La presenza e la condivisione

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La presenza e la condivisione

di Thich Nhat Hanh

Tratto da:

Thich Nhat Hanh
IL BUDDHA VIVENTE
IL CRISTO VIVENTE

NERI POZZA EDIZIONE
TITOLO ORIGINALE
LIVING BUDDHA, LIVING CRISTO
TRADUZIONE DI FRANCESCO BRUNELLI

“Sono qui per te”

Il dono più prezioso che possiamo offrire agli altri è la nostra presenza.
Quando la nostra consapevolezza abbraccia coloro che amiamo, costoro
sbocceranno come fiori. Se amate una persona, ma vi rendete raramente
disponibili a lei, non si tratta di vero amore. Quando la vostra amata
soffre, dovete riconoscerne la sofferenza, l’ansia e le preoccupazioni, e
questo è già sufficiente a offrire un certo conforto.

La consapevolezza dà sollievo al dolore perché è traboccante di comprensione
e compassione. Quando siete veramente presenti, mostrando amorevolezza e
comprensione, l’energia dello Spirito Santo è in voi.

Vivere alla presenza di Dio

Nella tradizione ebraica la sacralità delle ore dei pasti è posta in grande
rilievo. Si cucina, si prepara la tavola e si mangia alla presenza di Dio.
“Devozione” è una parola importante nell’ebraismo perché tutto nella vita è
un riflesso di Dio, la sorgente infinita della santità. Il mondo intero,
tutte le buone cose nella vita appartengono a Dio, sicché, quando traete
godimento da qualcosa, pensate a Dio e ne godete alla Sua presenza.

Ciò s’avvicina molto alla valorizzazione buddhista dell’inter-essere e
dell’interpenetrazione. Quando vi svegliate, siete consapevoli che Dio ha
creato il mondo. Quando vedete i raggi del sole che filtrano dalla finestra,
riconoscete la presenza di Dio. Quando state in piedi e i piedi toccano per
terra, sapete che la terra appartiene a Dio. Quando vi lavate la faccia,
sapete che l’acqua è Dio. Devozione è riconoscere che ogni cosa è legata
alla presenza di Dio in ogni momento. Il ‘seder’ (la Pasqua ebraica), per
esempio, è il pasto rituale che celebra la liberazione degli israeliti dalla
schiavitù d’Egitto e il loro viaggio verso la patria.

Durante il pasto, alcune verdure ed erbe, il sale e altri condimenti ci
aiutano a entrare in contatto con quanto accadde nel passato, con ciò che
erano il nostro dolore e la nostra speranza. Questa è una pratica della
consapevolezza.

Il pane che mangiamo è l’intero cosmo

Al pari dell’islam, il cristianesimo è una sorta di prosecuzione
dell’ebraismo. Tutti i rami appartengono allo stesso albero. Nel
cristianesimo, quando celebriamo l’eucaristia, condividendo il corpo di Dio
sotto le specie del pane e del vino, compiamo il rito nello stesso spirito
di devozione, di consapevolezza, coscienti del nostro essere vivi, lieti di
abitare il momento presente.

Il messaggio di Gesù durante il ‘seder’, in seguito conosciuto come Ultima
Cena, era chiaro. I Suoi discepoli erano andati seguendoLo, avevano avuto la
fortuna di guardarLo negli occhi e di vederLo di persona, ma sembra che non
fossero ancora entrati in vero contatto con la meravigliosa realtà del Suo
essere. Cosicché, quando spezzò il pane e versò il vino, Gesù disse: questo
è il Mio corpo, questo è il Mio sangue, bevetene, mangiatene e avrete la
vita eterna. Era un modo drastico per risvegliare i Suoi discepoli dalla
smemoratezza.

Quando ci guardiamo intorno, osserviamo numerose persone nelle quali non
sembra dimorare lo Spirito Santo. Sembrano morte, quasi stessero
trascinandosi appresso un cadavere, il loro stesso corpo. La partecipazione
all’eucaristia ha lo scopo di aiutare a risorgere queste persone così che
possano raggiungere il Regno della Vita.

In chiesa si riceve l’eucaristia ad ogni messa, viene letto il passo biblico
relativo all’Ultima Cena di Gesù con i suoi dodici discepoli e si condivide
un tipo speciale di pane chiamato ostia. Ognuno ne consuma per ricevere la
vita del Cristo nel proprio corpo. Quando un sacerdote celebra il rito
eucaristico, il suo ruolo è quello di portare la vita alla comunità.

Il miracolo accade non perché egli profferisce correttamente le parole, ma
perché siamo consapevoli dell’atto di mangiare e bere..

La Santa Comunione è una possente campana di consapevolezza. Noi beviamo e
mangiamo in ogni momento, ma di solito ingeriamo soltanto le nostre idee,
progetti, preoccupazioni e ansie. Non mangiamo veramente il nostro pane, o
non beviamo la nostra bevanda. Se facciamo in modo di venire profondamente a
contatto con il nostro pane, rinasciamo perché il nostro pane è la vita
stessa. Mangiandolo consapevolmente, attingiamo il sole, le nubi, la terra e
ogni
elemento nel cosmo. Attingiamo la vita e il Regno di Dio.

Quando domandai al cardinale Jean Danielou se l’eucaristia potesse essere
descritta in questo modo, egli rispose affermativamente.

Più porte per le generazioni future

Matteo descrive il Regno di Dio come fosse un minuscolo granello di senape.
Ciò significa che il seme del Regno di Dio è dentro di noi. Se sappiamo come
piantarlo nel terreno umido delle nostre vite quotidiane, quel seme crescerà
e diverrà un grande arbusto su cui molti uccelli potranno trovare rifugio.

Non dobbiamo morire per giungere alle porte del Paradiso. Dobbiamo invece
vivere veramente. La pratica consiste nello stare in profondo contatto con
la vita, in modo tale che il Regno di Dio divenga una realtà. Non è
questione di devozione, si tratta di una questione di pratica.

Il Regno di Dio è a disposizione, qui e ora. Numerosi passi dei vangeli
confortano questa visione. Leggiamo nel Padre Nostro che non andiamo nel
Regno di Dio, ma che è il Regno di Dio a venire da noi: “Venga il Tuo
regno…”.

Gesù disse: “Io sono la porta”. Egli descrive Se stesso come la porta della
salvezza e della vita eterna, la porta del Regno di Dio. Poiché Dio il
Figlio è fatto dell’energia dello Spirito Santo, è per noi la porta
d’ingresso al Regno di Dio.

Anche il Buddha viene descritto come una porta, un maestro che ci mostra la
via in questa vita. Nel buddhismo una simile porta speciale è tenuta in
profonda considerazione, perché quella porta ci permette di entrare nel
regno della consapevolezza, dell’amorevolezza, della pace e della gioia. Si
dice che esistano ottantaquattromila porte del Dharma, porte
dell’insegnamento.

Se siete abbastanza fortunati da trovare una porta, non sarebbe molto
buddhista affermare che la vostra è l’unica. In realtà, dobbiamo aprire un
numero ancor più grande di porte per le generazioni future. Non dovremmo
temere un maggior numero di porte del Dharma: se mai, dovremmo temere che
non se ne aprano più. Sarebbe un peccato per i nostri figli e i loro figli
se ci ritenessimo soddisfatti con soltanto ottantaquattromila porte già
disponibili. Ciascuno di noi, con la sua pratica e la sua amorevolezza, è in
grado di aprire nuove porte del Dharma.

La società è in evoluzione, la gente cambia, le condizioni economiche e
politiche non sono le stesse dei tempi del Buddha o di Gesù. Il Buddha fa
assegnamento su di noi perché il Dharma continui a svilupparsi come un
organismo vivente, non un Dharma superato ma un autentico Dharmakaya, un
vero “corpo della dottrina”.

Lo Spirito Santo è l’energia dell’amore e della comprensione

Per avere un buon Sangha i suoi membri devono vivere in un modo che li aiuti
a generare più comprensione e più amore. Se il vostro Sangha si trova in
difficoltà, il modo per trasformarlo è quello di cominciare a trasformare
voi stessi, di ritornare alla vostra isola del sé, ristorarvi e farvi più
comprensivi.

Sarete come la prima candela che illumina la seconda che illumina la terza,
la quarta e la quinta. Ma, se fate del vostro meglio per praticare questa
via e le persone della comunità ancora non hanno la luce, può rivelarsi
necessario cercare un altro Sangha, o persino inaugurarne uno nuovo.. Ma non
arrendetevi troppo facilmente. Forse non avete praticato abbastanza a fondo
la trasformazione di voi stessi in una vivida candela capace di accendere
tutte le altre.

Solo quando siete convinti che la creazione di un nuovo Sangha sia l’unica
alternativa alla resa, allora è tempo di procedere e creare un nuovo Sangha.
Qualsiasi Sangha è migliore di un non-Sangha. Senza un Sangha sarete
perduti.

Lo stesso è vero all’interno di una chiesa. Se constatate che lo Spirito
Santo non è presente nella vostra chiesa, occorre in primo luogo che
compiate lo sforzo per introdurvi lo Spirito Santo, vivendo profondamente
gli insegnamenti di Gesù. Ma, se la vostra influenza è nulla, se la pratica
nella chiesa non è in accordo con la vita e gli insegnamenti di Gesù, forse
è per voi desiderabile riunire coloro che condividono la vostra convinzione
e fondare un’altra chiesa, in cui possiate invitare lo Spirito Santo a
entrare.

Per essere veramente d’aiuto alla vostra chiesa, o al vostro Sangha, dovete
innanzi tutto accendere il vostro fuoco di comprensione, amore, fermezza e
tranquillità. Allora riuscirete a ispirare gli altri, o in un gruppo
esistente o in uno che contribuirete a fondare. Per favore non praticate
l’imperialismo religioso. Anche se possedete un magnifico tempio o una
chiesa stupenda con splendidi ornamenti e opere d’arte, se al loro interno
non ci sono tolleranza, felicità, comprensione o amore, si tratta di un
falso Sangha, di una falsa chiesa. Continuate, ve ne prego, a fare del
vostro meglio.

Praticare e condividere

Il militante pacifista A.J. Muste ha detto: “Non esiste via alla pace, la
pace è la via”. Egli intendeva che possiamo realizzare la pace proprio nel
presente con ogni sguardo, sorriso, parola e azione. La pace non è soltanto
un fine. Ogni passo che compiamo dovrebbe essere pace, dovrebbe essere
gioia, dovrebbe essere felicità.

Precetti e comandamenti ci aiutano a dimorare nella pace, a sapere che cosa
fare e non fare nel presente. Sono tesori che ci conducono lungo un sentiero
di bellezza, rettitudine e verità. Contengono la sapienza delle nostre
tradizioni spirituali e, quando li pratichiamo, le nostre vite diventano
genuina espressione della nostra fede, e il nostro benessere si fa
incoraggiamento per i nostri amici e per la società.

La nostra felicità e quella altrui dipendono non solo da poche persone che
diventano consapevoli e responsabili. L’intera nazione deve essere
consapevole. Precetti e comandamenti devono essere rispettati e praticati
dagli individui e dall’intera nazione. Quando tante famiglie sono lacerate,
il tessuto della società è strappato. Di ciò dobbiamo avere una visione
profonda al fine di comprendere la natura di tali precetti e comandamenti.

Tutti devono unirsi nell’opera. Perché il nostro mondo abbia un futuro,
abbiamo bisogno di linee di condotta essenziali. Sono la miglior medicina
disponibile per difenderci dalla violenza che è in ogni luogo. La pratica
dei precetti o dei comandamenti non è una questione di soppressione o
limitazione de}la nostra libertà. I precetti e i comandamenti ci offrono un
modo meraviglioso di vivere, e possiamo praticarli con gioia. Non si tratta
di costringere noi stessi o gli altri all’obbedienza di regole.

Nessuna singola tradizione religiosa monopolizza la verità. Dobbiamo
trascegliere i valori migliori di tutte le tradizioni e lavorare insieme per
eliminare le tensioni fra le tradizioni stesse al fine di dare alla pace una
possibilità. Dobbiamo unirci e cercare in profondità le vie per aiutare la
gente a mettere di nuovo radici. Dobbiamo proporre il miglior piano per la
salute fisica, mentale e spirituale della nostra nazione e della terra.

Perché sia possibile un futuro, vi sprono a studiare e mettere in pratica i
valori migliori delle vostre tradizioni religiose e a farne partecipi i
giovani in modi a loro comprensibili. Se meditiamo insieme, come famiglia,
comunità, città e nazione, riusciremo a identificare le cause della nostra
sofferenza e a trovare le vie d’uscita.

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