La musica vocale dell’India

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La musica vocale dell’India

La musica classica dell’India del Nord, chiamata musica indostana, in contrapposizione a quella del
Sud, conosciuta come «Carnatica», è di forma modale, cioè basata su gamme diverse, stabilite in
rapporto ad un suono fisso, in variabile, mantenuto, come bordone (1) durante tutta l’esecuzione. Il
metodo di sviluppo proprio alla musica modale è costituito dalla improvvisazione, nell’ambito di una
serie di stili e di forme prestabilite.

L’improvvisazione rappresenta un aspetto essenziale della musica propriamente modale, in quanto ciò
che potremmo chiamare la consapevolezza modale, vale a dire la costante presenza nella memoria di
ciascuna delle note della scala scelta, con le caratteristiche sue proprie, il sentimento che le è
attribuito, nonché l’esatto intervallo che forma con la tonica, rappresentano una struttura
verticale che potrebbe essere immediatamente disorganizzata nel momento in cui intervenga una
melodia stabilita, una forma orizzontale. Il musicista rischia allora di introdurre suoni estranei
al modo, distruggendo così il clima emotivo.

Nell’india i modi sono chiamati «Raga», etimologicamente «ciò che piace» e che potremmo benissimo
tradurre come «stati emotivi». Lo scopo della musica indiana è, infatti quello di creare un clima
emotivo che faccia presa sull’uditorio e non delle strutture del tipo di quelle da noi conosciute
come composizioni.

La base di tutto il sistema musicale indiano è costituito dalla musica vocale. La voce vi è
utilizzata come uno strumento il più versatile di tutti. Le parole non rivestono che un ruolo
affatto secondario, trattandosi di qualche frase ripetuta indefinitamente. La musica vocale è
classificata secondo stili assai differenti gli uni dagli altri. Nel Nord i principali sono il
DHRUPAD, il KHYAL, il DHAMAR, la THUMRI ed il BHAJANA. Essi corrispondono a forme compositive
differenti, ciascuna delle quali possiede sue particolari sequenze ed ornamenti.

La voce deve potersi adattare a tutte le esigenze della musica, essere assolutamente priva di
vibrati involontari ed essere precisa e flessibile, onde assicurare la precisione dei microtoni ed i
dettagli degli ornamenti.

Tutto ciò esige una emissione assai controllata ed avanzata, ciò che conferisce una sonorità
particolare alla voce indiana. In effetti ciò che noi chiamiamo qualità o bellezza della voce,
interessa marginalmente l’uditorio indiano: è l’arte del musicista e la precisione del suo strumento
vocale che rivestono maggiore importanza. Ciascuna voce indiana deve coprire tre ottave e ciò viene
ottenuto molto facilmente; si passa dalla voce di petto a quella di gola e di testa senza evidente
transizione ad un falsetto.

La prima parte di ciascuna improvvisazione classica è costituita da un lungo preludio chiamato
«Aláp» od esposizione.

L’Aláp possiede una metrica, vale a dire note lunghe o brevi, ma non ha ritmo organizzato; è una
improvvisazione libera e descrittiva. Esso è indispensabile per creare l’atmosfera del «modo» (2).
Dopo aver solidamente stabilito la costante della tonica, (3) il musicista prende la prima nota
della gamma ed indugia su di essa, sul suo rapporto con la tonica e sui sentimenti che essa esprime.
Prende quindi la seconda nota, in variazioni che utilizzano la tonica e la prima nota, sino a che
questa seconda nota abbia assunto, anch’essa, tutto il suo significato. Continua così con la terza,
la quarta e così via, sino a che abbia stabilito l’intera scala.

Allorquando il significato di ciascuna nota e dei loro insieme è completamente assimilato
dall’uditorio, il musicista può permettersi alcune variazioni più rapide, più leggere, più
brillanti, potendo anche alludere, soltanto indirettamente, a certi elementi modali senza tuttavia
alterare il suo carattere espressivo.

L’Aláp non ha parole, ma utilizza alcune sillabe convenzionali prive di senso ed, in alcune
variazioni, i nomi delle note che vengono enunciate nella forma del loro solfeggio sillabico: Sa –
Re – Ga – Ma – Pa – Dha – Ni

L’Aláp rappresenta la parte più difficoltosa di una improvvisazione, dove la personalità del grande
musicista si rivela immediatamente; esso è seguito da variazioni ritmiche eseguite in vari stili che
mostrano l’abilità tecnica ed il virtuosismo dell’esecutore. Tali variazioni sono generalmente
accompagnate da uno strumento ritmico, il «tabla» che consiste di due piccoli tamburi o dal
«pakhávaj», un tamburo orizzontale a due facce.

Il Raga termina con un finale rapido e brillante, spesso quasi una gara tra la voce e il tamburo.

Per accompagnare la musica vocale in sostituzione del tamburo si impiega, generalmente, uno
strumento ad arco, di preferenza un «Sarangi» (4), oppure una «Tanpura»(5), che dà la tonica ed il
Sarangi che riprende, dopo il cantante, le figure melodiche che egli improvvisa. Talvolta è
utilizzato anche un flauto. L’antica forma di composizione chiamata «Prabandha», descritta in tutte
le opere classiche, era composta di quattro parti: «Udgrahá» (preludio); «Melápaka» (assemblaggio
della scala); «Dhruva» (forma fissa); «Abhoga» (finale).

Il grande poeta Jayadeva compose la sua Gita Govinda nell’undicesimo secolo nella forma Prabandha
che comportava solamente due sezioni: il Dhruva e l’Abhoga, le due prime sezioni essendo, in
effetti, senza parole.

Il Dhrupad (una abbreviazione corrente di Dhruva-pada), combinando il dhruva che stabilisce il modo
e pada, il poema che forma la seconda metà della composizione, fu sviluppato sotto l’impulso dei
Rájá Mána Simba (1486-1525) a Gwalior. Fu perfezionato da musicisti celebri quali Haridasa Swami e
dal suo discepolo Tánsen alla corte dell’imperatore Akbar. Questo stile è pervenuto sino ai nostri
giorni. Secondo lo storico Abul Fazl (16° secolo): «La base del Dhrupad è una quartina ritmica per
la quale non esistono regole concernenti la prosodia od il numero delle sillabe. Il soggetto dei
poemi è l’ebbrezza dell’amore ed i suoi meravigliosi effetti nel cuore umano. Nell’india centrale
tali canti sono chiamati Chind e sono generalmente degli inni; nell’india del Sud (Telugu e Tamil)
sono chiamati Dhruva ed il loro soggetto è l’amore». (Aini Akbari). Il Dhrupad è la forma più rigida
tra gli stili cantati indiani, dovendo aderire strettamente alla forma modale e nella quale i
vocalizzi e gli ornamenti elaborati non sono consentiti.

La prima sezione del Dhrupad è un aláp senza ritmo fisso e senza parole. La seconda sezione è
costituito dal poema, cantato secondo una forma ritmica scandita dal tamburo, con un tempo lento
all’inizio e poi gradualmente accelerato. Questa forma classica, assai difficile, non è più cantata,
al giorno d’oggi, che da qualche raro grande musicista.

Il DHAMAR è una forma cantata più ritmica; il tema dei poemi è quasi sempre rappresentato dagli
amori del dio Krishna e dalle pastorelle della foresta di Vraja (Vrindavana) oppure dalle feste
primaverili.

Il TARANA, che assume il nome di Tellaná nell’India del sud, è uno stile ritmico, vivace e leggero,
nel quale le parole sono sostituite da sillabe mnemoniche impiegate per rappresentare i differenti
modi di percuotere il tamburo. Vi si introduce, talvolta, qualche parola di un poema e delle sillabe
convenzionali prive di senso (yala, nom, tom, non, dani, ecc.).

L’uso di sillabe del tamburo o «bol» come base vocale della melodia, è menzionato da svariati autori
sanscriti ed è certamente assai antico.

Tuttavia la leggenda popolare vuole che tale idea sia venuta da Amir Khusru (15° secolo), il grande
musicista di origine turca che non conosceva il sanscrito.

Il TAPPA, raramente cantato al giorno d’oggi, è anch’esso uno stile simile al Dhrupad. La leggenda
vuole che questo stile abbia come origine un genere popolare, e cantato dai cammellieri. E’ uno dei
generi più difficili e più raffinati della musica indiana.

Il THUMRI è uno stile grazioso, tenero e leggero, cantato prevalentemente dalle donne. Il suo poema
è sempre a sfondo amoroso. La sua tecnica ricerca la grazia e l’eleganza in una forma melodica ed
impiega sempre il «glissando» come ornamento.

I GHAZAL sono poemi cantati nello stile della musica persiana. Furono adattati a testi in lingua
urdu e, una volta influenzati dalla musica indiana, divennero forme di Thumri; sono canti d’amore a
sfondo mistico.

Il KHYAL rappresenta il bel canto della musica vocale indiana. E’ uno stile molto brillante ed
ornato, carico di difficili vocalizzi.

La leggenda vuole che questo stile sia stato eseguito per la prima volta alla corte di Delhi nel 16°
secolo e che dinnanzi allo stupore dell’uditorio che chiedeva quale fosse questo nuovo modo di
cantare, il musicista abbia risposto: «Khyál» che significa: «siate attenti».

In realtà il nome deriva molto probabilmente dall’altro significato della parola khyál, ovvero
«fantasia, divertimento». Esistono antiche forme di canzoni popolari chiamate khyál.

L’invenzione di questo stile è attribuita ai musicisti della corte del sultano Hussein Shirki di
Jaunpur nel 13° secolo. Ma questo stile entrò a far parte della musica indiana grazie a due
musicisti geniali: Sadárang e Adárang alla corte dell’ultimo imperatore mogol di Delhi Muhammad Sháh
che regnò dal 1719 al 1748. Il nome dell’imperatore appariva nei testi dei poemi di numerosi khyal
che vengono cantati ancora al giorno d’oggi. E’ rimasto lo stile più apprezzato e più elegante della
musica classica indiana, proprio dei grandi virtuosi del canto i quali possono utilizzarvi tutte le
loro sottigliezze tecniche. L’arte di una tradizione orale è rappresentata non solamente dallo
studio di una tecnica, ma anche dalla memorizzazione di un vasto repertorio. Nel caso della musica
modale si aggiunge tutta l’arte dell’improvvisazione, della composizione del discorso musicale,
delle sfumature, delle sottigliezze della forma, dello sviluppo, degli ornamenti, dello stile che
differisce per ciascun Raga ed esige una lunga comunione tra il maestro e l’allievo in quanto la
forma teorica del Raga non è che l’impalcatura di base.

Tutto ciò che contribuisce allo charme, alla bellezza, all’atmosfera, alla personalità di ciascun
Raga dipende da elementi sottili di interpretazione che non possono acquisirsi se non per mezzo di
una lunga esperienza.

E’ per tale motivo che le tradizioni musicali dell’India si trasmettono sempre all’interno delle
famiglie, eredi di una tradizione particolare, formando delle vere e proprie dinastie, risalenti
molto spesso a parecchi secoli addietro, ciascuna con il suo particolare stile.

NOTE

(1) – Suono fisso, invariabile, che fa da basso continuo. Un tipico esempio di bordone, lo troviamo
nella cornamusa in cui accanto alle canne per la melodia provviste di fori, vi sono le canne di
bordone prive di fori che mantengono la nota costante.

(2) – Elemento che insieme al TONO costituisce la tonalità, Mentre il tono è l’intonazione su cui
si forma la scala, il MODO è l’ordine nella successione dei toni e semitoni che formano le scale.

Rappresenta quindi un metodo di selezionare ì toni che costituisce la base della melodia, Nella
musica occidentale esistono solamente due toni. Maggiore e Minore, mentre la musica sacra medievale
ne possedeva otto.

(3) – La prima nota che dà il norme alla tonalità.

(4) – Liuto ad arco dell’India del Nord. Possiede tre o quattro corde sulle quali viene sfregato
l’arco ed un considerevole numero di corde simpatiche.

(5) – E’ un liuto bordone, quindi privo di tasti. Ha da quattro a un massimo di sei corde e
l’intonazione viene regolata attraverso le chiavi che si trovano all’apice del manico, poi rifinita
in modo più accurato grazie a piccoli ponticelli mobili situati alla base della tavola armonica.

da krishnadas.it/La%20musica%20vocale%20dell’India.htm

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