La non violenza nello Yoga della Bhakti

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La non violenza nello Yoga della Bhakti

parte 1 e 2

di MARCO FERRINI

I sintomi di un saggio sono la tolleranza, la compassione e la benevolenza verso tutti gli esseri viventi. Il saggio non ha nemici, è pacifico, dimora negli insegnamenti delle Scritture e le sue qualità sono sublimi (1).

Lo Yoga della Bhakti, per essere compreso nella sua essenza, deve essere studiato non solo da un punto di vista dottrinale ma nella sua valenza socio-cosmica, per comprendere come i valori spirituali che insegna possano essere applicati in ogni sfera esistenziale.

Il sentimento e la realtà religiosa del Bhakta conducono ad una piena armonizzazione tra bisogni terreni e istanze spirituali, tra l’uomo di terra e l’uomo di cielo, tra materia e spirito, tra immanenza e trascendenza. Tale opera di integrazione si fonda sulla consapevolezza dell’esistenza del dharma, l’ordine socio-cosmico di origine divina. Se con il proprio comportamento l’individuo si armonizza al dharma, può realizzare pienamente se stesso nella sua dimensione umana e divina.

Nella tradizione indovedica la vita spirituale non implica l’abbandono delle responsabilità assunte, ma consiste nel corretto espletamento delle stesse finalizzate all’evoluzione spirituale. Dunque l’individuo non deve rinunciare ad agire, ma deve agire per un fine superiore, non egoico, che conduca al bene proprio e a quello di tutte le creature, poiché la propria evoluzione non si compie se non si opera per favorire l’evoluzione di tutti gli esseri.

Le Upanishad spiegano con un suggestivo linguaggio simbolico le sottili ma potenti interazioni e corrispondenze tra individui, tra il mondo delle cose e quello della coscienza (2), tra oggetto e soggetto, tra microcosmo e macrocosmo, tra creature, creato e Creatore. Indagando i collegamenti tra le varie dimensioni della realtà, esse svelano l’intima interconnessione di tutte le creature e riconducono la molteplicità del reale alla sua sorgente unitaria, individuando nel Brahman, il supremo Spirito, l’essenza ultima che tutto sostiene e da cui tutto ha tratto origine.

Dunque, secondo tale visione della realtà, tutto è collegato ed è parte di un progetto universale governato da leggi precise e rigorose che hanno lo scopo di ordinare la vita e le sue manifestazioni. In tale contesto s’inserisce la cosiddetta legge del karma, il principio di causa-effetto che secondo i testi indovedici governa ogni espressione della vita e per il quale ad ogni azione, positiva o negativa, segue una reazione dello stesso segno, che l’autore raccoglie di vita in vita.

La comprensione dei principi del dharma e del karma non deve limitarsi ad un piano teorico, ma sfociare nell’applicazione pratica, consentendo di misurare continuamente, nella vita di tutti i giorni, gli effetti del proprio comportamento per impararlo a modulare adeguatamente, per il bene di tutti.

Il comportamento in armonia con i principi del dharma permette di conseguire con soddisfazione e senza “effetti collaterali” tutti gli scopi che un individuo si prefigge nella vita fino al più elevato, che tradizionalmente consiste nell’ottenimento della comunione con Dio (yoga) nel sentimento dell’amore (prema-bhakti).

L’adharma è l’esatto contrario di dharma, e rappresenta quindi tutto ciò che viola l’ordine, l’armonia, il benessere e la pace garantiti dalla legge cosmica. Ogni volta che il dharma viene trascurato o infranto e l’adharma prende il sopravvento, si producono confusione, obnubilamento della coscienza e sofferenza.

Uno dei principi fondamentali da rispettarsi nell’ambito del dharma è quello di ahimsa, letteralmente ‘non violenza’.

Il termine sanscrito è composto dalla negazione a, ‘non’ e himsa, forma desiderativa del verbo han ‘uccidere, nuocere’. Tradizionalmente ahimsa indica l’assenza del desiderio di nuocere o danneggiare in alcun modo qualunque essere vivente, e non solo con le proprie azioni, ma anche con i pensieri, desideri e parole. Anche proferire menzogne è una forma di violenza, così come tenere soltanto per sé ciò di cui anche altri hanno bisogno.

In tale contesto il principio di ahimsa va dunque ben oltre il concetto di “non uccidere” o “non nuocenza”, poiché implica un atteggiamento globale, onnicomprensivo, di rispetto e valorizzazione di ogni essere. La pratica del vegetarianismo, finalizzata al rispetto del valore della vita, rappresenta dunque solo uno dei tanti aspetti del principio di ahimsa.

L’accezione più ampia del termine trasmette una serie di valori positivi, quali empatia, compassione, amicizia, gentilezza, benevolenza, amore universale che, praticati nella loro essenza ed autenticità, ispirano la convivenza civile e favoriscono l’evoluzione di ogni essere.

Praticare ahimsa, la non violenza, significa avere la maturità di comprendere che a volte una parola può ferire molto più di un pugnale o che si può mancare di rispetto ad una persona anche seguendo formalmente le regole del galateo. Infatti, al di là di ciò che risulta all’esterno, è la motivazione del nostro parlare od agire che fa la vera differenza. La qualità della motivazione e della carica affettiva determinano l’efficacia e le conseguenze del nostro fare e dire. Anche una giusta correzione, se viene fatta con autoritarismo, collera, denigrazione, rancore, rivalsa, aggressività o competitività negativa, perde ogni suo valore e diventa decisamente negativa.

I testi dello Yoga spiegano che anche l’indifferenza o l’approvazione silenziosa di un pensiero, una parola oppure di un’azione negativa o scorretta rappresentano una forma subdola e pericolosa di violenza morale. Lealtà, spirito di solidarietà, generosità, forza di combattere per una causa giusta, coraggio di agire in difesa di valori, sono qualità preziose che costituiscono parte integrante del concetto di ahimsa.

Il principio della non violenza va praticato con giudizio, con maturità ed equilibrio, affinché non subisca esso stesso delle degenerazioni sfociando in forme patologiche di pensiero e di comportamento. Va considerato ad esempio che talvolta alcune forme di violenza legalizzata possono risultare indispensabili per mantenere un minimo di ordine nella società. Una persona violenta, ad esempio, dovrà subire probabilmente dei provvedimenti coercitivi a tutela della collettività, in base alle norme dello Stato di diritto, affinché si arresti la sua altrimenti irrefrenabile carica distruttiva ed auto-distruttiva. Ciò è contemplato nel concetto di legittima difesa, in cui si arreca un danno per esservi costretti 
dalla necessità di difendere sé o altri contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, a patto che ci sia realmente una situazione di pericolo e sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa. E’ dunque la motivazione e l’intenzione il fattore principale che distingue un’azione dharmya da un comportamento a-dharma.

Negli Yogasutra di Patanjali, il testo classico dello Yoga, ahimsa rappresenta un basilare presupposto etico per poter avviare la pratica dello Yoga. Ahimsa costituisce infatti uno dei cinque principi definiti yama, i principali comportamenti nocivi da cui astenersi, che vanno applicati di pari passo con niyama, l’assunzione di comportamenti retti orientati all’evoluzione e alla purificazione della coscienza.

In Sadhana Pada sutra XXX si legge: “Non violenza, veridicità, astensione dall’appropriarsi di ciò che non ci appartiene, contenimento dell’energia sessuale e libertà dal senso di possesso sono le astensioni (yama)”, e il sutra XXXII prosegue descrivendo le cinque principali prescrizioni (niyama): “Purezza e pulizia, soddisfazione interiore, rigorosa coerenza, studio dei testi sacri e abbandono a Dio”.

Questi principi di comportamento hanno validità universale, a prescindere dal proprio credo, razza o nazione, e permettono lo sviluppo delle qualità spirituali di ciascun individuo.

Marco Ferrini (Matsyavatara das)
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(1) Bhagavata Purana III.25.21. Traduzione liberamente tratta da Shrimad Bhagavatam, tradotto e commentato da Bhaktivedanta Svami Prabhupada, Firenze, Edizioni Bhaktivedanta,1993, p. 72

(2) Si veda M. Talbot, Tutto è Uno, Ed. Urra, 1997, p. 171: “Credo che abbiamo superato da tempo, nella fisica delle particelle, il concetto di struttura passiva dell’universo, penso che siamo nel dominio nel quale l’interazione della coscienza con l’ambiente si verifica su scala talmente primaria che stiamo davvero creando la realtà in tutte le definizioni ragionevoli del termine.”

da www.marcoferrini.net

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