di Gragg Braden
Uno dei più grandi doni che ci siano stati tramandati dalla tradizione degli
antichi Esseni è un codice verbale che ci dà l’opportunità di affrontare con
grazia le esperienze di vita che ci feriscono più profondamente…
Questa storia parla di Gesù di Nazareth e della guarigione. La storia
racconta di una donna di cui Gesù si occupò e di come Egli scelse di
rispondere alle sue richieste. Quando leggiamo questi testi è interessante
scoprire che non tutti coloro che richiesero l’aiuto di Gesù furono
guariti.
Egli poneva loro due domande e, a seconda delle risposte che davano, le
persone potevano beneficiare o meno della guarigione.
La prima domanda era: “Credi in me? Credi in mio Padre?”
Pensate a quel punto della Sua vita Egli non faceva distinzioni tra Sé
stesso e il Padre Celeste. Pensateci! Nessuna distinzione.
Nel nostro linguaggio, basato sulla separazione, quando furono fatte le
traduzioni, qual è la preghiera più potente che ci è stata data in
Occidente?
Certo, notate la risposta che è stata data: la chiamiamo la preghiera del
Signore. Il Signore di chi?
Le tradizioni Essene la chiamano la preghiera del Padre nostro. Qual è la
prima frase completa di quella preghiera?
“Che sei nei cieli” – esatto.
Qual è la traduzione occidentale?: “Padre nostro che sei nei cieli”: ecco la
separazione: nostro Padre è in cielo, noi siamo quaggiù. Questa non è la
versione originale in aramaico che dice: Padre nostro che sei ovunque!
Quindi il nostro linguaggio ha un ruolo potente e per questo che vi invito
ad esplorare molti sentieri quando rivolgete la vostra attenzione verso le
lingue.
La storia in cui Gesù dice : “Credi in me e credi in mio Padre?” l’ho letta
in quella lingua perché Gesù a quel punto vedeva solo la possibilità di
un’unione
tra loro.
La persona rispondeva “si” o “no”.
Poi Gesù faceva la seconda domanda: “Cos’hai imparato attraverso la tua
malattia?” “Cosa hai imparato dalla malattia?” Perché la gente di solito
chiedeva di venir guarita da malattie.
Questa particolare storia mi affascina perché c’era una donna che era
lebbrosa dalla nascita, oggi non ci sono molti lebbrosi in quel paese, ma
una volta ce n’erano parecchi.
La donna che aveva sempre provato rabbia verso la sua malattia rispose:
“Cosa intendi dire con “cos’hai imparato?” Non ho imparato niente! C’è stato
un errore, io non dovevo nascere malata. Sono così orrenda che non ho mai
avuto un amico, non ho mai conosciuto un uomo. Sono così orrenda che
perfino gli animali scappano quando mi vedono. Guariscimi tu da questo
male! “
Gesù le rispose: “Se non hai appreso nulla dalla tua malattia, non ti resta
che morire e conoscere te stessa attraverso la morte”
Le disse così perché l’amava fino a quel punto. Quello era
l’inizio
della compassione. Gesù non aveva nessun attaccamento al risultato.
Avrebbe potuto subire pressioni psicologiche dalla presenza dei suoi
seguaci, avrebbe potuto essere in Galilea e aver pensato: “Ci sono
diecimila persone dietro a me e davanti a me c’è una donna che mi sta
chiedendo di fare qualcosa, devo sbrigarmi a fare qualcosa subito!”
Invece no, il suo pensiero non seguì la logica. Egli l’amava e lei aveva –
dalla nostra prospettiva – accolto, creato quella malattia nella sua vita
per mezzo della sua maestria in modo da poter conoscere sé stessa. Se non
le era servito, perché portargliela via? Questo è pensiero senza
attaccamento al risultato.
Alcuni anni fa la televisione ci ha resi testimoni di una tragedia accaduta
già troppe volte nel mondo nel piccolo stato del Ruanda.
I telegiornali mostrarono le immagini di circa 10.000 civili massacrati dai
propri connazionali sulle strade di quel paese.
Quella sera ero con un gruppo di amici: eravamo in quattro, proprio il
gruppo giusto perché ho avuto la possibilità di osservare gli altri tre e di
cogliere dal vivo le loro reazioni. Mentre il telegiornale era in onda ho
chiesto ad una donna del gruppo cosa provava: era furiosa e, battendo il
pugno sul tavolo, mi disse: “E’ ridicolo, quando la smetteremo? Quando
manderemo i marines ad uccidere i soldati che hanno massacrato i civili,
perché non li fermiamo?”
Era presente anche un uomo che era stato in contatto con la filosofia della
Nuova Era e chiesi anche a lui che cosa provava. Mi rispose:
“Come? I Ruandesi? Loro lo sapevano che sarebbe accaduto: era il loro
karma. A qualche livello, quando sono nati, sapevano che sarebbero morti in
quel modo. La morte in realtà non esiste. E’ quasi ora di cena, mangiamo
qualcosa?”
Lui non provava niente.
La terza persona era una donna, che si era alzata ed era andata in cucina.
Io la seguii e le chiesi: “Che significato ha per te il dramma che abbiamo
appena visto?”
Lei si girò ed aveva le lacrime agli occhi mentre diceva: “Non lo so. Non
voglio che muoiano dei soldati, perché quel modo di pensare è lo stesso che
ha causato la morte dei civili. Non credo neanche che dovremmo mandare i
marines. Non voglio che ci siano altre vittime. Anche se non ho mai
conosciuto quella gente, provo un senso di vuoto in seguito alla loro
scomparsa. Il fatto che loro non siano più qui mi fa sentire diversa.”
Quello è l’inizio della compassione.
La prima donna era nella polarità: provava rabbia, era nello stesso tipo di
polarità che aveva permesso alla tragedia di accadere.
L’uomo invece era in uno stato di diniego, perché quello che aveva visto lo
aveva ferito ad un livello talmente profondo che non aveva permesso a sé
stesso di sentirlo, quindi aveva razionalizzato l’esperienza.
L’altra donna, invece, aveva permesso a sé stessa di provare sentimenti, e
nel far questo aveva aperto le porte alla compassione.
Come fate a sapere se siete in uno stato di diniego o se invece provate un
amorevole distacco?
Potete porvi una semplice domanda e se non provate nulla quando siete
testimoni di un’offesa o di una tragedia come quella, c’è una buona
possibilità che ne siate rimasti talmente feriti da rifiutare l’evento.
Se invece provate dei sentimenti verso ciò che è accaduto e se non cercate
una compensazione del tipo: “Ora siamo pari” oppure “qualcuno deve pagare”,
allora non siete nella polarità. In tal caso vi permettete di sentire e se
siete in grado di dire a voi stessi: “Sento un vuoto per la scomparsa di
quelle persone, questo non doveva succedere.” E se c’è la sensazione che si
sia realizzato un equilibrio, allora forse voi siete alle porte di ciò che
chiamiamo compassione.
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