LA RICERCA DELL’IMMORTALITA’: UNA STORIA DALLA UPANISHAD

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LA RICERCA DELL’IMMORTALITA’: UNA STORIA DALLA UPANISHAD

di Marco Ferrini

Nella Cultura Indovedica il metodo utilizzato per arrivare alla conoscenza, anche di tipo materiale,
ha la natura dell’intuizione ed ha dunque qualità di introspezione, ricerca, rigore etico ed
intellettuale. Ciò presuppone un atteggiamento da parte del ricercatore, dello ‘scienziato’, tale da
permettere l’accesso a livelli di coscienza normalmente preclusi ad una mente ordinaria. Nella Katha
Upanishad e nella Taittiriya Brahmana(1) viene narrata l’affascinante storia di Naciketa, una
personalità eccezionale. La riteniamo importante e quindi la narriamo principalmente per mostrare un
esempio di un ricercatore indefesso, dotato di un’attitudine che è propedeutica a qualsiasi indagine
e ascolto, condizione primaria nella teoria vedica della conoscenza. La storia, oltre a delineare un
profilo etico ideale, evidenzia un confronto tra personalità appartenenti a differenti piani cosmici
(umani e deva), illustra il ruolo mediatico del sacrificio, descrive simbolicamente la fuoriuscita
dal corpo e lo stadio intermedio tra due vite, comunemente definito morte.
J. Miller ha individuato il principale insegnamento di questa vicenda nella distinzione netta tra
dimensione materiale, per quanto elevata, e realtà spirituale; distinzione rilevante per delineare
un quadro completo della cosmogonia vedica:

E’ caratteristico che, nella Katha Upanisad, all’unica domanda la cui risposta sta a cuore a
Naciketa, Yama eluda tre volte la risposta e tenti di lusingare l’interrogante con promesse di
benessere sensoriale (1.23.5) per mettere alla prova la sua sincerità e la sua perseveranza nella
ricerca della verità suprema. Il suo infatti é il più grande inter­rogativo mai formulato dall’anima
umana e non concerne la mera sopravvivenza ma verte sul significato della liberazione. […] E’
inoltre caratteristico che Yama risponda alla domanda di Naciketa soltanto dopo aver accertato che
non si farà illudere dalle effimere glorie del mondo di maya. I paradisi dell’umanità non sono la
realtà ultima dei cercatori di verità, realtà contem­plata dai saggi di tutte le epoche, compresa
l’età vedica. Quella verità si trova ad un livello trascendente cui i rishi avevano accesso, ma che
la mente comune o la persona media, con tutte le sue passioni, é incapace di toccare e tanto meno di
penetrare […](2).

Uddalaka, o Vajashrava, era un brahmano che aderiva al sistema ritualistico dei Veda denominato
Karma-kanda, che permette di ottenere, attraverso una perfetta esecuzione della cerimonia del fuoco,
molteplici benefici d’ordine mondano, assecondanti il proprio desiderio: figli geniali, una o un
consorte affascinante, potere e sovranità, salute e bellezza, ricchezza e successo, cultura e
sapere. Una volta decise di impegnarsi nella celebrazione di un grande sacrificio vedico che, fra
gli innumerevoli tipi di sacrifici che la religiosità del Karma-kanda descriveva, era alquanto
singolare, perchè prevedeva che il sacrificante sacrificasse tutto ciò che gli apparteneva. Il
brahmano allora si accinse a radunare legname, capretti ed ingredienti da offrire in sacrificio ai
diversi deva, oltre ad assumere altri sacerdoti esperti nella celebrazione dei sacrifici,
specializzati ciascuno in un Veda particolare: chi negli inni del Rigveda, chi nelle melodie del
Samaveda, chi nelle formule dello Yajurveda e chi infine nelle formule dell’Atharvaveda. Una volta
radunato tutto ciò che gli occorreva e trovati gli altri sacerdoti esperti nella scienza del
sacrificio, cominciò ad allestire l’arena deputata alla celebrazione del grande sacrificio.
Dopodiché il sacrificio ebbe inizio.

Om Indraya namah
Om Varunaya namah
Om Candraya namah
Om Suryaya namah
Svah Svah Svah…(3)

Il brahmano era intento alla recitazione degli inni sanscriti e all’offerta degli ingredienti nel
fuoco sacro. Il cortile della sua dimora era affollato di ritvik, sacerdoti ai quali, secondo il
cerimoniale vedico, chi sacrificava doveva elargire una gran quantità di offerte perché, con la loro
presenza, rendevano possibile il sacrificio. Il figlio di questo brahmano, che stava compiendo
l’offerta sacrificale recitando i mantra, si chiamava Naciketa; un bimbo di soli nove anni. Si narra
che Uddalaka non fosse veramente intenzionato a sacrificare proprio tutto ciò che possedeva, forse
per l’attaccamento, non ancora completamente superato, ad alcuni oggetti. Forse fu una svista, ma
l’impressione suscitata in Naciketa fu di preoccupazione: vedeva suo padre immerso nel compimento di
un sacrificio che prevedeva l’offerta di tutto ciò che possedeva, ma gli parve che in realtà non
stesse offrendo proprio tutto. Il suo sguardo si soffermò sulle mucche, che gli sembrarono alquanto
smunte e vecchie. “Hanno bevuto acqua ed ingoiato erba”, pensò Naciketa, “Ma non sono più in grado
di digerire. Sacrificando questo tipo di animali, che cosa se ne può ottenere in cambio?”. Allora fu
assalito dal dubbio che gli ingredienti, i costituenti del sacrificio, non fossero della qualità
richiesta da quel particolare tipo di cerimonia del fuoco; perciò si recò direttamente sul luogo
dove stava fiammeggiando il fuoco sacro, lui che era previsto rimanesse sulla veranda di casa,
guardando da distante quanto avveniva nell’assemblea dei brahmani.

In qualche modo invece s’avvicinò all’area in cui si stava svolgendo il grande sacrificio e senza
preamboli domandò al padre: “Padre, a quale deva verrò offerto in sacrificio?”. Suo padre non disse
parola, ma Naciketa, determinato, insisté: “A chi verrò sacrificato?”. Il padre lo ignorò, ma
Naciketa, per la terza volta, domandò: “Padre, a chi verrò offerto?”. Allora il padre, adirato,
rispose: “A Yama”. Cadde un silenzio assoluto. Yama è un nome che incute un timore glaciale in India
o tra coloro che conoscono la Tradizione; è un nome che non si pronuncia quasi mai, se non durante
la celebrazione di riti sacrificali o in circostanze come quella qui descritta, in cui la conoscenza
dev’essere trasmessa da una persona all’altra. Il nome di Yama non va mai proferito per uno scopo
futile, non sacro. Yama è il deva della morte; è la morte. Naciketa, riflettendo, si rammaricò di
aver irritato il padre, il quale sicuramente, pensava il bambino, non aveva detto ciò che veramente
desiderava, ma ormai l’aveva detto. Naciketa sapeva bene chi fosse Yama, perché era nato in una
famiglia nella quale era stato educato alla cultura brahmanica, quindi era arya per nascita; e qui,
si badi bene, non intendiamo la nascita in quanto fatto meramente biologico ma come evento da
leggersi ed interpretarsi entro l’ottica del samsara. In quella famiglia, con ogni probabilità,
erano stati celebrati tutti i riti necessari per avere un figlio di tale qualità.

Il padre era un sacerdote, un brahmano, ed il nonno era anch’egli famosissimo per avere elargito
cibo consacrato in moltissime occasioni. Naciketa, d’animo nobile ed elevato, volse i suoi pensieri
alle parole pronunciate dal padre, un brahmano, nell’arena del sacrificio, di fronte al fuoco sacro,
di fronte ad Agni: “Va’ da Yama, ti offro a Yama”. Naciketa considerò con grande serietà ciò che suo
padre aveva detto. Conscio che suo padre era una persona dharmya, ossia ligio alla Tradizione e alle
norme religiose e pienamente consapevole della sfera del sacro, sapeva anche che, l’avesse fatto per
scherzo o seriamente, ormai l’aveva offerto a Yama. Per la potenza della formula sacrificale
recitata, il bambino si trovò ipso facto sulla soglia della dimora di Yamaraja, gli inferi; ma Yama
non c’era. Pur trovandosi sulla soglia del mondo dei dipartiti, la mente di Naciketa era così
addestrata alla riflessone, all’analisi, alla meditazione, che egli continuò a seguire il filo dei
propri pensieri, domandandosi: “Quali piani terrà in serbo per me Yama? In qual modo diverrò
strumento dei suoi progetti? Son io un pessimo discepolo? No. Sono della migliore qualità? Neppure”.

Esistono tre categorie di discepoli e di figli, e in questo caso i termini discepolo e figlio sono
molto simili. Un discepolo o un figlio di prima qualità conosce il volere del guru o del padre,
senza che questi lo debba manifestare; se è di seconda qualità non percepisce il desiderio del guru
o del padre ma, quando gli chiedono qualcosa, il discepolo è pronto a soddisfarne le richieste;
quando però il guru o il padre, danno un istruzione e il discepolo non la esegue, viene considerato
di terza qualità, quasi non più discepolo, quasi non più figlio. In alcuni shastra infatti, il
discepolo o figlio di terza categoria, viene paragonato ad un escremento che, pur generato per mezzo
dell’organo con il quale si generano i figli, ne è uscito come un escremento anziché come un figlio
o un discepolo. Consapevole di ciò, Naciketa si interrogò: “Son io di terza qualità? Forse prima non
ho capito ciò che mio padre voleva, ma quando mi ha detto: “Va’ da Yama, ti offro a Yama”, ho ben
capito e ora mi trovo qui”. Allora entrò in uno stato d’animo piuttosto sereno, considerando anche
che era arrivato alla dimora dei dipartiti dopo molti altri che lo avevano preceduto e prima di
molti altri che vi sarebbero giunti solo dopo di lui. Immaginò allora di essere di qualità media,
sia come figlio che come discepolo. Nel caso suo infatti il padre non era solo il suo padre
biologico ma anche il guru (il padre spirituale) perché, come avveniva e avviene ancor oggi, negli
antichi gotra brahmanici spesso è il padre ad iniziare il figlio alla scienza sacra.

Riflettendo e meditando sul significato della vita e della morte, passarono tre giorni. E per tre
giorni Naciketa non vide nessuno. Rimaneva sempre sulla soglia della dimora di Yama, ma costui non
c’era. Per ragioni che sicuramente trascendono le nostre capacità di comprensione, per tre giorni
Yamaraja rimase assente. La sua dimora era vuota. C’erano la moglie, i servitori, i ministri del
regno e altre centinaia di migliaia di persone, ma di Yama non v’era la benché minima traccia.
Naciketa, anziché venire ricevuto in maniera adeguata, fu trascurato: non gli furono offerti né
cibo, nè bevande, né un giaciglio sul quale riposare. Dal cielo si udì allora una voce che ammonì
Yama: “Yama, c’è un brahmano sulla soglia della tua dimora e tu non ti sei ancora preso cura di lui.
Sai cosa spetta a chi, ricevendo un ospite di tanto riguardo, lo trascura?”. L’ospite è considerato
Narayana, Dio: Ittiti-Brahmana Narayana. All’ospite bramano o al viandante va offerta subito
dell’acqua perché si disseti e faccia le abluzioni. Questo è il primo principio d’ospitalità, nella
tradizione del dharma, considerata una delle prime qualità di una persona evoluta. Bisogna offrire
ospitalità con qualità perchè l’accoglienza di un saggio o di un altro ospite può rivelarsi un’arma
a doppio taglio: se l’ospite viene ben curato, ben trattato e riverito, ciò apre la strada della
liberazione; se invece viene mal trattato, trascurato o addirittura offeso, ciò diventa distruttivo
come il fuoco. Nel sacrificio vedico il fuoco può aprire la via ai mondi delle delizie, può generare
la felicità terrestre e celeste ma, per disattenzione, può bruciare anche la casa del brahmano.

A questo punto Yama immediatamente apparve di fronte a Naciketa, con aria di scusa, desideroso di
espiare la colpa di avere disatteso per tre giorni e tre notti Naciketa che, nonostante di soli nove
anni, era stato preannunciato da una voce incorporea come saggio brahmano. Yama pensò che Naciketa
fosse stato trascurato per disposizione divina, perchè Yama non trascura nessuno, neanche i
criminali, dei quali si prende cura con equanimità. Yama infatti viene detto anche Dharmaraja, re
del Dharma, Signore del Dharma o personificazione del Dharma e della morte. Nella Tradizione
vedico-vaisnava, la morte è infatti vista come giustizia personificata. E poichè il termine Dharma
traduce anche i concetti di giustizia e di religiosità, Yama non è solo la morte ma anche la
giustizia e la religiosità personificate, oltre ad essere uno dei dodici grandi saggi, i mahajana.
Ma proprio in qualità di Supremo giudice, cioè di colui che conosce il Dharma meglio di chiunque
altro nel mondo materiale, sentì di aver commesso una grave offesa verso il bambino-bramano. Per
questo gli offrì tre doni: “Mi dispiace che tu sia stato trascurato per tanti giorni. La colpa è mia
e vorrei poterla espiare: permettimi di offrirti tre doni, che sarai tu stesso a scegliere”.
Accettate le scuse e l’offerta di Yama, Naciketa come primo dono chiese: “Concedimi di ritornare a
casa, ma a condizione che mio padre mi conceda il perdono e che nutra per me profondo affetto, e a
condizione che non si spaventi quando mi vedrà tornare”.

I dipartiti di solito tornano nei luoghi in cui ebbero vissuto nella loro vita mortale, ma in una
forma spettrale, che terrorizza parenti e amici, anzichè soddisfarli e renderli felici; perciò la
prima assicurazione che il bambino saggio chiese fu che il padre non si spaventasse, ma che, al
contrario, l’accogliesse con cuore aperto, con affetto. “E sia” disse Yamaraja “farai ritorno alla
dimora di tuo padre.” Yamaraja si convinse di poter ripagare presto il proprio debito, preservando
la sua fama di “senza macchia” con questi tre doni, con i quali mondava l’errore commesso
disattendendo un ospite. Concesse dunque la prima grazia con grande piacere. Era soddisfatto di
sdebitarsi, perchè effettivamente aveva mancato di rispetto avendo tenuto sulla soglia di casa
questo illustre ospite, fra l’altro offerto in sacrificio. Naciketa infatti non era giunto nella
dimora di Yama per il karma di sue attività colpevoli ma in quanto “oggetto consacrato”, quindi
spinto dalla forza scaturita dal sacrificio (yajña) eseguito dal padre e dagli altri sacerdoti. Yama
fu molto soddisfatto di corrispondere questo dono al bambino brahmano, e disse: “Bene, ora il
secondo dono, il primo ti è già stato concesso. Tuo padre sarà felice, ti abbraccerà, dormirà sonni
tranquilli; sarà soddisfatto di rivederti, ti accetterà con grandissimo affetto e sarà completamente
in pace con te. Avanti, procedi con il secondo dono, chiedimi”. Naciketa allora cautamente cominciò
a dire: “Io so che esistono dei mondi nei quali la vita è estremamente piacevole, nei quali delle
cinque fasi dell’esistenza incarnata: nascita, fanciullezza, gioventù, vecchiaia e morte, non si
conoscono nè la vecchiaia nè la morte. Io so che tu non hai il potere di estendere il tuo dominio su
quei mondi”. E mentre poneva la domanda, mentre descriveva le caratteristiche del dono che avrebbe
desiderato ricevere, poneva anche particolare attenzione alle impressioni che suscitava, parola dopo
parola, nell’animo di Yama. “E so anche che i brahmani raggiungono quei mondi attraverso il
compimento di un particolare sacrificio: la cerimonia del fuoco sacro.

Io ti chiedo di rivelarmi il segreto, l’arcano, il mistero di questa cerimonia del fuoco, di questo
atto sacrificale che libera dal tuo dominio”. Yama, dopo qualche istante di riflessione, rispose
sorprendentemente che anche lui, nel passato, per ottenere la propria posizione di amministratore
della giustizia aveva usufruito degli effetti della cerimonia del fuoco sacrificale. Dopodichè
proseguì: “Bene, ti inizierò alla dottrina segreta dei tre fuochi(4), i quali sono tre sacrifici
che, eseguiti uno dopo l’altro, ti permetteranno di trasferirti sui pianeti celesti”. Dopo che
Naciketa fu convenientemente ammaestrato, Yama aggiunse: “Ti concedo un ulteriore dono: poichè
questi tre fuochi li sto consegnando a te per primo in questo ciclo di umanità, d’ora innanzi si
chiameranno Trinaciketa.”Tutt’oggi in numerose opere della Tradizione (Smrti) e della Rivelazione
(Shruti) ritroviamo questo triplice sacrificio del fuoco chiamato Trinaciketa. Si fa risalire la
denominazione di questo atto sacrificale a quanto accaduto fra Yama e Naciketa, di cui stiamo
narrando(5).
In realtà Yama sapeva bene che i deva, abitanti dei pianeti celesti, non sono veramente immortali e,
come dedurremo dal terzo dono richiesto, anche Naciketa lo sapeva. Benchè fosse consapevole che col
primo e col secondo dono non avrebbe ottenuto l’immortalità, aveva chiesto di tornare sulla Terra,
un pianeta mediano, e di lì salire sul piano più elevato del sistema planetario, sui pianeti Svarga.

Nella Katha Upanishad è testualmente ed esplicitamente affermato che il tipo di amrita (immortalità)
concessa a Naciketa col secondo dono in realtà non equivale all’amrita della liberazione vera e
propria, pur essendo una vita estremamente lunga, in cui le morti e le rinascite non si susseguono
al ritmo incalzante di quelle umane ma coprono iati di tempo straordinariamente lunghi, tali da
apparire come immortali anche a coloro che vivono cicli lunghissimi di vita. Infatti, non essendoci
malattie e morte, si potrebbe azzardare: “Perchè non diciamo che i deva sono immortali? Se abbiamo
detto che sui pianeti Svarga esistono soltanto le prime tre fasi dell’esistenza: nascita,
fanciullezza e giovinezza, allora perché diciamo che non sono veramente immortali?” E’ vero che come
deva non muoiono, ma muoiono poi da umani: quando si sono esauriti i punya, i risultati meritori
delle loro attività precedenti, questi esseri ricadono infatti di nuovo sui pianeti mediani,
terrestri (bhuh), o persino su quelli inferiori; di solito però accade che dai pianeti celesti
ricadano sui pianeti mediani come la Terra. Naciketa in realtà stava solo accortamente avvicinandosi
alla richiesta del terzo ed ultimo dono. Yama, dal canto suo si sentiva profondamente felice perchè
aveva appena concesso il secondo dono con magnanimità ed aveva addirittura aggiunto che lui stesso
si era guadagnato il suo alto incarico eseguendo i riti legati a questi tre fuochi, che egli stesso
aveva appena definito Trinaciketa.

Yamaraja aveva quasi ripagato il debito, aveva già soddisfatto due terzi delle disponibilità
concesse. Quale sarebbe stato il terzo dono? Con il secondo Naciketa aveva avanzato una richiesta di
qualità decisamente superiore a quella del primo; e nel formulare la terza richiesta cominciò: “Ho
sentito parlare della morte. Alcuni dicono che quando uno è morto scompare, mentre altri dicono che
quando uno è morto ricompare in un’altra dimensione. Chi muore scompare; chi muore compare in
un’altra dimensione. Queste sono le due opinioni più diffuse fra gli uomini. Io da te voglio
conoscere il mistero della morte, voglio sapere la verità, tutta la verità sulla morte. Ciò mi serve
per formulare bene la richiesta del terzo dono, perchè io desidero l’immortalità, quella vera,
quella al di là del tuo dominio. Io voglio diventare immortale, non come i deva che alla fine,
quando si distruggono i mondi, anche loro sono soggetti alla dissoluzione. Io voglio diventare
immortale. Voglio che tu mi riveli il segreto dell’immortalità”. Yama a questo punto apparve
visibilmente contrariato dalla domanda che gli era stata posta, e cercò di sviare il bambino
lusingandolo con altre proposte, per cui gli rispose: “Questo no. Chiedimi qualunque altra cosa, ma
dimentica ciò che mi hai appena chiesto. Dimenticalo, perchè immortali non lo sono nemmeno i
cosiddetti immortali.

Si chiamano immortali ma in realtà non lo sono. Vengono definiti così perchè vivono quanto dura la
manifestazione del loro mondo: nascono con quei mondi e con quei mondi si dissolvono. Ecco perchè
vengono definiti immortali.” Col termine ‘immortali’ si vuol dare l’impressione di una vita
spropositatamente lunga, tale che agli occhi degli umani i deva appaiono come fossero immortali,
come gli umani agli occhi di una farfalla. Le farfalle di solito vivono dieci, quindici o venti
giorni, quindi sarebbe difficile far loro intendere appieno la realtà di una vita che duri cento
anni: meglio dire che gli umani sono immortali. Ma gli umani immortali non sono; e nemmeno i deva
sono immortali. Naciketa l’aveva capito e non desiderava diventare solo un deva, desiderava
diventare immortale. Questa fu dunque la sua terza richiesta. Yama tentò di scoraggiarlo in tutte le
maniere per cui rincarando l’offerta, disse: “Non mi infastidire più con questa domanda. Di grazia,
scegli fra tutto quello che ti posso offrire”. Yama giunse a proporre a Naciketa di scegliere
diversi cicli di esistenza, promettendogli che glieli avrebbe concessi. “Ma non l’immortalità; di
questo non far parola. Perchè mi tormenti?” Intanto andava delineandosi con sempre maggior
precisione la saggezza di Naciketa, per nulla attratto dai doni offerti da Yama.

Questi però ancora rincarando disse: “Ti posso dare carrozze bellissime, meravigliose fanciulle,
posso farti vivere il numero di anni che desideri, posso metterti in grado di estendere il tuo
dominio per ogni dove… ti darò i pianeti più alti, i più elevati; potrai estendere il tuo dominio,
ma della morte non venga fatta parola alcuna. I grandi deva, le grandi personalità che governano
l’universo e le sue ferree leggi, incontrano grandi difficoltà nel capire questo fatto. E’ così
inafferrabile e così controverso che è meglio non farne parola. Sii soddisfatto con quel che ti ho
offerto.” E continuò ad offrire beni mondani a Naciketa, affinchè si ritenesse pienamente
soddisfatto: “Ti darò un regno tanto vasto che nemmeno potrai conoscerne i confini, ti darò potere e
sovranità su tutti, ti darò cantori dalla voce soave, destrieri alati, donne bellissime,
affascinanti…”. Dopo avergli offerto svariati beni d’ordine mondano e varie fonti di piacere, Yama
si scoraggiò profondamente perchè, osservando il viso di Naciketa, si rese conto che non era in
grado di esercitare nessun tipo di influenza su di lui; infatti Naciketa, appena poté replicò:
“Tieniti pure cocchi e destrieri; tieniti pure le belle fanciulle, i canti e le danze; tieniti pure
quelle belle fanciulle che alla fine consumano il vigore, non lasciando altra possibilità che quella
di cadere in tuo dominio. Tutte queste cose mi distrarrebbero. Ciò che tu mi offri consumerebbe
vanamente il mio tempo. Non sono interessato alle ricchezze. Solo uno stolto si lascerebbe
abbagliare dal piacere dei sensi, dalle belle fanciulle, dalle ricchezze, da ciò che è perituro ed
effimero.

Chi mai, se è saggio, trovandosi in una condizione di degrado e tristezza, destinato ad invecchiare
e morire, mentre sa che esistono coloro che nè invecchiano nè muoiono e li ha contemplati, pensando
ai fugaci piaceri della bellezza e dell’amore chi mai si compiacerebbe di una vita lunghissima? Chi
mai, se è saggio? Il saggio antepone il bene al piacere. E’ lo sciocco che preferisce il piacere.
Gli stolti restano abbagliati dalle gioie effimere del piacere dei sensi mentre i saggi cercano di
conseguire un’esistenza di eterna beatitudine(6). Io non voglio distrarmi, non voglio impegnarmi in
attività che non siano in grado di garantirmi la libertà dalla morte perchè quando mi ritroverò nel
mezzo di attività, pur piacevoli che siano, d’un tratto arriverai tu e dirai: ‘Ora basta.’ Chi è
saggio aspira all’immortalità, aspira a vivere la beatitudine eternamente. Hai promesso tre doni:
ora, se intendi mantenere la tua promessa, di grazia, svelami il mistero della morte”. Il dialogo
fra Yama e Naciketa, quello vero, spirituale, sul piano metafisico, ebbe inizio in quel preciso
istante. Prima altro non fu se non una sorta di negoziazione di beni materiali, che potevano sì e no
garantire la felicità sulla Terra o al massimo sui mondi celesti. Naciketa mostrò le caratteristiche
tipiche del brahmacari, del saggio, dello spiritualista, che è completamente disinteressato a
benefici effimeri. E Yama dovette riconoscere che, nonostante avesse un corpo da bambino, di fronte
a lui si trovava una grande personalità, un grande saggio. E come tale lo trattò. Infatti Yama
cambiò completamente tono, usò un altro linguaggio, altre parole, quasi un’altra costruzione
verbale, e gli disse: “Bene, mi rendo conto che tu sei un’anima speciale, capisco che hai tutte le
qualificazioni per diventare un sadhaka(7), un adhikari(8), una persona determinata a fare solo quel
che va fatto e a non concedersi nessuna distrazione. Queste sono le uniche, le sole caratteristiche
e la sola condizione in base alle quali io posso effettivamente rivelarti la scienza sacra della
liberazione.” E cominciò a spiegare.

Sappi che l’atman è il padrone del carro e che il corpo è il carro, sappi che la ragione poi è
l’auriga e la mente le redini.
I saggi chiamano cavalli i sensi, gli oggetti dei sensi sono l’arena, la [personalità condizionata] composta di anima, di sensi e di mente la chiamano il fruitore.
Colui che non possiede la ragione e non ha mai la mente ben controllata,
costui ha sensi indocili,
come un auriga che abbia cavalli cattivi.
Ma colui che possiede la ragione e ha la mente sempre concentrata, costui ha sensi docili, come un
auriga che ha cavalli buoni.
Colui che è privo di ragione, senza criterio, sempre impuro,
costui non giunge alla sede [suprema] ma ricade nel ciclo delle esistenze.

Ma colui che è dotato di ragione e di criterio ed è sempre puro,
giunge a quella sede da cui non più si ritorna alla vita.
L’uomo che ha come auriga la ragione e come redini la mente,
costui giunge al termine del cammino, alla sede altissima di Vishnu.
Superiori ai sensi sono infatti gli oggetti [che determinano le sensazioni],
superiore agli oggetti è la mente, superiore alla mente è la ragione, superiore alla ragione è il
grande atman [individuale](9).
Superiore al grande [atman] è [l’elemento primordiale] non evoluto, al non evoluto superiore è il
Brahman, superiore al Brahman non v’è nulla: esso è lo scopo, esso è il rifugio supremo. Nascosto in
tutte le creature, questo Spirito non si palesa, ma si fa percepire da coloro che acutamente
indagano con sottile, alta intelligenza. Il saggio soggioghi parola e mente; soggioghi poi [la mente
facendola rientrare nella ragione,; soggioghi la ragione [facendola rientrare] nel sé, poi nell’
atman quieto.
(Katha Up. III.3-13)

(1) Nella Katha Upanishad la storia di Naciketa viene narrata per sommi capi, mentre nella
Taittiriya Brahmana risultano estremamente più ampie ed approfondite sia la narrazione degli eventi,
che vedono protagonisti Naciketa e Yama, che la spiegazione delle cause originarie.

(2) J. Miller, op. cit., p. 154.

(3) Formule di offerta nell’ordine rivolte a: Indra, Signore delle acque celesti; Varuna, Signore
delle acque terrestri; Candra, deva della Luna; Surya, deva del Sole.

(4) Diverse cerimonie sacrificali.

(5) Questi sacrifici costituiscono una cerimonia complessa di cui, nella Taittirya Brahmana, in una
certa misura viene spiegata anche l’esecuzione. Oggi però questi sacrifici sono completamente
inaccessibili poiché, con il progredire di Kaliyuga, mancano i sacerdoti che abbiano la purezza e
l’esperienza necessarie; vedi p. 48 e segg..

(6) Katha Up. IV.1,26.

(7) Lett. ‘Colui che segue la disciplina, sadhana’.

(8) Lett. ‘Colui che ha comptenza, adhikara’.

(9) Cfr. lo stesso verso in Bg III.42, con l’unica differenza che mentre nella Katha Up. la materia
è definita superiore alla percezione (“superiori ai sensi sono … gli oggetti”), al contrario nella
Bhagavadgita sono i sensi ad essere definiti superiori alla materia non senziente.

da scienzaespiritualita.blogspot.com/

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