LA POSIZIONE DEL CADAVERE
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Questa pagina, come quelle di tutta la sezione, sono la sintesi di un lungo dialogo che feci diversi
anni fa on line con un gruppo di amici che mi chiesero di raccontare alcune mie esperienze nel campo
dello yoga violento, da qui il tono colloquiale dello scritto.
Piero da lista_sadhana
LA POSIZIONE DEL CADAVERE
Mi inchino al Signore primevo, dal quale venne insegnata la scienza dello hatha yoga, che appare
come una scala a colui ch’èbramoso di ascendere all’eccelso rajayoga.
Gheranda Samhita
Mi ricordo una sera, in cui nella tremolante penombra della cappella all’eremo, il mio vecchio
guru mi fece stendere a terra sul tappeto della cappella e atteggiato a morto, con le mani giunte
sul petto simulare il rigors mortis. In apnea, rigido come un baccalà, un’amico mi prese dalle
caviglie e lui mi pose le palme sotto la nuca e sollevarono il mio corpo in alto. Poi lo
trasportarono per qualche metro e lo deposero per terra. Mentre sollevavano e trasportavano il mio
corpo, mi interrogai su chi fossi in realtà. Sono forse questo corpo perituro che presto sarà
divorato dai vermi? Sono questa mente che continua a secernere pensieri e le cui forme immagini sono
destinate ad obliarsi? No sono Shiva, sono intelligenza pura e beatitudine assoluta. Shivoham,
Shivoham.
Questa variante dello shavasana o posizione del cadavere, del morto, ricordava l’esperienza di
illuminazione di uno dei più grandi santi dell’india moderna Ramana maharshi ( grande rishi). Verso
i sedici anni egli fu preso da una certezza stava per morire e la sua reazione fu di correre nella
sua camera e stendersi a letto. Si irrigidì, proprio nella posizione funeraria, e lì la sua
esperienza di morte culminò nell’illuminazione.
«Fu all’incirca sei settimane prima di lasciare per sempre Madura che avvenne il grande
cambiamento nella mia vita. Fu all’improvviso. Sedevo tutto solo in una camera al primo piano della
casa di mio zio. Era raro che mi ammalassi, e quel giorno la mia salute era perfetta, ma
all’improvviso fui colto da una violenta paura della morte. Non c’era nulla nel mio stato di salute
che potesse giustificarla, e non cercai di spiegarla né di scoprire se ce ne fosse un qualche
motivo. Sentì solo: ” Sto per morire” e cominciai a pensare al da farsi. Non mi venne in mente di
consultare un dottore o i miei familiari o i miei amici; sentì che dovevo risolvere il problema da
me, e subito.
Lo shock della paura della morte spinse la mia mente verso l’interno e dissi fra me, senza
formulare effettivamente le parole: “Ecco è venuta la morte; ma cosa significa? Che cos’è che sta
morendo? Il corpo muore”. E subito rappresentai la scena della mia morte. Mi adagiai con le membra
rigidamente stese, come se fosse cominciato il rigor mortis, e imitai un cadavere per dare maggiore
consistenza alla ricerca. Trattenni il respiro e tenni le labbra serrate, perché non potesse
sfuggirne alcun suono, perché non potesse essere pronunciata né la parola “io” né alcun’altra
parola. ” Bene “, dissi fra me, “questo corpo è morto. Sarà portato al campo crematorio e là
bruciato e ridotto in cenere. Ma con la morte di questo corpo io sono morto? Il corpo è io? È
silenzioso e inerte, ma io sento tutta la forza della mia personalità e perfino la voce di
quell'”io” dentro di me, indipendentemente da esso. Così, io sono lo Spirito che trascende il corpo.
Il corpo muore, ma lo Spirito che lo trascende non può essere toccato dalla morte. Ciò significa che
io sono lo Spirito immortale “. Tutto questo non era uno smorto pensiero; lampeggiava vivido in me
come viva verità che percepivo direttamente, quasi al di là del processo di pensiero. “Io” era
qualcosa di molto reale , la sola cosa reale in quel mio stato, e tutta l’attività conscia associata
al mio corpo era incentrata in quell'”io”. Da quel momento in poi l'”io” o Sé concentrò l’attenzione
su sé stesso in maniera potente e affascinante. La paura della morte era svanita una volta per
tutte. Da allora in poi l’assorbimento nel Sé continuò ininterrottamente (pag. 9 Ramana Maharshi Gli
insegnamenti Astrolabio 1976».
Una illuminazione che non voluta, non cercata, non si oscurò più. Da allora il vecchio
Venkaratam cesso di esistere e il nuovo, qualche giorno dopo, abbandonò la casa paterna e si recò,
attratto come il ferro da una calamita, ai piedi di uno dei luoghi più santi dell’India Arunachala.
Shavasana è da paragonarsi a una delle asana (posizioni) più semplici e meno problematiche da
assumere. I yoga sutra di Patanjali dicono che asana è ciò che è saldo e stabile. Ma che le asana
dell’hata yoga siano salde e stabili è cosa che si può dire solo dopo anni di pratica, inoltre la
saldezza e la stabilità sono da commisurarsi al tempo di assunzione delle stesse. Diciamo che le
asana sono suscettibili, alla lunga, di diventare salde e stabili.
Bisogna dirimere due questioni. Una è quello dell’aspetto ginnico. L’hata yoga non è una
ginnastica, ma un modo di approccio alla sorgente dell’essere partendo proprio dall’estrema
periferia del cosmo vita. Ragion per cui la dinamica delle posizioni è una liturgia meditativa. E
deve essere vissuta con lo stesso raccoglimento e atteggiamento con cui si prega. Per quanto
l’aspetto esteriore delle asana sia importante e non è da trascurarsi, la corretta esecuzione della
forma è meno importante della calma, maestosa e placida, con cui la si vive. Così come non ci si
metterebbe a competere in un tempio su chi prega esteriormente bene o meglio e non ci si metterebbe
a competere su chi prega di più o di meno così è per la pratica singola o collettiva dello Hata
yoga.
La seconda questione riguarda l’esteriorità. L’Hata yoga non è una forma di yoga basato sul
corpo fisico ma semmai fra lo spazio, interiore, che c’è fra Colui che osserva e il velo del corpo
fisico, ovvero il corpo sottile, che non percepiamo colle finestre di senso ma con l’organo interno.
Occorre ricordare pure che la pratica delle posizioni dinamiche vien detto «apparecchiare la
tavola per il commensale» e chiudere una sessione di hata yoga senza la meditazione silenziosa è
«andarsene dal desco senza mangiare».
L’Hatayoga pradipitaka, uno dei classici di questo genere di letteratura, si apre dando delle
indicazioni sul luogo dove meditare. Nel descrivere il Kutir in cui l’asceta deve risiedere, le
circostanze relative al cibo e all’acqua si vede che privilegia la via di mezzo.
L’asana shava fin dal nome suggerisce che le posizioni dello yoga sono, in fondo, icone di
archetipi Dice la Gheranda Samhita (Cap. II verso 1) Le posture, in complesso, sono numerose come le
specie viventi; ottomilioniquattrocentomila sono state esposta da Shiva.
La shava potrebbe essere l’inizio si una sessione di hatha yoga che procedendo alternando
vuoti (movimenti per eseguire i quali occorre svuotare i polmoni) e pieni si conclude con la
posizione dei perfetti, dei siddha, la siddhasana.
La shava asana è la posizione naturale di chi si riposa con la pancia in su e come tale non è
affatto difficile da assumere, ovviamente ciò non vale per chi dorme con la pancia in giù che la può
trovare scomoda. Inoltre quando noi dormiamo ci portiamo dietro tutto il nostro squilibrio
energetico. Lo stare semplicemente straiati immobili, rilassati e silenti può essere estremamente
difficile per alcuni.
Fra le infinite cose che si potrebbero dire è che è una posizione adatta a fare meditazione e,
se si sta su un letto ad occhi chiusi e nella posizione indicata, chi vi vede pensa che stiate
semplicemente dormendo. Proprio per questo, ogni volta che si va a letto, può essere usata per
prepararsi al sonno mediante le pratiche di rilassamento che ad essa sono in genere associate. In
ambito buddista per questo scopo si preferisce la posizione del leone. Esiste una ricca iconografia
di statue del Buddha dormiente straiato su un fianco con la testa poggiata su un palmo e l’altra
mano distesa lungo il fianco che resta in alto. Alcune di queste statue sono gigantesche.
Dal punto di vista dell’esoterismo italiano degli anni venti è interessante far notare che a
pag 274 del volume primo di «Introduzione alla magia del gruppo di UR» c’è un articolo di Arvo
intitolato «il pensiero cosciente- il rilassamento il silenzio». Introduzione alla magia risale agli
anni venti. Arvo afferma che quel che dice lo riprende da movimento del «Newgeist», quindi abbiamo,
benchè non si facci menzione di una posizione particolare, le pratiche di rilassamento corporeo
hanno anche nell’esoterismo italiano un’antica tradizione. Scrive Arvo:«Abraxa ha richiamato
l’attenzione sul fatto che nelle operazioni magiche deve essere escluso tutto ciò che è sforzo, e
così pure ogni resistenza o reazione da parte del corpo. Ciò vuol dire: bisogna imparare, anzituto,
la facoltà del rilassamento (detente, entspannung) (op. cit. p. 277)».
Una volta che ci si è straiati a pancia in su, su una superficie comoda, non necessariamente
un letto, con le gambe leggermente divaricate e le mani stese poco distanti dai fianchi, ad occhi
chiusi ma non serrati, se si porta la propria attenzione sul corpo fisico, scopriamo come esso è
teso e contratto. Tutta la nostra storia personale, tutte le interiori tensioni, le preoccupazioni,
i pensieri, la gioia, l’euforia sembrano concorrere a contrarre ogni muscolo del nostro corpo.
Il nostro compito è quello di sciogliere questa tensione immagazzinata nei muscoli col tocco
della nostra attenzione. E’ anche il primo passo verso la conoscenza di noi stessi, dal punto di
vista interiore. E’ il primo passo verso la discriminazione fra ciò che in realtà siamo e ciò che è
un semplice oggetto di osservazione.
Le tecniche di approccio possono essere molteplici. Un primo approccio possibile, dopo aver
chiuso gli occhi, è quello di parlare mentalmente.
«Dalla punta dei piedi, fino alla cima dei capelli», e mentre lo si dice lentamente si scorre,
si pennella, con l’attenzione interiore dal di dentro il corpo dalla punta dei piedi fino ai
capelli,« ogni cosa è calma e pace». E magari lo si ripete un paio di volte.
Poi si può partire dalle dita dei piedi, oppure dalla testa.
Partiamo dalla testa e si pennella il cervello. Si dice, mentalmente, «il mio cervello ( la
sede del sistema nervoso centrale) è calmo e tranquillo, perfettamente rilassato», volendo essere
pittoreschi si può poi dire «la parte «acquosa» in cui il cervello è immerso e permeato è calma e
rilassata, ogni singolo neurone anela alla pace e alla calma». Poi si passa col pennello
dell’attenzione sul cervelletto (ovvero la sede del sistema nervoso vegetativo, quello che presiede
alle cd. funzioni subconscie) e si ripete la «calma pace e tranquillità rilassano questo organo del
mio corpo …» dal cervelletto si scende e si pennella la spina dorsale con molta calma e
tranquillità, e dove dobbiamo andare? abbiamo un appuntamento con la nostra interiorità, ci siamo
presi una pausa per amarci un pò, per farci un pò di bene, e si ripete anello, dopo anello «calma,
pace, tranquillità». Infine il raggio del pennello si apre in ogni dove del corpo, lentamente,
partendo dalla spina dorsale e seguendo, idealmente, la miriade di nadi che dalla spina dorsale si
innerva per ogni parte del corpo, sempre ripetendo calma, pace e tranquillità.
Occorre fare una serie di osservazioni. Una prima serie di osservazione è che stiamo facendo
autoipnosi … e qui il discorso sarebbe lungo, per quanto le mie esperienze di ipnosi rislagono
ormai a venti anni fa, questa pratica, in un certo senso, fa acquisire quel quid che poi quando
guardi negli occhi una persona e gli dici, facendo qualche gesto nell’aria vicino al suo sguardo, il
fatidico ” a me gli occhi”, ” ascolta la mia voce, adesso stai per addormentarti, un gran sonno ti
sta assalendo ecc. ecc.. ” che la fa cadere in trance. Quid che aumenta con la pratica e che se ne
va con la desuetudine. Dall’altro lato è che il rilassamento non è conseguenziale, le prime volte,
alla pratica. Man mano che l’esperienza si ripete accade un leggero mutamento, innanzi tutto si
inizia a sentire la tensione, e già è un buon progresso, poi, dopo un pò accade il miracolo e
passando il pennello dell’attenzione, la scala verso la nostra reale natura, la tensione sparisce.
Occorre qualche settimana perché la pratica diventi perfetta.
Dopo questa fase di rilassamento del “sistema nervoso, centrale e periferico” si passa alle
fascie muscolari vere e proprie e agli organi interni. La parte più difficile è il volto. Possiamo
concentrarci su un occhio, pennellarlo con l’attenzione, e sentire la sua tensione, poi, con la
parola o, quando si è progrediti, con la semplice attenzione, rilassarlo. Si passa all’altro
occhio,” calma, pace, tranquillità” , Le orecchie, la fronte, il cuoio capelluto, le labbra,
soffermandosi più volte, il naso, l’interno del naso, l’interno della bocca, la lingua, i denti.
Sempre dicendo “ogni tensione sparisce come la neve al sole, calma, pace, e tranquillità”.
Non so se ci arrivate a questo punto o se già da gran pezza siete sprofondati fra le braccia
di Orfeo.
Al mio guru ogni tanto regalano delle conchiglie. Ha una conchiglia grande poco più di un
pugno e graziosa, soffiandoci dentro ne viene fuori un suono potente e maestoso. Tempo fa gli hanno
fatto dono di una conchiglia esagerata. Qualcosa di veramente enorme, suonandola ne scaturisce un
muggito che risuona per tutta la vallata. Ho subito provato a suonarla e devo dire che dopo vari
tentativi infruttuosi alla fine, non so come, sono riuscito a trarre un suono potente e forte.
Mentre provavo a suonarla mi veniva in mente la Ghita quando dice, nel primo capitolo, al verso 14
“Allora Madhava e il figlio di Pandu, rimanendo ritti sul gran carro, tirato da bianchi cavalli,
suonarono le conche lor divine”. Poco dopo questi tentativi di apprendere a suonarla, all’aperto,
mentre ci accingevamo a fare meditazione, mi ha detto ” Sei proprio basso, sicuro che non vuoi
qualche altro cuscino? La postura è importante lo sai, il corpo deve rilassarsi”.
In effetti nella Ghita, nel capitolo sesto, intitolato appunto Dhyana yoga, vien detto:
(11) Dopo aver fatto mettere in un posto pulito il suo solito seggio, non troppo elevato né
troppo basso, coperto di erba, di una pelle d’antilope, di una veste, una cosa sull’altra,
(12) allora, messosi sul seggio, fissando la mente su un unico punto, avendo messo sotto
controllo le attività del pensiero e dei sensi, che egli pratichi lo Yoga per la purificazione del
sé.
Il seguito dell’esercizio di rilassamento è intuitivo che continui portando l’attenzione su
ogni zona del corpo, polmoni e organi interni compresi. Eravamo rimasti nel rilassare il volto. Poi
l’attenzione può spostarsi alle spalle, alle fasce muscolari del petto, alle braccia, agli
avambracci e una per una le dita della mano. Si porta l’attenzione sui polmoni e li si rilassa. Poi
sull’addome e sugli organi interni e li si rilassa. I genitali, la parte superiore delle gambe, la
parte inferiore delle gambe i piedi e una per una le dita dei piedi. Mentre il pennello
dell’attenzione, la scala che ciconsente di risalire alla sorgente originaria dell’Essere, si sposta
da un punto all’altro del corpo si può continuare a ripetere calma, pace, tranquillità o altre
amenità del genere. Se si desidera si può usare la parola sanscrita Shanti che equivale alla nostra
pace o la parola ebraica shalom.
Durante le proiezioni astrali, è esperienza comune, se si fissa la propria attenzione su un
particolare questo muta di forma, si trasforma. La dottrina dice che la creazione del cosmo vien
fatta da un principio Spirituale, dalla coscienza cosmica, che insemina la sostanza cosmogonica.
Questa inseminazione nella Qabbalah vien vista sotto un duplice aspetto. mediante la contemplazione
della Torah celeste, ovvero mediante il suono. Lasciando da parte adesso le complicazioni dottrinali
possiamo dire che questa pratica, per quanto possa sembrare banale, racchiude in sé un riflesso di
questo processo creativo. La nostra attenzione è un Fuoco che stimola la sostanza corporea a reagire
secondo un “informazione”. La parola, mantrica, direziona la sostanza corporea a reagire alla
potenza solare dell’attenzione secondo una ben precisa modalità. Essendo poi la corporeità l’aspetto
“inferiore” della sinergia psicosomatica l’effetto immediato è si quello di placare e rilassare le
irrequietezze corporee ma nel contempo per legge di risonanza armonica, plachiamo la mente.
Dice il Patriarca Callisto :
1. Se vuoi imparare la verità, prendi ad esempio il citaredo. Egli infatti inclina la testa
applicando l’orecchio al canto e fa girare il plettro con la mano. E mentre le corde vibrano insieme
con l’arte, la cetra emette la melodia e il citaredo palpita per la dolcezza della melodia.
2. Per la cetra intendi il cuore, o caro; per le corde i sensi; per plettro, la mente che
mediante il razionale muove continuamente il plettro che è il ricordo di Dio, dal quale proviene
all’anima un ineffabile diletto e che vede come in uno specchio nell’intelletto puro i raggi divini.
Potremmo anche al posto di usare parole come pace, shanti o shalom ripetere Gesù, o Om, Gesù o
l’Om sono identici. C’è una storiella che racconta Grillot de Givry nel “Tesoro delle scienze
Occulte”. Narra di come in un sabba particolarmente riuscito una vecchia strega esclamò, vedendo
l’immane orgia che si era scatenata, ” Cristo quanta gente” al che la potenza del Nome dissolse ogni
presenza infera e tutti sparirono.
Volendo, alla fine del rilassamento, si può portare l’attenzione nel cuore e ascoltando il
battito cardiaco cantare al suono del tamburo del cuore “Gesù, Gesù”, oppure, “Om, Om”.
Come si vede siamo partiti da una pratica adatta a ogni persona, basata sul semplice
rilassamento psicofisico, una pratica di ristoro energetico, e siamo pian, piano trapassati in una
pratica meditativa di tipo mantrico, devozionale, e si è iniziato a dire di spostare la mente nel
cuore, cioè il più importante centro. Quello che vien detto ” camera segreta del cuore”, la Gua o
“caverna del cuore”, il luogo-non-luogo che è la sede del sé.
Il Viveka Cuda Mani di Shankara dice ” medita sull’Atman che risiede nel tuo cuore”. La
Brihadaraniaka upanishad, se ben ricordo, dice “Quel sé che risiede nel tuo cuore è più piccolo di
un grano di miglio, di un grano di sesamo, quello stesso sé che risiede nel tuo cuore è più grande
del cielo è più grande di tutti i mondi”.
Il Cuore come centro più ascoso e interiore dell’uomo è la sede dello spirito e nel cuore
avviene quel misterioso passaggio che vede lo spirito dell’uomo sciogliersi come chicco di grandine
nell’Oceano Infinito dell’Essere.
Ecco dunque che Shavasana, che può essere realizzata su un letto o su una poltrona bella
comoda, diventa una meditazione completa.
Anche in un ambiente ostile si può sempre dire “sono stanco vado a riposarmi un pò” mettersi
su un letto, su una poltrona comoda, chiudendo gli occhi, calare la propria mente nel cuore e
celebrare una liturgia interiore, approcciarsi al luogo più ascoso e misterioso del creato, il
proprio cuore spirituale.
Shavasana quindi è un piccolo laboratorio in cui è possibile sperimenatre direttamente la
chimica interiore.
La shavasana è la posizione più semplice che si possa assumere fra le asana adatte alla
meditazione. Le posizioni adatte alla meditazione sono essenzialmente la siddha, la padma, la vajra,
la semplice e appunto la shavasana. Non è che non sia possibile meditare facendo le altre posizioni
dello hatha yoga, tutt’altro, anzi l’ideale della meditazione è quando questa diventa uno stato
naturale della mente, uno stato di spontanea osservazione. La meditazione dovrebbe essere uno stato
coscienziale da assumere, senza assumere, cioè dovrebbe essere qualcosa di estremamente naturale,
perenne.
Si può fare meditazione ovunque e in qualsiasi situazione, per esempio guidando la macchina
per andare al lavoro. Io tento di essere attento all’attimo presente a non guidare in modo
automatico, subcosciente e a lasciare che la mente parta in quarta a fantasticare a proiettare
aspettative, ad immaginare paure future, a rimembrare emozioni passate. Poi mi sorprendo a essere
consapevole che la mente si è divagata in mille rivoli di pensiero e ricomincio.
Meditare in questo modo è come essere uno specchio trasparente che rimane sempre identico a sé
stesso pur nel mutare delle immagini che si riflettono su esso.
Comunque la shavasana può essere assunta come inizio di una sadhana di hatha yoga. L’ideale è
iniziare abbastanza lontano dai pasti, dopo aver soddisfatto eventuali esigenze fisiologiche andando
a bagno, e dopo una doccia. Si dovrebbe indossare abiti confortevoli, meglio essere nudi se la
temperatura lo consente, e abbastanza isolati dal terreno per evitare umidità o troppo fresco.
Bellissimo è avere un luogo immerso nella natura. Bello anche un angolo di casa dedicato a tempio.
L’ideale per me, è un bel tappeto grande, stile orientale, grande a sufficienza per starci straiati
con qualche cuscino e in un lato della stanza un piccolo altare con qualche icona e statua, qualche
libro sacro e, per chi sa, uno strumento musicale.
L’eremo dell’Armonia è sotto questo aspetto un luogo privilegiato in quanto tutto in esso
sembra essere fatto per la meditazione. All’eremo ogni attività della giornata anche quelle
apparentemente le più profane assumono una valenza pregnate e possono celare un aspetto meditativo.
D’estate, quando andavo alla sorgente per riempire d’acqua i bidoncini, l’esile flusso impiegava
anche venti minuti per riempirne uno di d’acqua. Mi accovacciavo sulle gambe e restavo ad osservare
senza battere ciglio, nell’immobilità più completa, il rivo d’acqua che scorreva e mi immergevo nel
più profondo silenzio.
Shavasana, dunque, lo ripetiamo, può essere l’inizio di una seduta di Hata yoga. Si accende un
incenso, cercando di bilanciarlo con le capacità di aereazione della stanza, alcuni incensi hanno
una fragranza molto intensa e in una piccola stanza possono dare dei seri fastidi se non ben
ventilata, ci si straia e si inizia a rilassarsi. Dopo un pò ci si mette seduti per terra a gambe
incrociate, nella posizione semplice, sempre con movimenti ritmati sul respiro e privi di sforzo e
tensione, il respiro deve essere ascoltato. Dalla posizione semplice poi si può passare che so a un
surya namaskar, o a un albero, di questo c’è ne occuperemo le prossime volte.
Non è necessario iniziare con la shavasana, si può, se lo yoga “violento” non interessa,
mettersi direttamente seduto nella posizione semplice o nella siddhasana e iniziare a cantare l’Om
per tre volte.
Ma oltre che come avvio per una seduta di yoga violento, lo shavasana può essere assunto
appena ci si è sistemati a letto.
I Buddisti preferiscono, a questo scopo, assumere la posizione del leone che è quella in cui
si vede raffigurato il buddha all’atto della sua morte, steso sul fianco e con una mano ripiegata e
con il palmo sotto la testa e l’altra distesa sul fianco. Per agevolare la presa di consapevolezza
della dimensione sottile, raccomandono, di addormentarsi visualizzando una “A” bianca nel centro del
cuore.
Mettersi a dormire e iniziare il rilasamento significa approcciarsi a un piccolo laboratorio
sullo stato sottile. Le prime volte, ed è naturale che capiti, ci si addormenta. A volte, però, si
hanno delle ripercussioni. Si esegue l’esercizio, si perde il filo e ci si addormenta. Però il filo
tende a riannodarsi e ci si sveglia, ma, con una differenza, il filo ha tenuto desta la
consapevolezza. Si è cioè varcata la soglia del sogno. Shavasana prima di andare a dormire può,
anche una volta addormentati, lasciare desta la coscienza durante la fase ipnagogica e, allora, si
assiste a una sorta di brusio psichico fatto di pensieri, di flash immagini di perdita della
determinazione di completare l’esercizio e, poi, a un certo punto, il filo si riannoda e una
ripercussione ci riporta nello stato di veglia. Sono piccole cose che ci abituano a tenere desta la
consapevolezza, nell’aldilà. Andare a dormire non è più sprofondare nell’obblio ma, il sonno, si
rischiara.
Se si riesce a completare shavasana nella sua fase di rilassamento muscolare, prima di
addormentarsi, si apre allora la possibilità di rivolgersi a un aspetto più sottile, mentale.
Si può ritmizzare un mantra con l’intento di fargli attraversare la notte, anche questa è una
“tecnica” per destare la nostra consapevolezza nella sfera sottile. Ci si ripropone di ritmizzare il
mantra, di addormentarsi ritmizando il mantra e, poi, riprenderlo appena ci si sveglia. Questa
pratica alla lunga può lanciare un freccia, con attaccato un filo di consapevolezza, che solca la
notte. Il sonno non è uguale ma ha diverse fasi. Durante le fasi più leggere emerge la ritmizzazione
del mantra che, per così dire, canta da solo e, benchè si sta dormendo, si è un pò più desti. Desti
però non nello stato di veglia o grossolano, ma, nello stato sottile.
Tutto ciò perché ci si abitui a essere svegli mentalmente ma addormentati fisicamente. Lo so
che è un paradosso. Durante lo shavasana prima di addormentarsi si può ritmizzare un intento.
Shavasana, fatta bene, porta a una completa astrazione dal corpo fisico. A un certo punto le
funzioni biologiche sembrano assenti. In quel momento e nel silenzio della mente si può formulare un
intento, si deposita un seme di “comportamento determinato”. Noi tendiamo a dimenticare, soprattutto
le nostre avventure oiniriche. A volte ci capita un’occasione di proiezione spontanea e la
drammaticità dell’evento ci sopraffà e, invece di utilizzare le funzioni superiori della psiche, ci
si lascia sopraffare dalla funzioni vitali inferiori e si scappa. Ritmizzare una formuletta sonora,
non so se avete presente la formuletta della congregazione delle Bene Gesserit del romanzo Dune,
può, un pò per autoipnosi, quindi occhio a quel che vi mettete dentro, un pò come remember, come
dire, far cogliere una chance, può farci cogliere il nostro centimetro cubo di fortuna. Sorgono le
vibrazioni, ci si sveglia immobili e invece di farci sopraffare dall’istinto di conservazione, che
di questo si tratta, l corpo lo sa che giochiamo con la morte, possiamo ricordare l’intento e avere
quel briciolo di consapevolezza in più che ci consente di prendere al volo la nostra occasione
fortunata e assecondare l’evento che ci si è presentato.
Piero
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