La relazione con lo spiacevole

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La relazione con lo spiacevole

di Daniele Capodiferro

Nella pratica della consapevolezza nessun evento è considerato come un
‘ostacolo’. Circostanze sfavorevoli, avversità, afflizioni mentali non
sono viste di per sé, ma vengono trasformate in occasioni di
risveglio. In genere consideriamo le cose come eventi separati. La
mente dona al mondo una solidità che non ha, e su questa base viene
creato un illusorio senso dell’‘io’. Stati mentali come bramosia,
avversione, orgoglio, invidia, risentimento, collera, paura, vengono
da noi identificati attimo per attimo e per ciò stesso prodotti. Diamo
una realtà concreta ai fenomeni che appaiono ai sensi, anziché vederli
come eventi mutuamente dipendenti, e li consideriamo distinti dalla
mente stessa. Ma il problema non sta né nei sensi né negli oggetti dei
sensi, né nella mente né negli oggetti della mente, bensì nella nostra
relazione con essi, nell’attaccamento-avversione.

Nel lavoro interiore non si tratta né di ignorare gli stati mentali
negativi come se non ci fossero, né di controllarli o reprimerli
tramite uno sforzo volontario. Il lavoro da fare è anzitutto prendere
coscienza, ad esempio, dell’avversione o dell’attaccamento che ci
attraversano, vedere e riconoscere come agiscono in noi, accettare la
loro presenza ed essere disponibili a lavorare con essi così come
sono; detto altrimenti, vedere ogni cosa che sorge nel presente,
momento per momento nella nostra mente, che sia una sensazione, un
pensiero, una emozione o un’intenzione.

Un lavoro di osservazione, dunque, senza che però la mente sia
reattiva, senza cioè giudicare, fuggire o alimentare gli stati
mentali. Si tratta di rimanere vigili e attenti, ricettivi e aperti,
in modo da non essere catturati e sopraffatti dai nostri pensieri
emotivi. 1 Bisogna osservare tutto ciò che accade senza avere alcuna
aspettativa, essere attenti ai propri modi di rispondere alle
situazioni senza dargli solidità o prendersi troppo sul serio. Ma per
poter entrare in relazione con lo spiacevole, come sottolinea Corrado
Pensa, è necessario sviluppare un iniziale interesse a lavorarci:
“Primo, dobbiamo risvegliarci a osservare tali situazioni con
interesse e gentilezza. Secondo, dobbiamo imparare a rimanere svegli,
rimanere rispettosi, rimanere interessati”. 2

Il fatto stesso di contattare lo spiacevole, e di farlo inoltre con
rispetto e interesse, ne diminuisce la paura e l’avversione. Siamo in
grado di dire ‘sì’ a una situazione relativamente difficile,
abbracciamo la realtà così com’è. Ad esempio, diciamo ‘sì’ a una
malattia che ci colpisce, un sì senza riserve, un sì totale a ciò che
è giunto e che è reale, senza togliere la capacità poi di dire ‘no’
alla malattia e curarsi. Più siamo in grado di accettare i piccoli
disappunti quotidiani, più saremo capaci di affrontare le grandi
preoccupazioni e le paure della vita, compreso il soffrire. Diciamo
‘sì’ a quello che viene affinché possa compiersi in noi una
trasformazione nell’abbandono, nella fiducia, nell’apertura. Allo
stesso tempo diciamo un ‘no’ totale alla prigione della nostra
reattività, della nostra avversione, della nostra amarezza. 3

Scrive Desjardin:

Bisogna scoprire, mediante la vigilanza, il segreto del non-sforzo e,
in questo senso, ogni tentativo di restare in silenzio è prezioso. Io
lascio, tento di mollare, di non agire, di lasciar fare. Non è l’Atman
che si rivelerà per primo, saranno le vostre paure nascoste, le vostre
tristezze non consolate, i vostri desideri non realizzati, ma è questo
il Sentiero che farà sì che un giorno, nello stesso modo, in questo
silenzio interiore, l’Infinito vi accolga. 4

Ci abbandoniamo a un’Intelligenza amorosa, che agisce attraverso di
noi e verso cui noi interiormente ci disponiamo in una attiva
passività, mentre esteriormente agiamo distesi fisicamente,
emotivamente e mentalmente. Allora, non siamo più in balia degli stati
d’animo, rimanendo equilibrati qualsiasi cosa accada.

Lasciamo che il piacere sia semplicemente piacere, che il dolore sia
semplicemente dolore. Non fissiamoci nel pensiero che noi sentiamo
piacere, noi sentiamo dolore. Lasciando andare le sensazioni,
otterremo la libertà dalla sofferenza, perché saremo oltre le
sensazioni”. 5

Tutto diventa grazia.

Le difficoltà della vita, se non lo hanno già fatto, prima o poi
arriveranno. Quanto meno invecchieremo, forse ci ammaleremo, e
comunque dovremo morire. Se avremo lavorato con esse durante la nostra
esistenza, potremo avere una maggiore capacità di lasciare la presa,
di essere meno identificati, più aperti di fronte al mistero della
vita e della morte. Diventa dunque importante imparare a stare sempre
più fermi dentro la difficoltà, ma in modo soffice, affettuoso, non
rigido; il che è sostanzialmente diverso dall’alimentarla con giudizi,
pensieri o reazioni. Solo così possiamo imparare a soffrire e andare
oltre la sofferenza. E la comprensione e accettazione delle nostre
difficoltà ci porta a comprendere e accettare anche le difficoltà
altrui, ci porta a toccare la compassione. 6

Una volta che ci siamo alleggeriti della paura della sofferenza e
siamo entrati in un rapporto più impersonale con essa (ci siamo
disidentificati un po’ di più), la qualità della sofferenza cambia
sensibilmente. Il dolore viene filtrato dal sovraccarico di egoità e
visto come un flusso in continuo cambiamento, scremato di tutto il
corteo di pensieri negativi e reazioni meccaniche che in genere porta
con sé. Così entriamo in contatto diretto con la sofferenza che c’è
nel momento presente, anziché rimanere impigliati
nell’identificazione.

Se noi siamo in contatto con la sofferenza che c’è in quel momento e
guardiamo i pensieri che passano senza aggiungerne di nuovi, – dice
Corrado Pensa – allora facciamo un’operazione completamente diversa,
che è da un lato di unificazione con la realtà della sofferenza,
dall’altro di non-identificazione: smettiamo cioè di costruirci sopra.
Quindi da un lato maggior contatto, dall’altro disidentificazione e
inizio di guarigione 7.

Una volta che ci apriamo alla sofferenza, scopriamo che non è qualcosa
di solido, cambia in continuazione e, così come è iniziata, cessa. La
pratica, dunque, consiste nell’aprirci, lasciare andare e notare
quando la sofferenza finisce.

E allorché riusciamo a cogliere, in nudità e silenzio, la pura
vibrazione energetica di una frustrazione, saremo sorpresi e placati
allo stesso tempo: infatti percepiremo, pur nella sofferenza,
un’ampiezza che, fino a quando imperversavano i pensieri di
autoriferimento, non potevamo arrivare a toccare. Al contrario,
eravamo preda dell’angustia che quei pensieri creavano 8.

Un dolore ci colpisce e, se lo lasciamo essere quello che è e
rimaniamo aperti al nostro non sapere quello che succederà, si fa
sentire in tutta la sua forza dolorosa ma con più spazio. Ci sentiamo
profondamente feriti nel nostro nucleo più vulnerabile e sensibile, ma
allo stesso tempo c’è calore nel cuore.

E anziché sentirci distrutti, sentiamo un sostegno interiore, una
vicinanza affettuosa che ci ricopre teneramente.

Il dolore, se non ci rapportiamo in modo sbagliato, ci fa riconoscere
che la vita per noi non è altro che un riflesso della mente e ci fa
capire che ogni esperienza può diventare un’occasione per liberarsi
dei nostri schemi. Vediamo come spesso lottiamo per allontanarci da
una sofferenza e con ciò stesso come la alimentiamo. Attraverso una
frustrazione, entriamo in contatto con la nostra vulnerabilità e
possiamo dimorare in uno spazio mentale dove non c’è sé, né paura o
desiderio.

Via via che le formazioni mentali si acquetano, – spiega Achaan
Sumedho – diventiamo sempre più consapevoli del silenzio della mente.
Riusciamo a dimorare sempre di più in quel vuoto in cui non c’è sé, ma
c’è solo il momento presente così com’è. La quiete e il silenzio ci
accompagnano stabilmente ovunque siamo, in qualsiasi situazione ci
possiamo trovare 9.

Appena il pensiero interviene, scatta la razionalizzazione per
spiegare il dolore, parte la reazione condizionata, ma il dolore non
finisce. Dimorando nella pura osservazione, invece, vediamo il volto
del dolore, ne sentiamo riverberare in noi la profondità, aprendo la
strada alla liberazione. Possiamo vedere che tra un pensiero e l’altro
vi è un intervallo dove la ruminazione mentale tace, uno spazio di
silenzio e di pace. La mente si rivela come un flusso di stati che
sorgono, durano, mutano e finiscono.

Quando c’è vera conoscenza, visione profonda, la mente è aperta e
ricettiva e la realtà, dapprima a sprazzi, si rivela per quello che è:

fluidità e interconnessione in luogo di fissità e separatezza e
soprattutto barlumi di una vastità vuota e viva. La vastità del non
io, la vastità della coscienza finalmente vuota dall’attività
solidificatrice e separante promossa dall’attaccamento-ignoranza,
vuota di io-mio. Ossia la consapevolezza nella sua compiutezza, nel
suo splendore e nel suo mistero 10.

Allora comprendiamo che non c’è nessuno a soffrire. C’è colui che
conosce, l’osservatore delle sensazioni, delle emozioni, dei pensieri,
delle esaltazioni e delle depressioni, in un continuo fluire di tutto,
compreso se stesso. Un osservatore che non è diverso da ciò che
osserva 11.

Dice Krishnamurti:

Finché mi considererò l’osservatore del dolore, il dolore non avrà
fine. Ma se c’è la comprensione che il dolore sono io, che
l’osservatore stesso è il dolore, se la mente comprende che essa
stessa è dolore (e non qualcosa che osserva il dolore o che percepisce
il dolore), che essa stessa è ciò che crea dolore e ciò che lo
percepisce, allora il dolore è finito. È qualcosa di davvero difficile
da sperimentare, da essere consapevoli, perché da millenni abbiamo
separato le due cose 12.

In questo stato fisico e mentale di calma, in questa libertà della
pura osservazione, in questa completa vulnerabilità, si può rifiutare
totalmente tutto ciò che è attaccamento-avversione. Allora il dolore
finisce e dal rifiuto di tutto ciò che non è amore, nasce il vero
amore, l’amore per il tutto.

L’amore comincia allorché la sofferenza finisce. […] Senonché voi
alla sofferenza non vi avvicinate neppure. E non vi avvicinate alla
sofferenza perché siete sempre intenti a evitarla e a fuggirla. Ora il
modo in cui ci si rivolge alla sofferenza è cosa di grande importanza.
[…] Non riuscirete mai ad accostarvi a essa se in voi c’è
autocompatimento o se avete il desiderio di trovarne in qualche modo
la causa, la spiegazione; questo è evitarla. […] Ma se invece,
giunti vicini alla sofferenza, voi la tenete, la guardate, non fuggite
via, vedete quello che sta cercando di dirvi, vedete la sua
profondità, la sua bellezza, la sua intensità, se voi rimanete così
con essa, completamente, […] allora la sofferenza finisce 13.

Saper trasformare le difficoltà in aiuti, vedere le situazioni avverse
come pratica interiore è senza dubbio un’arte raffinata. Molti
insegnanti e maestri spirituali invitano con forza ad apprezzare,
oltre ciò che è bello e positivo nella nostra vita, anche le
situazioni spiacevoli e indesiderabili. Ci invitano a incontrare le
difficoltà con gioia, come occasioni che ci vengono incontro per
esercitare la consapevolezza ed imparare sempre qualcosa di più sui
meccanismi che ci governano e ci imprigionano. Considerare gli
ostacoli come situazioni positive, come i maestri del momento anziché
come problemi, fa sì che mettano radici meno profonde.

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1. Vedi Aldo Franzoni, Trasformare le emozioni in saggezza, Torino,
Promolibri, 1998, pp.36-41. Inoltre, B. Alan Wallace, Passi alla
solitudine, Roma, Ubaldini, 1995, pp.28-43.

Vedi Corrado Pensa, La tranquilla passione, Roma, Ubaldini, 1994,p.
157: “Per sviluppare l’arte di essere d’accordo con quello che ci
capita, occorre un lungo viaggio nella nostra non accettazione, nella
nostra non adesione alla vita e nel conseguente disagio che questo ci
provoca, disagio che la pratica ci aiuta a vedere meglio. […] Il
primo passo […è] quello di acquisire una grande familiarità e
dimestichezza con la non accettazione in noi. In pratica: avere la
costanza, la forza e la perseveranza di sostenere lo sguardo sul
nostro chiuderci. […] Cominciamo a comprendere che se è vero che non
possiamo piegare a martellate la non accettazione è tuttavia anche
vero, per fortuna, che il puntuale e sollecito contemplare la non
accettazione è il segreto per arrivare spontaneamente
all’accettazione”.

2. Corrado Pensa, Praticare per ingentilirsi, in Sati, Roma, n. 1,
gennaio-aprile 1998, p. 15. E a p. 16: “diventiamo più consapevoli
della relazione sbagliata con lo spiacevole, della sofferenza prodotta
dall’identificazione. Avendo maggiore consapevolezza, diventiamo più
propensi all’accettazione dello spiacevole, perché abbiamo visto
quanto è doloroso indurirsi e resistere. Spontaneamente, quindi, dalla
comprensione nasce l’accettazione o il lasciar andare. E
dall’accettazione a sua volta nasce la capacità di maggiore
consapevolezza in una situazione difficile”.

3. Senti la registrazione del discorso di Corrado Pensa La nostra
relazione con lo spiacevole, tenuto a Roma il 18/10/1993 presso
l’A.Me.Co., parte I.

4. Arnaud Desjardins, Per una vita riuscita. Un amore riuscito,
Milano, Perla, p. 186 .

5.Kor Khao Suan Luang, Imparare a leggere la nostra mente, in
Paramita, n. 64, ottobre-dicembre 1997, p. 23. Vedi anche Jiddu
Krisnamurti, Sull’amore e la solitudine, Roma Astrolabio, 1996, p. 85:
“Accanto all’azione positiva c’è un’azione che è non azione. L’azione
ritenuta positiva consiste nell’intervenire, controllare, reprimere,
dirigere, dominare, evitare, interpretare, razionalizzare o
analizzare. Ma c’è anche una non azione, che non è né correlata né
opposta a quella positiva, e che consiste nell’osservare senza
intervenire. Questa stessa osservazione induce una trasformazione
radicale in ciò che viene osservato, e questa è non azione”.

6. Vedi Corrado Pensa, La tranquilla passione, cit., p. 20: “La
pratica della consapevolezza contemplativa porta a vedere molto più
chiaramente l’estensione e la profondità della sofferenza dentro noi
stessi e, per deduzione, fuori di se stessi, negli altri. […] La
pratica, inoltre, porta a capire che causa centrale di sofferenza è il
continuo identificarsi con gli stati della mente e del corpo,
identificazione che genera il senso dell’io/mio, la contrazione
dell’autoriferimento. […] Infine, proprio in virtù di una
contemplazione dell’io/mio sempre più sostenuta, comincia a
sopravvenire un allentamento della contrazione egoica e del dolore da
essa generato. Allentamento che porta più pace e più gioia”.

7. Ibidem, p198.

8. Ibidem, p. 206. Vedi Achaan Sumedho, Così com’è, cit., p. 31:
“Quando siete depressi imparate dalla depressione; quando siete
malati, imparate dalla malattia; quando siete felici, imparate dalla
felicità: queste sono tutte opportunità per imparare a questo mondo.
Come modo di vita continuate ad ascoltare e a osservare in silenzio…
A quel punto comincerete a capire le condizioni. Non c’è niente di cui
aver paura. Non c’è niente di cui liberarsi. Non c’è niente da
conquistare che non abbiate già”.

9. Achaan Sumedho, cit., p. 94.

10. Corrado Pensa, La tranquilla passione, cit., p. 280. Vedi anche pp. 160-164.

11. Vedi Jiddu Krisnamurti, La fine del dolore, Milano, Aequilibrium,
1982, pp. 59, 60: “Quando osservate quello che accade in voi, quando
osservate l’attaccamento e le sue inevitabili conseguenze, voi che
osservate siete diversi dal fatto che state osservando? Quando andate
in collera, in quel momento non c’è alcuna divisione tra voi e le
vostra arrabbiatura. Solo un momento più tardi compare la divisione e
dite: ‘Mi sono arrabbiato’. […] Nel momento in cui l’osservatore si
separa dalla cosa osservata ecco che compare una divisione in noi. Se
poteste vedere che è così, porreste completamente fine al conflitto,
perché il conflitto esiste solo quando l’osservatore si separa
dall’osservato”.

In una celebre risposta data all’asceta Bahia, che gli chiedeva
insistentemente qual’era l’essenza del suo insegnamento, il Buddha
affermò che ci si doveva addestrare nel seguente modo: “In ciò che è
visto ci sia soltanto ciò che è visto. In ciò che è udito, soltanto
ciò che è udito. In ciò che è sentito attraverso il tatto, l’odorato,
il gusto, soltanto ciò che è sentito. E in ciò che è conosciuto dalla
mente, soltanto ciò che è conosciuto. Questa è la fine della
sofferenza”. (Udana, 1, 10).

12. Jiddu Krishnamurti, Sull’amore e la solitudine, cit., p. 55. Dello
stesso autore vedi anche … Una persona chiese a Krishnamurti: “Sono
pieno di odio: Per favore, potresti insegnarmi l’amore?”. E
Krishnamurti rispose: “Nessuno ti può insegnare come si ama: se si
potesse insegnare l’amore, il problema del mondo sarebbe molto
semplice, non ti pare? Ma l’amore non è facile da incontrare. È invece
facile odiare e, anzi, l’odio mette insieme le persone, come in una
guerra. L’amore è più difficile. Non puoi imparare come si fa ad
amare, ma quello che puoi fare è osservare l’odio e metterlo
gentilmente da parte. Non stare a combattere contro l’odio, non stare
lì a dire quanto è terribile odiare le persone. Ma vedi l’odio per
quello che è e lascialo cadere. Ciò che è importante è non lasciare
che l’odio metta radici nella tua mente. Comprendi? La tua mente è
come un suolo ricco e se gli si dà tempo sufficiente, qualsiasi
problema mette radici come un’erbaccia. Dopodiché sarà più difficile
tirarlo via. Ma se tu non dai al problema tempo sufficiente per
mettere radici, allora non ha modo di crescere e appassirà. Se tu
incoraggi l’odio, gli dai tempo di maturare, diventa un enorme
problema. Ma se, invece, ogni volta che l’odio sorge lo lasci andare,
allora la tua mente diventa molto sensibile, senza essere
sentimentale. E allora conoscerà l’amore” (J. Krishnamurti, Think on
these things, New York 1964, p. 76, trad. nostra).

13. Jiddu Krishnamurti, The Flame of Attention, Harper and Row, New
York, San Francisco e London, 1984, pp. 40-41.

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