il pronam a quell’anima illuminata, mentre la lanterna a petrolio
sull’entrata gettava fantastiche ombre danzanti sui muri
ricoperti di paglia. Gli occhi del sadhu brillavano di felicità, i suoi denti perfetti scintillavano. Non ero in grado di
comprendere ciò che diceva in indi, ma il suo volto esprimeva entusiasmo, amore e una radiante bellezza spirituale. Nessuno poteva ingannarsi sulla sua grandezza.

Immaginate la sua vita beata! E’ distaccato dal mondo materiale: libero dai problemi del vestire, libero dal desiderio di un cibo variato mangia vitto cotto solo a giorni alterni, non porta mai la ciotola per l’elemosina; è libero da ogni difficoltà
economica, non maneggia soldi, non conserva mai nulla, sempre fidando in Dio. Libero dalle noie dei trasporti, non sale mai in un veicolo, ma cammina a piedi lungo le rive dei fiumi sacri, non resta mai in un luogo più a lungo di una settimana per evitare qualsiasi possibilità di attaccamento.

“Un’aníma modesta, nonostante la conoscenza non comune dei Veda e la laurea col titolo di Shastri (maestro delle Scritture) della Università di Benares. Un sentimento sublime m’invase mentre sedevo ai suoi piedi; tutto sembrava rispondere al mio desiderio di vedere la vera, l’antica India, poiché costui è un vero
rappresentante di questo Paese di giganti spirituali”.

Interrogai Kara Patri sulla sua vita errante: “Non hai altre vesti per l’inverno?”
“No, questa basta”.
“Non hai libri con te?”.
“No. Insegno a memoria alle persone che desiderano ascoltarmi”. Che altro fai?”.
“Vado errando qua e là lungo il Gange”.

A queste tranquille parole fui vinto dalla nostalgia di una vita semplice come la sua. Rammentavo l’America e tutte le
responsabilità che mi gravavano sulle spalle.

– No, Yogananda, – dissi a me stesso in un momento di
tristezza, – in questa vita l’errare sulle rive del Gange non ti è concesso.

Dopo che il sadhu ci ebbe illustrato alcune delle sue
realizzazioni spirituali, gli posi una brusca domanda:

“Queste descrizioni le prendi da un testo delle Scritture, o sono tue esperienze interiori?”.

“Metà le prendo da quanto ho appreso dai libri”, mi rispose con un aperto sorriso, “e metà dalle mie proprie esperienze”.

Sedemmo per un poco, felici, in meditativo silenzio. Dopo esserci allontanati dalla sua santa presenza, dissi a Wright: “E’ un re assiso su un trono di paglia d’oro”.

Quella sera pranzammo sul terreno del Mela, sotto le stelle, mangiando su piatti di foglie unite fra loro con dei bastoncini.

La lavatura dei piatti è ridotta al minimo, in India!

Ancora due giorni dell’affascínante kumbha: poi verso nord-ovest lungo le rive del Jumna, ad Agra. Vidi un’altra volta il Taj Mahal; nella memoria Jitendra mi stava a fianco, impressionato da quel sogno di marmo; procedemmo poi per giungere a Brindaban, all’ashram di Swarni Keshabananda.

Il mio scopo nell’andare a trovare Keshabananda si collegava a questo libro. Non avevo mai dimenticato la richiesta fattami da Sri Yukteswar, di scrivere la vita di Lahiri Mahasaya. Durante il mio soggiorno in India coglievo ogni occasione per entrare in diretto contatto con i discepoli e i parenti dello Yogavatar.

Registravo le loro conversazioni in voluminosi appunti;
verificavo fatti e date e raccoglievo fotografie, vecchie
lettere, documenti. Il mio incartamento su Lahiri Mahasaya
diventava sempre più voluminoso, e mi avvidi con costernazione che mi attendeva un arduo lavoro di scrittore. Pregai di poter essere un biografo degno del grandissimo Guru. Vari suoi
discepoli temevano che in un resoconto scritto il loro Maestro potesse risultare rimpicciolito o erroneamente
interpretato.

“E’ difficile rendere giustizia con la fredda parola alla vita di un’incarnazione divina”, mi aveva detto una volta Panchanon
Bhattacharya. Anche altri discepoli molto vicini al Maestro si accontentavano di serbare lo Yogavatar celato nel loro cuore, come il precettore immortale. Nondimeno, memore della predizione di Lahiri Mahasaya sulla sua biografia, non risparmiai alcuno sforzo per scoprire e convalidare i fatti della sua vita terrena.

Lo swami Keshabananda accolse con calorosa cordialità la nostra piccola comitiva a Brindaban, nel suo ashram di Katyayani Peith, un imponente edificio in mattoni con massicci pilastri neri, situato in un bellissimo giardino.

Egli ci fece subito entrare in un salotto adornato da una grande fotografia di Lahiri Mahasaya. Lo swami si avvicinava ai
novant’anni, ma il suo corpo muscoloso irradiava forza e salute e i lunghi capelli, la barba bianca come neve, gli occhi brillanti di gioia gli conferivano davvero un aspetto patriarcale. Gli dissi che desideravo nominarlo nel mio libro sui Maestri
dell’India.

“Raccontatemi, vi prego, della vostra gioventù”, gli chiesi con un supplichevole sorriso. I grandi yoghi sono spesso poco
comunicativi.

Kesbabananda ebbe un gesto d’umiltà: “C’è assai poco che abbia un’importanza esteriore. Praticamente tutta la mia vita si è svolta nelle solitudini dell’Hímalaya, viaggiando a piedi da una silente caverna all’altra. Per un po’ di tempo ebbi un piccolo ashram fuori Hardwar, circondato da un boschetto d’alti alberi. Era un luogo di pace dove venivano pochi visitatori; la presenza ovunque dei cobra li teneva lontani”. Keshabananda rise. “Poi l’inondazione del Gange spazzò via eremitaggio e cobra. Allora i miei discepoli m’aiutarono a costruire questo ashram a Brindaban”.

Uno della nostra comitiva chiese allo Swami come si era protetto dalle tigri dell’Himalaya. Keshabananda scosse il capo: “In
quelle altitudini spirituali”, disse, “è raro che le fiere
molestino uno yoghi. Una volta, nella jungla, m’incontrai faccia a faccia con una tigre; alla mia subitanea esclamazione la belva si arrestò come impietrita”. E di nuovo lo Swami ebbe una
risatina, nel ricordare.

“A volte abbandonavo il mio ritiro per visitare il mio Guru a Benares. Egli scherzava con me sui miei continui viaggi
nell’Himalaya selvaggio.

“- Hai il marchio del vagabondaggio sui piedi, – mi disse un giorno. – Sono contento che il sacro Himalaya sia abbastanza esteso per te.

“Molte volte”, continuò Keshabananda, “prima e dopo il decesso, Lahiri Mahasaya mi è apparso nel corpo. Per lui, nessuna cima himalayana è inaccessibile!”.

Due ore più tardi lo Swami ci condusse nel patio da pranzo.

Sospirai in silenziosa costernazione: un altro pranzo di quindici portate! In meno di un anno di ospitalità indiana ero ingrassato di venticinque chili. Eppure rifiutare anche una sola delle
vivande preparate con tanta cura per gli interminabili banchetti in mio onore sarebbe stato considerato il colmo della scortesia. In India (e ahimé in nessun altro paese!) uno swami ben imbottito è considerato un bellissimo spettacolo .

Dopo il pranzo, Keshabananda mi condusse in una nicchia
appartata. Il tuo arrivo non mi è giunto inaspettato”, mi disse. “Ho un messaggio per te”.

Rimasi sorpreso; nessuno aveva saputo della mia intenzione di andare a trovare Keshabananda. Lo Swami continuò:

“Mentre vagavo, l’anno scorso, per le montagne dell’Himalaya settentrionale presso Badrinarayan, smarrii la strada. Trovai rifugio in una grotta spaziosa e vuota, benché delle braci
ardessero in una buca dei terreno roccioso. Sedetti vicino al fuoco, lo sguardo fisso sull’entrata della caverna inondata di sole, chiedendomi chi potesse essere l’abitatore di quel
solitario ritiro.

“- Keshabananda, sono lieto che tu sia qui, – risuonò una voce alle mie spalle. Mi volsi spaventato, e rimasi abbagliato alla vista di Babaji! Il grande Guru si era materializzato in un
recesso della caverna. Traboccante della gioia di poterlo
rivedere dopo tanti anni, mi prostrai ai suoi sacri piedi. – Ti ho chiamato qui, continuò Babaji; – è per questo che hai smarrito la strada e sei stato condotto alla mia temporanea dimora in questa caverna. Molto tempo è passato dai nostro ultimo incontro; sono lieto di poterti salutare un’altra volta.

“L’immortale Maestro mi benedì con alcune parole di elevazione spirituale; poi aggiunse: – Ti do un messaggio per Yogananda. Egli ti farà una visita quando tornerà in India. Molte faccende in rapporto col suo Guru e con i discepoli sopravvissuti di
Lahiri Mahasaya terranno Yogananda pienamente occupato; digli, allora, che questa volta non verrò da lui, com’egli invece
ardentemente spera. Lo vedrò
in qualche altra occasione”.

Fui profondamente commosso nell’udire dalle labbra di
Keshabananda la consolante promessa di Babaji. Una certa ferita nel mio cuore si rimarginò all’istante; non mi doleva più il fatto che, come Sri Yukteswar aveva predetto, Babaji non fosse apparso al Kumbha Mela.

Dopo aver trascorso una notte quali ospiti dell’ashram, la nostra comitiva ripartì nel pomeriggio seguente per Calcutta.

Nell’attraversare un ponte sul fiume Jumna, ci fu offerto il magnifico spettacolo del sole calante dietro Brindaban che
infiammò il cielo; una vera fornace di Vulcano che si rifletteva nelle calmissime acque sotto di noi.

Il lido del Jumna è santificato dai ricordi di Sri Krishna
bambino. Qui egli, con dolce innocenza, si dava ai suoi fila (giochi) con le gopi (ancelle), esempio del supremo amore
che sempre esiste fra un’incarnazíone divina e i suoi fedeli. La vita di Krishna Signore è stata mal compresa da molti
commentatori occidentali. Le allegorie nelle Scritture confondono le menti letterate; per chiarire efficacemente questo punto, cito il comico equivoco in cui incorse un traduttore di un ispirato santo del Medio Evo, il ciabattino Ravidas, che col semplice linguaggio del suo mestiere canta la gloria spirituale che si cela in tutta l’umanità:

Sotto la vasta volta azzurra
Vive la divinità ammantata di segreto.

Vien fatto di voltarsi per nascondere un sorriso nell’udire la pedestre interpretazione del poema di Ravidas, fatta da un
erudito scrittore occidentale:

“Poi costruì una capanna e vi pose un idolo che egli stesso aveva ricavato da un pezzo di cuoio, e si accinse a adorarlo.
Ravidas, un confratello del grande Kabir, fu il Guru di una degna chela, la Rani (principessa) di Chitor. Ella invitò un gran
numero di Brahmini a una festa da lei data in onore del suo
Maestro, ma essi rifiutarono di mangiare con un umile ciabattino. Sedutisi a dignitosa distanza per consumare ciascuno il proprio incontamínato pasto, ogni brahmino trovò accanto a sé la forma di Ravídas.

Questa visione collettiva provocò una vasta e intensa rinascita spirituale a Chitor.

In pochi giorni il nostro gruppetto raggiunse Calcutta. Ansioso di vedere Sri Yukteswar, fui deluso nell’apprendere che aveva lasciato Serampore e stava ora a Puri, circa trecento miglia a sud.

“Vieni subito all’ashram di Puri”. Questo telegramma fu inviato l’8 marzo da un confratello ad Atul Chandra Roy Chowdhry, uno dei chela del Maestro a Calcutta. Seppi del messaggio, e angosciato per il suo significato implicito, caddi in ginocchio e implorai Dio di risparmiare la vita del mio Guru. Mentre mi accingevo a lasciare la casa di mio padre per prendere il treno, una Voce Divina parlò dentro di me,

– Non andare a Puri stasera. La tua preghiera non può essere esaudita. – Colpito dal dolore, esclamai: “Signore, Tu non vuoi che io vada a Puri, perché non desideri dover continuamente
respingere le mie incessanti preghiere per la vita del Maestro. Deve egli dunque andarsene per compiere più alti doveri al Tuo comando?”.

In obbedienza all’ordine interiore quella sera non andai a Puri.

La sera dopo m’incamminai verso il treno; sulla strada, alle sette, una nera nuvola astrale a un tratto ricoprì il cielo. Più tardi, in treno, mentre il convoglio sbuffava procedendo verso Puri, la visione di Sri Yukteswar apparve davanti a me: Egli sedeva con espressione molto grave e con una luce a ogni lato. “E’ tutto finito?”.

Sollevai le braccia supplichevole.
Egli annui, poi lentamente scomparve.

La mattina seguente, a Puri, mentre ero sulla piattaforma del treno, ancora sperando malgrado tutto, uno sconosciuto mi si avvicinò e mi disse: “Avete saputo che il vostro Maestro se n’è andato?”.

E mi lasciò senza dire altro; non riuscii mai a
scoprire chi fosse, né come avesse saputo dove trovarmi.
Ammutolito, barcollai contro la parete della piattaforma,
comprendendo che, in modi diversi, il mio Guru cercava di darmi la terribile notizia.

Bollente di ribellione, la mia anima era un vulcano. Quando
giunsi all’eremitaggio ero vicino a un collasso. La Voce
interiore mi ripeteva teneramente:

– Stai calmo. Riprenditi.-

Tremando, entrai nella stanza dell’ashram dove il corpo del
Maestro, che pareva incredibilmente vivo, era seduto
nella’posizione del loto, vero ritratto di salute e di bellezza.

Poco prima di morire, il Guru era stato colto da una leggera febbre, ma prima del giorno della sua ascesa all’Infinito il suo corpo era completamente guarito. Per quanto fissassi le sue care forme, non riuscivo a convincermi che non avessero più vita: la pelle era liscia e morbida, il viso aveva un’espressione di beata tranquillità. Aveva abbandonato coscientemente il suo corpo, nell’ora del mistico richiamo.

“Il leone del Bengala non è più!”, gridai disperato.

Condussi i riti solenni il 10 marzo. Sri Yukeswar fu sepolto con l’antico rituale degli swami, nel giardino del suo eremitaggio di Puri. In seguito, i discepoli giunsero da ogni parte per onorare il Maestro con una cerimonia che si svolse all’equinozio di
primavera. L’Amrita Bazar Patrika il principale giornale di
Calcutta, ne riportò, col suo ritratto, la relazione seguente:

“La cerimonia funebre Bhandara per Srimat Swarni Sri Yukteswar Giri Maharaj, di 80 anni, ha avuto luogo a Puri il 21 marzo Molti discepoli erano giunti a Puri per il rito.

“Lo Swami Maharaj, uno dei maggiori commentatori della Bhagavad Gita, era un grande discepolo dello Yogiraj Sri Shyama Charan Lahiri Mahasaya di Benares. Swami Maharaj fu il fondatore in India di vari centri Yogoda Satsanga (comunità
d’Autorealizzazione), e fu il grande ispiratore del movimento Yoga portato in Occidente da Swami Yogananda, il suo maggiore discepolo. Furono i poteri profetici e
le profonde realizzazioni di Sri Yukteswar che ispirarono lo Swarni Yogananda ad attraversare gli oceani per divulgare in Occidente il messaggio dei Maestri dell’India.

“Le sue interpretazioni della Bhagavad Gita e di altre Scritture dimostrano la profonda padronanza che Sri Yukteswar aveva della filosofia sia orientale che occidentale, e aprono gli occhi al mondo sull’essenziale unità fra Oriente e Occidente. Convinto assertore dell’unità di tutte le fedi religiose, Sri Yukteswar Maharaj fondò la Sadhu Sabha (Società dei Santi) con la
cooperazione dei capi di varie sette e religioni, per la
diffusione di uno spirito scientifico nella religione. Quando si ritirò dalle sue attività, egli nominò Swami Yogananda suo
successore alla presidenza del Sadhu Sabha.

“L’India è oggi davvero impoverita dal trapasso di questo grande uomo. Possano tutti coloro che ebbero la fortuna di avvicinarlo, inculcare in se stessi il vero spirito della cultura indiana — del sadhana (disciplina spirituale) personificati in Lui”.

Tornai a Calcutta. Poiché non avevo ancora la forza di recarmi all’eremitaggio di Serampore, così pieno delle sacre memorie del mio Guru, feci chiamare Prafulla, il piccolo discepolo di Sri Yukteswar a Serampore, e presi accordi con lui per farlo entrare nella scuola di Ranchi.

“La mattina che partiste per il mela di Allahabad”, disse
Prafulla, “il Maestro cadde pesantemente sul divano e gridò: – Yogananda se n’è andato! Yogananda se n’è andato! – e aggiunse misteriosamente: – Dovrò dirglielo in qualche modo. – Poi sedette per ore in silenzio”.

“I miei giorni erano riempiti da conferenze, lezioni, interviste e incontri con vecchi amici. Sotto il mio vuoto sorriso e una vita di incessante attività, una corrente di neri pensieri
inquinava l’intimo fiume dell’estasi che da tanti anni
serpeggiava sotto le sabbie di tutte le mie percezioni.

“Dove è andato quel Saggio divino – piangevo silenziosamente nelle profondità del mio spirito tormentato.

Nessuna risposta veniva.

– E’ meglio che il Maestro abbia completato la sua unione con l’Amato Cosmico, – mi assicurava la mente. – Egli brilla
eternamente nel regno dell’immortalità.

– Mai più lo rivedrai nella vecchia casa di Serampore, – gemeva il mio cuore. Non più condurrai gli amici a visitarlo, né dirai con orgoglio: ‘Vedete, ecco lo Jnanavatar dell’India!’.

Wright prese accordi perché la nostra comitiva potesse salpare da Bombay ai primi di giugno per tornare in Occidente. In maggio, dopo quindici giorni di banchetti d’addio e discorsi a Calcutta, partimmo nella Ford per Bombay. Al nostro arrivo, le autorità navali ci chiesero di rinunciare all’imbarco perché non si
trovava posto per la Ford, di cui avremmo avuto ancora bisogno in Europa.

“Non importa”, dissi cupamente a Wright, “voglio, ritornare
ancora una volta a Puri”. E aggiunsi dentro di me: – Vadano le mie lacrime ancora una volta a bagnare la tomba del mio Guru.

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