La proteina del declino cerebrale

pubblicato in: AltroBlog 0
La proteina del declino cerebrale

8 maggio 2019

Bloccare una proteina per recuperare il declino cerebrale

Una molecola che si trova nei vasi sanguigni e interagisce con il sistema immunitario contribuisce
all’invecchiamento del cervello. Uno studio ha dimostrato che bloccandola è possibile ridurre e
recuperare i deficit mentali legati all’età

di Simon Makin / Scientific American

Nel sangue degli anziani c’è qualcosa che fa male al cervello. Se il plasma di topi o esseri umani
anziani viene infuso in topi giovani, ne peggiora la cognizione e gli indicatori biologici della
salute cerebrale. Al contrario, il plasma di topi (o umani) giovani ringiovanisce il cervello
vecchio.

Gran parte delle ricerche in questo ambito sono state condotte dal gruppo del neurobiologo Tony
Wyss-Coray della Stanford University, che sta cercando di individuare quali potrebbero essere i
componenti del sangue responsabili di quei peggioramenti.

Uno studio precedente aveva identificato una proteina, che diminuisce con l’età, che ha potenti
effetti benefici. Quella proteina può passare dal sangue al cervello, ma Wyss-Coray si è chiesto in
che modo certe molecole contenute nel sangue “parlino” al cervello. Devono interagire direttamente
con le cellule cerebrali o possono comunicare in modo indiretto, attraverso la porta di accesso al
cervello, la barriera ematoencefalica?

Per scoprirlo, nell’ultimo studio – pubblicato il 13 maggio su “Nature Medicine” – il team di
Wyss-Coray ha provato un nuovo approccio,. “Abbiamo pensato che il modo più ovvio in cui il plasma
interagisce con il cervello è attraverso i vasi sanguigni”, dice Wyss-Coray. “Così, ci siamo
concentrati sulle proteine che cambiano con l’età e che hanno qualcosa a che fare con la
vascolarizzazione.”

Fra queste è emersa una proteina che diventa più abbondante con l’età, VCAM1, che – come ha mostrato
il team – sembra avere un ruolo chiave negli effetti del sangue invecchiato sul cervello. Misure
biologiche e cognitive hanno indicato che il blocco di VCAM1 non solo impedisce al plasma vecchio di
danneggiare il cervello dei topi giovani, ma può anche invertire i deficit nei topi anziani. Il
lavoro ha importanti implicazioni per il declino cognitivo legato all’età e per le malattie
cerebrali. “La disfunzione cognitiva associata all’invecchiamento è una delle nostre maggiori sfide
biomediche, per la quale non abbiamo nessuna terapia medica efficace”, dice Dena Dubal,
neuroscienziata all’Università della California a San Francisco che non è stata coinvolta nello
studio. “È una linea di indagine molto importante; ha implicazioni enormi.”

VCAM1 (Vascular Cell Adhesion Molecule-1) è una proteina che sporge dalle cellule endoteliali che
rivestono le pareti dei vasi sanguigni e che si aggancia alle cellule immunitarie circolanti
(globuli bianchi, o leucociti): risponde alle lesioni o alle infezioni aumentandone il numero e
innescando le reazioni immunitarie. Un enzima elimina VCAM1 dalle cellule endoteliali alla stessa
velocità con cui viene prodotta, quindi la quantità totale di quelle proteine nelle cellule rimane
abbastanza stabile ed è ben riflessa dalla sua quantità in circolazione.

Per prima cosa i ricercatori hanno controllato se l’aumento di VCAM1 circolante con l’età era
accompagnato da una maggiore quantità di proteine legate alle cellule: è risultato che è così nel
cinque per cento delle cellule endoteliali del cervello.

Hanno poi usato una tecnologia di sequenziamento genetico all’avanguardia, detta “a cellula
singola”, per controllare queste cellule rare, scoprendo che contengono molti recettori per le
proteine pro-infiammatorie, note come citochine. “È come se queste cellule che esprimono VCAM1
fossero una sorta di sensore dell’ambiente del sangue”, dice Wyss-Coray. I ricercatori volevano
sapere se questo aumento di VCAM1 legato alle cellule si limitava ad accompagnare i segni
dell’invecchiamento cerebrale, o se contribuiva a causare il danno.

Un segno che un cervello sta invecchiando è la diffusa attivazione delle cellule immunitarie, la
microglia. Quando queste cellule spazzine, che di solito svolgono funzioni di routine, entrano in
uno stato infiammatorio, rilasciano citochine e radicali liberi. “Quindi, non stanno pulendo casa,
la stanno mettendo a soqquadro”, dice Wyss-Coray. “La riempiono di spazzatura.”

Un altro indicatore è un declino dell’attività legata alla formazione di nuove cellule cerebrali
nell’ippocampo, una regione cerebrale coinvolta nella memoria e una delle poche regioni che si pensa
siano in grado di produrre nuove cellule nell’età adulta.

Il team ha usato due tecniche per bloccare VCAM1: una cancella geneticamente la proteina dal
cervello dei topi, l’altra prevede di iniettare un anticorpo che si lega a essa per impedire che si
leghi a qualsiasi altra cosa. Entrambi i metodi hanno bloccato i segni di invecchiamento cerebrale
nei topi giovani infusi con plasma vecchio e hanno invertito i livelli di marcatori nel cervello dei
topi anziani.

I ricercatori hanno poi sottoposto i topi a test di apprendimento e di memoria. In uno – che
richiedeva di ricordare quale fra diversi fori poteva essere attraversato in sicurezza – i topi
anziani così trattati, una volta addestrati, si sono comportati come quelli giovani. “I topi anziani
sembravano di nuovo giovani in termini di capacità di imparare e ricordare”, dice Dubal. “E’
notevole”.

L’ipotesi di lavoro dei ricercatori su questo fenomeno è che le citochine nel sangue invecchiato
siano il primo innesco che induce le cellule endoteliali del cervello a produrre più VCAM1. Quando i
leucociti si legano alla proteina, segnalano al cervello di attivare la microglia, che crea un
ambiente infiammato che blocca le cellule staminali coinvolte nella formazione di nuovi neuroni.
“Stanno mostrando che la barriera ematoencefalica non è statica, e può percepire i cambiamenti nel
sangue, che poi segnala al cervello, dicendogli di diventare più infiammato”, spiega Richard Daneman
neurofarmacologo specialista della barriera ematoencefalica che lavora all’Università della
California a San Diego.

Interrompere l’interazione dei leucociti con VCAM1 impedisce questa segnalazione e quindi protegge o
addirittura inverte gli effetti del sangue vecchio. “Si ha davvero la sensazione che sia stato fatto
un grande salto [non solo] nell’ambito della scienza di base, ma anche [nell’indicare] un nuovo
percorso terapeutico per uno dei nostri problemi più devastanti”, sostiene Dubal. I dettagli
molecolari esatti di questo percorso devono ancora essere stabiliti, dice Wyss-Coray. “VCAM1 sta
dando un segnale alla cellula o le cellule immunitarie stanno rilasciando fattori tossici?” si
chiede. “Dobbiamo capire come funziona a livello molecolare.”

Le terapie sviluppate sulla base di questi risultati non dovrebbero richiedere per forza
l’attraversamento della barriera ematoencefalica. “Una delle nostre più grandi sfide è: come
facciamo entrare i farmaci nel cervello in presenza di questo muro difensivo?”, dice Dubal.

Ma VCAM1 è sul lato del sangue di quel muro. Uno svantaggio è che bloccare una componente del
sistema immunitario potrebbe avere effetti collaterali. Un farmaco, il Tysabri, che si lega ai
leucociti impedendo loro di attaccarsi al VCAM1, è già usato nella terapia della sclerosi multipla:
poco dopo la sua approvazione sono sorti dei problemi perché alcuni pazienti, prima della sua
somministrazione, ospitavano un virus che poi è dilagato. Ora i pazienti sono sottoposti a screening
per questo virus. “Le terapie immunosoppressive non sono prive di rischi e richiedono attenzione”,
dice Dubal. “Ma in determinate circostanze si sono dimostrate molto efficaci.”

Una possibilità sarebbe quella di ridurre l’attività di VCAM1 a livelli sani e giovanili, invece di
bloccarla del tutto. “Se non blocchiamo direttamente le cellule immunitarie, ma ne regoliamo il
bersaglio, forse possiamo essere più cauti, evitando di bloccare del tutto l’attivazione immunitaria
in caso di lesioni”, dice Wyss-Coray. “Ma questo deve essere ancora dimostrato.” Ma possono esserci
anche altri modi per intervenire, come arrestare i segnali che dicono al cervello di infiammarsi o
impedire che VCAM1 aumenti, dice Daneman. “Comprendere l’intero percorso ci può consentire di
limitare questi effetti collaterali.”

In ogni caso, va ricordato che è ancora da capire se i risultati nei topi portino a terapie umane
efficaci, ma ci sono motivi di ottimismo. Il plasma umano è stato usato anche nei topi. “Questo
migliora la rilevanza per gli esseri umani – dice Dubal – e, come nei topi, negli esseri umani i
livelli di VCAM nel sangue aumentano con l’invecchiamento. Non lo sapremo finché non lo testiamo, ma
è davvero promettente.” Il team sta progettando di testare un anticorpo VCAM1 in persone la cui
cognizione diminuisce dopo un ictus, forse a causa di una risposta immunitaria. “Spero che sia
possibile recuperare o prevenire alcuni di questi deficit cognitivi e recuperare la funzione dopo
l’ictus”, dice Wyss-Coray.

Esistono già numerosi anticorpi. “Anticorpi VCAM1 sono stati sviluppati da molte aziende
farmaceutiche”, dice Wyss-Coray. “Non li hanno più studiati una volta che [Tysabri] è stato
approvato, ma possono essere resuscitati e testati. Potremmo introdurli nella pratica clinica in
tempi abbastanza brevi, perché è un obiettivo accessibile e c’è un precedente nel prendere a
bersaglio questo percorso.”

advances.sciencemag.org/content/5/5/eaav7903

————————-
L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 14 maggio 2019.
Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

www.scientificamerican.com/article/thwarting-a-protein-reverses-brain-decline-in-aged-mice/?
redirect=1

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *