LA SCIENZA DELLA MEDITAZIONE 1

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LA SCIENZA DELLA MEDITAZIONE

PARTE PRIMA: Intervento di Marco Ferrini. Napoli, Castello Angioino, 20 Dicembre 2008, Convegno “La
Scienza della Meditazione”.

L’UOMO ALLA RICERCA DELLA PROPRIA IDENTITA’

Vorrei porre innanzitutto attenzione su alcuni aspetti cosmogonici, per la comprensione del contesto
in cui si colloca l’uomo. L’uomo moderno non sa più da dove viene, non sa più dove sta andando, ma
soprattutto non sa più chi è, completamente identificato con un’identità esteriore e temporanea.
Questa sua decontestualizzazione è uno dei problemi più seri che affligge la società attuale e non è
risolvibile semplicemente attraverso l’erudizione. La ricerca di se stessi rappresenta il substrato
della meditazione e questo è confermato dalle grandi opere della Tradizione Indovedica come le
Samhita, le Upanishad, le Itihasa ed i Purana, che possono avere un dialogo molto interessante con
la Tradizione Occidentale moderna. Tra i numerosi autori, maestri di pensiero che hanno attinto
dalla vastissima Cultura vedica strumenti, spunti e concetti per le loro dottrine e teorie, possiamo
citare Carl Gustav Jung e la sua “individuazione di sé”. Individuare se stessi significa conoscere
la nostra natura profonda, non limitarsi ad un livello superficiale e fallace quale quello della
percezione sensoriale.

I segnali e le informazioni che dall’ambiente esterno giungono alla nostra coscienza, attraverso gli
organi di senso e la successiva elaborazione a livello corticale, rappresentano solo una minima
parte della realtà, persino inferiore al 10% indicato dal prof. Genovesi durante l’intervento
precedente. La conoscenza della realtà rispetto alla percezione sensoriale è uno zero ed è lo stesso
anche per quanto riguarda la nostra capacità di comprensione poiché è soggetta, e dunque
condizionata, dalla nostra percezione sensoriale. Dunque non solo i sensi (indriya) sono fallaci, ma
anche il bacino di raccolta delle informazioni percettive corrispondente alla mente (manas) è così,
proprio perché si fonda sulla percezione sensoriale. La tendenza (vasana) della mente a dipendere
dai dati sensoriali, porta alla costituzione di una precostituita, rigida e generalmente strutturata
percezione del mondo, che se non viene integrata non è utile alla definizione dell’identità
individuale. La questione sulla natura dell’identità personale è cruciale per la meditazione. La
psicologia indovedica identifica l’uomo nel suo complesso: così come l’universo è detto anche
trimundio in quanto costituito da terra, dimensioni intermedie e cielo, allo stesso modo anche
l’uomo incarnato ha una triplice natura: fisica, psichica e spirituale. La costituzione terrena,
solida, fisica, è il corpo materiale, comprensivo di quella complessa struttura – la più complessa
struttura materiale ad oggi conosciuta – che è il Sistema Nervoso; ma possiede anche un apparato
che, sebbene sempre materiale, ha una natura più sottile, che non è possibile definire graficamente
o collocare spazialmente e a dire il vero neanche misurare temporalmente: la struttura psichica.

Infine vi è la natura più intima dell’uomo, motore della vita stessa, la sua essenza e identità
reale, quella spirituale. Secondo la sapienza vedica, infatti, ogni essere vivente è ontologicamente
atman, una scintilla spirituale eterna. Per semplificare ulteriormente si potrebbe dire che
l’identità dell’uomo è scissa fra due aspetti: l’uno connesso alle diverse condizioni psicofisiche
che il soggetto ha vissuto storicamente lungo i diversi cicli esistenziali, l’io storico o falso
ego, somma dei contenuti psichici con i quali il soggetto si identifica, in sanscrito definito
ahamkara; l’altro reale, eterno ed immutabile, oltre ogni spazio e tempo, ovvero la sua natura
spirituale. La facoltà base per accedere alla dimensione meditativa è rappresentata dall’attenzione
che, contrariamente a quanto affermato dall’estremo positivismo abbracciato dalla moderna psicologia
occidentale, non è governata dal Sistema Nervoso, ma è promossa in prima istanza dall’atman, centro
unificatore che tiene insieme e che in ultima analisi fornisce una caratterizzazione unica e
irripetibile alla personalità. Il sé spirituale utilizza solo come strumento la parte fisiologica e
biologica del soggetto cosiddetto “umano”, alimentando e muovendo le sue energie. Tutte le Scuole
della tradizione indiana classica (Sampradaya), tutte le linee dei grandi Maestri (acarya) che hanno
vissuto nel proprio quotidiano gli insegnamenti vedici, riconoscono l’atman come principio
fondamentale. Krishna, nella Bhagavad-gita, uno dei testi più diffusi e condivisi dalle differenti
Scuole di pensiero del continente indiano, definisce conoscenza ciò che distingue il campo (corpo)
dal conoscitore del campo (il sé). Prendere le distanze dal corpo non significa rifiutarlo o
dispregiarlo; in tal modo non se ne prenderebbe vero distacco in quanto, come anche Eraclito aveva
spiegato, ciò che attrae poi ripugna e viceversa e per superare la coppia di opposti di attrazione e
repulsione, in sanscrito definiti rispettivamente raga e dvesha, è necessario equilibrare gli
opposti, trovare una congiunzione, un’armonizzazione tra di essi. In quest’opera di armonizzazione e
ricerca di equilibrio, in questo caso lo Yoga, viene data rilevante importanza alla meditazione.

DAL PENSIERO AUTOMATICO AL PENSIERO MEDITATIVO

Il pensiero ha una potenza straordinaria; ovviamente qui non ci si riferisce al pensiero
disordinato, casuale e automatico che purtroppo imperversa nella società contemporanea, bensì a quel
principio pensante che consente di superare gli ostacoli che generalmente precludono una
comprensione più profonda della realtà, sia interiore, sia esteriore. Effettivamente, oltre ad aver
smarrito la propria identità, l’uomo moderno si trova a conoscere solo superficialmente il mondo che
lo circonda e vive come realtà ultima ciò che in verità è principalmente apparenza. Attraverso uno
sforzo piacevole e un impegno progettuale, con metodo e giusta predisposizione, è possibile
penetrare il fitto velo delle apparenze, giungendo ad una visione superiore, ed è proprio questo il
fine della meditazione. La meditazione è uno strumento, un mezzo, grazie al quale è possibile fare
un viaggio esplorativo all’interno di se stessi, varcando soglie, dimensioni sconosciute, ciò che in
una terminologia psicanalitica potrebbe definirsi inconscio. Sebbene questa esperienza sia già di
per sé straordinaria, il processo meditativo non si limita a ciò. In sanscrito meditazione si
traduce con dhyana, dalla radice dhi, dalla quale deriva anche il termine dhira che significa
‘saggio’. La peculiarità di questa radice è quindi quella di indicare non un pensiero semplice,
automatico, che si riproduce come una sorta di circuito psichico dipendente o condizionato
dall’esperienza sensoriale e nemmeno un pensiero intellettuale, comunque troppo riduttivo, bensì di
indicare un pensiero che suscita una visione superiore, da cui si genera illuminazione e in ultima
analisi saggezza. Dunque il processo di meditazione non è un semplice processo di pensiero, una mera
riflessione, ma piuttosto una trasformazione, una modificazione del principio pensante. La
concatenazione di pensieri e le conclusioni che ne derivano, limitano la nostra visione al mondo
delle conoscenze empiriche, della percezione sensoriale e anche a quel mondo più sottile, ma pur
sempre materiale, della cognizione intellettuale.

La meditazione può portare ad esperienze interiori cui l’intelletto non giunge, la percezione delle
quali esula persino dalla sua funzione. Il mondo interiore è dominio di altre dinamiche, quali
contemplazione, orazione e preghiera. Questi tre termini condividono un principio importante: quello
cioè di orientare l’attenzione verso un punto specifico, di dirigere il flusso mentale verso
l’oggetto di contemplazione, lode o preghiera. Dunque anche se i processi sottesi da questi tre
canali possono differire per alcuni aspetti, quando l’operazione di condensazione del pensiero verso
il punto prescelto riesce, si entra in stato meditativo. Patanjali ha descritto una tecnica ordinata
per giungere a dhyana, per trasformare il pensiero automatico, prodotto dalla mente, manisha, in
pensiero meditativo: proprio come si può trasformare del legname ordinario in sofisticato materiale
per costruire una barca. Tale trasformazione non può avvenire se non attraverso un investimento
personale, con impegno, operosità e creatività e, una volta ottenuta, sarà possibile travalicare il
pensiero ordinario giungendo ad una dimensione più profonda, ad esso non accessibile, proprio come
per mezzo di una barca sarebbe possibile solcare le acque approdando ad una diversa sponda. Il
raggiungimento di questa dimora in cui l’uomo può trovare se stesso ed il proprio principio Divino,
portandosi oltre la comune esperienza sensoriale e concettuale, si definisce trascendenza, così come
espressa dai mistici e da eminenti pensatori quali Kant e Jung. Questo viaggio, che in chiave
mitologica vede l’entronauta, colui che viaggia nell’interiorità, dirigersi verso dimensioni sempre
più profonde ed intime di sé, ha una componente importante, che è la motivazione del viaggiatore.
Non tutte le esperienze meditative conducono allo stesso livello di assorbimento o di illuminazione:
in base a differenti aspirazioni, gusti e tendenze che contraddistinguono il protagonista, il
viaggio può avere differenti esiti e quindi i mistici possono riportare esperienze diverse
nonostante tutti loro, a vario livello, abbiano fatto questa esperienza. Solo proseguendo verso
questa dimensione più profonda, gusti e tendenze derivanti da condizionamenti culturali o religiosi,
perdono progressivamente la loro consistenza annullandosi, ma in base al livello di elevazione
raggiunto dalla persona, possono ancora sussistere generando esperienze di diversa natura. Com’è
possibile quindi trascendere il pensiero? Attraverso il pensiero stesso, ma non il pensiero con il
quale si è iniziato il processo, poiché nel frattempo si è modificato, sia formalmente, sia nella
sua natura, quasi come fosse avvenuta, grazie alla meditazione, una transustanzazione del principio
pensante. Tale processo non è immediato, ma avviene per gradi, che si possono trovare descritti nei
Veda, con un linguaggio straordinariamente affascinante, che parla per immagini, per metafore, come
quella del carro che durante il viaggio diviene luminoso proporzionalmente all’avvicinarsi della
realtà.

YOGA: LA SCIENZA DELLA UNIONE

Il termine Yoga deriva dalla radice sanscrita yuj che letteralmente significa ‘unire, collegare’; lo
Yoga infatti costituisce la scienza per la reintegrazione del sé individuale con il Sé supremo,
della coscienza infinitesimale con la Coscienza cosmica. Nella Bhagavad-gita vengono descritti
diversi tipi di Yoga e Patanjali nel suo celeberrimo trattato sugli Yogasutra, che costituisce una
delle prime e più importanti Scuole di psicologia del genere umano, definisce otto fasi di sviluppo
della disciplina Yogica (Ashtanga Yoga) di cui la meditazione, dhyana, costituisce solo la penultima
fase. Prima di entrare in uno stato meditativo, l’aspirante yogi deve infatti purificare la propria
mente ed il proprio cuore astenendosi da attività contrarie all’evoluzione spirituale, yama, e
impegnandosi in attività ad essa favorevoli, niyama. Si deve poi diventare esperti nell’assumere
posture, asana, che permettano di percepire il corpo il meno possibile e successivamente apprendere
l’arte del respiro, pranayama. Rivolgendosi verso l’interno e distogliendo i sensi dai loro oggetti,
pratyahara, cercando di concentrare le proprie risorse attentive verso un’unica direzione, dharana,
lo yogi si predispone alla meditazione vera e propria, dhyana appunto, in cui il proprio flusso di
attenzione non è più distratto da interferenze esteriori e grazie alla quale egli giungerà ad uno
stadio di completo assorbimento interiore definito samadhi. Gli stadi precedenti il samadhi sono
necessari per risolvere i conflitti tra le diverse strutture e funzioni psichiche, attraverso una
armonizzazione della personalità, prima di aspirare ad un totale assorbimento nel seme meditativo,
bija, e che dire nel sé.

L’approccio alla meditazione dev’essere graduale, poiché prima si devono sviluppare certe conoscenze
derivanti dalla presa di consapevolezza di piccole verità, senza avere la presunzione di avere di
volta in volta conquistato la Realtà, la Verità e dunque essersi illuminati definitivamente. Quella
che avviene durante la meditazione è una realizzazione continuativa e progressiva della Realtà, che
lentamente si svela fino a diventare palese, manifesta, chiara e naturale, talmente naturale da non
poter concepire qualcosa di differente da essa. Ad esempio, per quanto riguarda la consapevolezza di
essere diversi dal corpo, essa può avvenire in modo immediato, come nel caso di una diagnosi di
malattia terminale, di una patologia irreversibile e degenerativa, che spinge il paziente a non
concentrarsi sulla struttura fisica oggetto di quella devastazione, ma su se stesso. In
quest’ottica, come riportato in numerosi lavori ECM tenutisi in numerosi ospedali e AUSL italiani,
la morte non dev’essere vista come un evento fisico, qualcosa di concreto, ma più come un concetto
astratto, in quanto non c’è veramente una fine di qualcosa, bensì c’è la trasformazione in
qualcos’altro. Oppure, la disidentificazione avviene come progressivo traguardo di un processo
introspettivo che permette la comprensione del corpo come qualcosa che è esterno a noi, con il quale
quindi non essere identificati ma come strumento prezioso, utile e caro per successive conoscenze ed
esperienze.

L’ESSERE SPIRITUALE ED I SUOI CORPI

Il corpo umano e la personalità umana non esauriscono la persona nel suo insieme, ma ne
costituiscono semplici aspetti. La parte eminentemente divina di noi considera tali aspetti, quindi
in generale la dimensione umana, come una riduzione, una costrizione, una sorta di prigione; nella
metafora platonica la gabbia dell’anima, che tuttavia non va vista come qualcosa di ossessivo e
oppressivo, in quanto struttura evoluta della materia il cui grado di evoluzione è pari al grado di
elevazione della coscienza che ospita. Dunque ognuno abita un determinato corpo e, con esso, è
portatore di una certa patologia o veicolo di salute. La scienza della salute o Ayurveda (il termine
sanscrito ayur significa vita, vigore, salute) affronta in maniera molto dettagliata lo studio della
natura dell’essere umano e del suo rapporto con tutta una gamma di energie; essa estende il panorama
di interazione corpo, psiche e coscienza intraindividuale ad un piano interindividuale, dunque il
comportamento, l’agire del singolo, viene visto come esito non solo del proprio apparato
individuale, ma anche dell’interazione di questo con corpo, psiche e coscienza altrui. Quest’ultimo
dato è molto importante perché ad esso possiamo ricondurre molti dei conflitti che attualmente
affliggono l’uomo, sia a livello singolo, sia a livello collettivo, in quanto spesso, la
conflittualità che non si riesce a risolvere interiormente la si proietta fuori, sulle persone che
ci circondano, vicine o lontane che siano. La connessione tra i diversi elementi del creato, non è
riducibile esclusivamente alle relazioni, ma permea l’Universo intero: basti pensare al Teorema di
Bell, il quale enuncia che due particelle in contatto, partecipi della medesima esperienza,
permangono in risonanza ed in sincronia anche quando vengono separate ed attuando una modifica su
una di esse, tale variazione si estende anche all’altra istantaneamente, in tempo zero.
Nell’Universo non vi è quindi niente che sia separato da qualcos’altro: ogni cosa è in rete, e, come
nel micro possiamo identificare reti, circuiti neurali, nel macro è possibile individuare reti molto
più ampie al di là dell’individuo come singolo. Nei Veda, nella Gita, nelle Upanishad, negli
Yogasutra e in altri testi della Tradizione indovedica, è possibile trovare descritti con
incredibile specificità di linguaggio questi concetti ed in generale vi si ritrova la visione
dell’uomo come creatura composta da più “corpi”, strati, che vanno dal più grossolano al più sottile
e non si limitano ai soli corpi materiale e psichico.

Nello schema soprariportato è possibile notare che il corpo materiale è solo la copertura più
esteriore dell’uomo; questo strato, grossolano e visibile a tutti, si definisce annamaya kosha.
Annamaya significa energia del cibo, perché il corpo fisico è sostenuto dal cibo. Ad un livello più
sottile è possibile identificare il campo energetico, prana, che ogni essere umano possiede,
individualizzato e specifico per ciascun essere vivente: tale livello è definito pranamaya kosha. Il
corpo fisico non ha energia propria, non starebbe neanche in piedi senza questa energia vitale che è
ciò che fornisce vigore al corpo, che gli permette di muoversi e che lo rende così prezioso: si
tratta dell’involucro energetico di prana. A questo supporto energetico si rivolge, ad esempio,
l’agopuntura; infatti, quando l’energia che supporta il corpo fisico non è ben distribuita, si
possono verificare dei blocchi energetici. Progredendo verso livelli sempre più sottili
successivamente al piano energetico si colloca l’involucro mentale, manomaya kosha, dunque
l’involucro energetico dipende dalla mente. Pranamaya kosha è direttamente dipendente dalla nostra
mente, dal nostro stato mentale e non è quindi possibile sviluppare energie ecologiche che
sostengano il corpo se dapprima non si procede alla rieducazione della mente. Questo messaggio viene
sostenuto dai rishi, i Maestri Spirituali appartenenti alla Tradizione Indovedica, ed è un
insegnamento fondamentale di cui occuparsi immediatamente in quanto, come spiega Krishna nella
Bhagavad-gita, la mente può essere la nostra migliore amica o la nostra peggiore nemica, può essere
il tramite per il processo di guarigione o la causa di malattia, infermità, paralisi. La mente è
quindi prioritaria nella ricerca della salute, prima ancora del corpo fisico, perché il corpo fisico
ne è dipendente ed in questo scenario si inserisce l’affermazione di Giovenale “mens sana in corpore
sano”.

In generale mente e corpo sono talmente interdipendenti e così interagenti, che un guasto in uno dei
due si trasmette quasi immediatamente nell’altro, perciò sono da curare simultaneamente. Per questo
motivo Patanjali pone come primo step nella via della realizzazione spirituale codificata nei suoi
Yogasutra alcune norme etiche fondamentali (yama e niyama) per l’armonizzazione della struttura
psicofisica. Il sostegno dell’involucro mentale è l’involucro intellettivo, vijnanamaya kosha. A
livello della dimensione psichica l’intelletto (buddhi) è costituito da convinzioni profonde, sulle
quali le persone, consciamente o inconsciamente, fondano la loro vita. Tali convinzioni profonde,
depositate nell’intelletto, sono il sostegno della struttura mentale. Ananda significa felicità
inesauribile, beatitudine. Non è paragonabile al piacere dei sensi, in quanto il piacere dei sensi
non rappresenta neanche l’ombra di questa felicità. Euforia, eccitazione, orgasmo, tutti hanno un
inizio e una fine e quindi dalle persone sagge sono considerate prodotti illusori della vita umana.
Quando l’essere è completamente soddisfatto nel sé non ha nessun’altra aspirazione; colui che prova
ananda sperimenta un senso di comunione con tutte le creature, desidera diventare amico di tutti e
infatti diviene benevolo nei confronti di tutti gli esseri viventi. La conflittualità infatti è
segno di insoddisfazione, di sofferenza. Ananda è una caratteristica essenziale per mantenersi in
salute; un proverbio napoletano popolare dice “a cor contento Dio provvede”. L’involucro
intellettivo è dunque sostenuto da un involucro di beatitudine o gioia essenziale, anandamaya kosha,
fondamentale per il nostro benessere fisico in quanto la soddisfazione interiore garantisce
l’armonizzazione e l’equilibrio di tutte le altre strutture, fisiche, energetiche, psichiche, mentre
un umore depresso o emozioni negative, come spiegato anche nell’intervento precedente al mio, quello
del Professor Genovesi, incidono sul sistema immunitario deprimendolo attraverso la
de-sincronizzazione ormonica. Ananda appartiene all’atman: la vera sorgente energetica della persona
è di natura spirituale; non è energia fisica né psichica, ma energia spirituale, le cui
caratteristiche, oltre ad ananda, sono eternità, sat, e coscienza, cit. Noi siamo entità spirituali,
siamo atman e sat, cit, ananda sono caratteristiche per noi impossibili da perdere, qualsiasi cosa
succeda, perché sono intrinseche, inseparabili da ciò che oggettivamente e intimamente siamo,
sebbene possano essere più o meno appannate dall’ignoranza, neglette o atrofizzate.

IL “POPOLO” INCONSCIO

Durante un percorso introspettivo si incorre in un bacino di esperienze che il soggetto vive come
inconsce, quasi ignote, ma con le quali si trova ad interagire quotidianamente; tali esperienze
inconsce possono essere individuali o comuni a varie creature e rappresentano parte integrante di
questo universo nel suo complesso. E’ quest’ultimo il caso, citando Jung, dell’inconscio collettivo.
L’inconscio collettivo rappresenta il mondo degli archetipi, il mondo dei simboli, dove un
americano, un indios, un abitante di Capo di Buona Speranza, un eschimese o un cinese alla fine
hanno gli stessi essenziali sistemi di riferimento: è questa infatti la natura universale del
simbolo. Cruciale diviene quindi il concetto di memoria, o ricordo, in sanscrito smritaya, ciò che
si può ricordare sia a livello cosciente, sia a livello inconscio. Queste memorie sono tanto più
condizionanti quanto più sono inconsce, in quanto se un ricordo o un pensiero cosciente possono
essere temporaneamente e volontariamente messi da parte dalla persona che magari sta cercando di
concentrarsi su altro, un ricordo inconscio, proprio per il suo carattere, non può essere gestito
direttamente e consapevolmente dalla persona, la quale si trova invece ad essere agita da tali
ricordi. Esperienze simili archiviate nell’inconscio profondo, karmashaya, si definiscono samskara,
dove sam significa ‘insieme’, kara deriva dalla radice sanscrita kr che significa ‘fare’; di per sé
tali esperienze non hanno segno positivo o negativo, ma la loro importanza risiede nella potente
influenza che esercitano sull’individuo, che generalmente pensa, sbagliando, di essere l’autore
delle proprie azioni. Esperienze simili si attraggono e costituiscono poi solchi profondi nella
psiche inconscia, veri e propri sentieri che il soggetto si trova sempre a percorrere, rinforzandoli
ulteriormente. Questi solchi psichici sono rappresentati dalle tendenze individuali, vasana,
anch’esse positive o negative. Dunque spesso veniamo agiti dall’inconscio senza saperlo, spinti
dalle nostre tendenze che possono essere artistiche, scientifiche, di armonizzazione o
sopraffazione, di pacificità o bellicosità e ovviamente, per divenire realmente padroni di noi
stessi, dobbiamo compiere un’opera di bonifica verso tali tendenze, in particolare verso quelle
negative: esistono tecniche molto precise e molto efficaci per poter, attraverso l’uso della
volontà, trasformare i contenuti dell’inconscio: tale opera è essenziale al fine di intraprendere il
percorso meditativo. Solo in questo modo potremo liberare la nostra capacità intuitiva, la via “del
cuore”, che può andare bene solo se il cuore è stato adeguatamente purificato.

STRUMENTI DI CONOSCENZA: L’INTUIZIONE OLTRE LA PERCEZIONE

Per conoscere infatti non possiamo basarci sulla percezione sensoriale, che come già accennato
permette sì e no di conoscere lo 0,1% della realtà esteriore ed interiore, e non possiamo nemmeno
basarci sulle informazioni diffuse nella società, specialmente in una società come quella in cui
viviamo, altamente tecnologica, completamente estrovertita e finalizzata alla realizzazione di
progetti esteriori, e dove i giudizi spesso sono pregiudizi. La capacità critica in questo caso
rappresenta l’applicazione della massima socratica “sapere di non sapere”, e costituisce un invito a
mettersi in discussione, a non accettare aprioristicamente qualcosa solo perché palese ai nostri
sensi o alla nostra ragione, a mettere costruttivamente in dubbio le proprie convinzioni profonde.
In tal modo è possibile travalicare la concezione di realtà ancorata al mondo fisico e psichico,
superando la mera funzione razionale, l’intelletto che ha “l’ale corte”, come dice Dante, e
riscoprendo quelle facoltà intuitive pure, tipiche della psiche infantile, che sono alla base anche
delle moderne ricerche scientifiche. In quest’ottica non si vuole negare l’intelletto in generale,
“il ben de l’intelletto”, sempre parafrasando Dante, poiché esso costituisce uno strumento
d’indagine prezioso se non abusato a scapito di altri canali conoscitivi, da utilizzare
opportunamente ma da cui essere liberi proprio come un saltatore con l’asta che, dopo averla
utilizzata per compiere il salto, la abbandona per proseguire il volo. Tutte le grandi scoperte
derivano da brillanti intuizioni e solo in un secondo momento vengono verificate sperimentalmente
tramite le scienze positive, matematica, fisica o chimica, affinché risultino evidenti per tutti,
non solo per chi le ha “partorite” in prima persona. Spiegare, condividere con altri le proprie
scoperte o realizzazioni, sono sentimenti di compassione, karuna, e trasmettere e in maniera
convincente, con il rispetto tipico dello spirito di offerta, è fondamentale per la crescita, non
solo degli altri intorno a noi, ma anche individuale, in quanto quello che si dà agli altri ritorna
tutto a noi e non c’è un modo di fare del bene a noi se non facendo del bene agli altri, offrendo
loro quel che per noi è più prezioso.

L’ORIGINE PSICHICA DEL COMPORTAMENTO E DELLA PERSONALITA’

L’agito ha un effetto straordinario su di noi, si rilascia una fotocopia in materiale mentale che va
ad imprimersi nella nostra struttura psichica; qualsiasi cosa facciamo, qualsiasi cosa diciamo,
pensiamo, desideriamo, lascia una traccia. Dunque sempre in riferimento a grandi insegnanti,
conoscitori della psiche e dell’animo umano, dell’essere umano e soprattutto della sua natura divina
e della sua prigione, sempre in termini platonici, e senza dispregio verso il corpo fisico, possiamo
affermare che siamo dove siamo perché abbiamo desiderato, pensato, parlato e agito in un determinato
modo. Questa visione è solo apparentemente deterministica perché in constante evoluzione: nel
momento in cui stiamo parlando e nel momento in cui state leggendo, è già in essere una
modificazione della vostra comprensione e dei vostri samskara. Ciascun desiderio, pensiero o parola
origina manifestazioni fisiche corrispondenti; nei Veda la parola, vac, si definisce creatrice, crea
i mondi, ed è proprio così, in quanto attraverso la parola esprimiamo il nostro stato d’animo e per
questo motivo dev’essere più veritiera possibile, perché prima ancora di ingannare gli altri
inganniamo noi stessi.

La parola, al pari dell’azione, è tuttavia solo una manifestazione esteriore di un processo
interiore, il processo di riflessione, vicara, di pensiero e prima ancora del desiderio. Nella
Brihadaranyaka Upanishad viene spiegato che “l’uomo non è che desiderio”: diviene quindi essenziale
selezionare i desideri, poiché ve ne sono in grande quantità nell’inconscio: “un’intera mandria di
cavalli scalpitanti”, per usare una metafora platonica. Abbiamo il dovere di orientare, guidare,
queste pulsioni che spingono dall’inconscio, non appena superano quella soglia di pensiero cosciente
o coscienza in cui noi ne possiamo trarre consapevolezza. Il nostro temperamento è in ultima analisi
il risultato di una concatenazione di desideri, pensieri, riflessioni, parole, azioni, azioni
ripetute che, interagendo con componenti emotive più o meno forti, divengono tendenze, tratti
salienti del carattere dai quali siamo agiti, se non li incanaliamo nel modo giusto. Per poter agire
su queste fasi pressoché inconsce è necessario accedere a quella dimensione che sta al di là della
della soglia della consapevolezza e per farlo si possono percorrere diverse vie: la meditazione, la
preghiera e il sogno, che Freud indica come accesso regio all’inconscio”.

Tutte queste vie possono aiutarci ad indagare la nostra dimensione interiore e ad estendere sempre
di più la luminosità della nostra coscienza, restringendo il buio dell’inconscio, dell’ignoto, e
andando a conoscere noi stessi più profondamente. L’applicazione pratica di tali tecniche richiede
diverse conoscenze, teoriche e pratiche, di cui è possibile fare esperienza nella vita di tutti i
giorni. L’esperienza della meditazione può permanere mentre parliamo, camminiamo, mangiamo,
dormiamo: non facciamo meditazione semplicemente quando ci sediamo con le gambe incrociate. Per
giungere ad una meditazione continuativa e quindi essere sempre consapevoli della nostra natura
profonda e dell’interazione che abbiamo con il fenomenico esterno è importante però che teniamo in
considerazione alcuni aspetti: in primo luogo il fatto che la nostra psiche è come un’arena in cui
si scatenano continuamente, in lotta tra loro, titaniche forze di tendenze opposte. Queste tendenze
a volte sono entropiche, a volte sintropiche, evolutive e involutive, di salute e di malattia.
Esprimendosi con il potente linguaggio mitologico, si potrebbe indicare ciò come l’incessante lotta
tra Bene e Male. Esistono degli ostacoli alla meditazione; questi ostacoli, secondo Patanjali, sono
la distrazione, vikshipta, e l’annebbiamento della coscienza, l’ottundimento, l’abbassamento del
livello dell’attenzione, mudha, laddove un’attenzione selettiva e sostenuta è fondamentale per la
buona riuscita della pratica meditativa.

L’INDIVIDUALITA’

Un altro aspetto centrale che dobbiamo considerare relativamente alla meditazione, concerne
l’individualità: ogni soggetto è uguale solo a sé stesso, ognuno è un individuo, ognuno ha avuto un
suo percorso, non esiste l’uguaglianza in questi termini, perché ognuno ha il proprio vissuto, ha
fatto le proprie esperienze:

Io ho creato le quattro divisioni della società umana
sulla base delle tre influenze della natura materiale
e delle attività ad esse collegate;
sappi però che sebbene Io sia il creatore di questo sistema,
non agisco all’interno di esso perché sono immutabile.
(Bhagavad-gita IV.13)

Nel momento in cui il soggetto, l’essere spirituale, lascia un determinato corpo fisico, viaggia in
una bolla psichica in cui è inglobato, costituita da samskara e vasana, e le tendenze più forti
saranno quelle che in particolare determineranno la natura della nascita successiva e dunque il
luogo, la specie d’appartenenza e altri fattori connessi ad un altro corpo materiale destinato ad
essere abitato da quel particolare jiva. La struttura psichica differisce quindi per le esperienze
che ci portiamo dietro dalle vite precedenti e, vita dopo vita, determina nascite diverse anche per
gemelli monozigoti e che dire per “semplici” fratelli, compaesani, compatrioti o persone della
stessa cultura. L’influenza esercitata dalle tre forze archetipe, guna, costituenti la natura
materiale, prakriti, ed il bagaglio dei frutti relativi ad azioni compiute in tempi recenti e
remoti, karma, sono diversi per ciascun individuo e dunque, quando un soggetto desidera avvicinarsi
alla pratica meditativa, andrebbe conosciuto a livello personale perché ciascuno dev’essere aiutato
e introdotto in una maniera speciale, peculiare a lui in base al proprio guna e karma.

LA LIBERTA’

Se l’individualità, la specificità di quel particolare modello di personalità è unica, si deve
riflettere sul concetto di libertà come naturale corollario ad essa. Nessuna pratica deve negare
libertà all’individuo e nessun Maestro deve privare di libertà il proprio discepolo. Non dev’esserci
suggestione, ma una libera scelta di obbedienza ad un’offerta, proposta da un modello ritenuto dalla
persona superiore agli altri. Il rapporto con il meditante dev’essere sempre un rapporto rispettoso
della libertà perché la persona potrà meditare nella misura in cui riuscirà ad essere libera;
sicuramente farà degli errori, non riuscirà a rifuggire certi automatismi mentali ai quali magari è
soggetta da chissà quante vite, non riuscirà immediatamente a rinunciare a qualcosa che è un
ostacolo, un condizionamento, un’abitudine, un cibo, una bevanda, una relazione, un rapporto, ma se
conosciamo la libertà e se riconosciamo la specificità di quel modello di personalità in transito,
allora la persona sarà libera di esprimersi secondo il proprio livello coscienziale, senza nostre
imposizioni distruttive, ma anzi con offerte mosse da puro spirito di bhakti, di relazione d’amore,
prema, con un investimento affettivo, in quanto l’amore per definizione non ha bisogno di una
contropartita, basta a sé stesso.

L’INTEGRAZIONE ARMONICA DELL’INDIVIDUO NELL’UNIVERSO

Come ulteriore componente importante per la meditazione, è da citarsi l’integrazione sociale: non in
senso corporativistico, tanto meno di casta. Per integrazione sociale s’intende in questo caso la
capacità di interazione armonica, costruttiva, evolutiva, con qualsiasi creatura, l’attitudine di
valorizzazione di ogni creatura, che siano uccelli, rettili, pesci e che dire uomini, potenziali
compagni di viaggio da cui imparare, per progredire nello sviluppo. In un certo senso quanto
descritto potrebbe rientrare in una delle più importanti astensioni indicate da Patanjali, ovvero la
non violenza, ahimsa. Infine, fondamentale componente per l’efficacia della pratica meditativa, è la
tensione spirituale, quel bisogno irrefrenabile che ogni essere umano ha di rivolgersi e orientarsi
verso l’idealità. La meditazione non può prescindere da questa necessità di realizzare l’idealità
dentro di noi. I principi di libertà, di giustizia e di amore sono irrefrenabili e ciascuno di noi
tende a realizzarli per cui, nella misura in cui ci dedichiamo allo sviluppo di queste nostre
idealità, diventiamo ecologici nel nostro ambiente, cioè favoriamo non solo le persone con le quali
viviamo, ma l’ambiente in generale, e ci integriamo con l’umanità e con tutte le creature. Questa
idealità, che può inizialmente sperimentarsi in maniera sporadica con una pratica meditativa
saltuaria, dovrebbe diventare la modalità dell’intera vita, costante e quotidiana, se si vuole
raggiungere la perfezione nella meditazione. La perfezione non esiste in senso umano, esiste un
tendere verso, un muoverci verso, metterci in cammino verso, tuttavia, non c’è necessità di aver
paura dell’agire pensando che siccome non siamo perfetti la nostra azione sarà imperfetta. La nostra
azione sarà imperfetta comunque, ma se muoviamo i primi passi nella direzione giusta e se ci
muoviamo verso la perfezione, ogni passo porterà gioia, quella gioia essenziale, interiore, piena
soddisfazione, samtosha, appagamento, tushti, che rende la persona estremamente tollerante,
estremamente umile. Non sono la posizione sociale, gli araldi che portiamo o i colori di qualsiasi
divisa, a determinare il livello di realizzazione che abbiamo raggiunto, ma sono la nostra umiltà,
la nostra tolleranza.

IL DISTACCO EMOTIVO COME CHIAVE PER UN PIACERE SUPERIORE

Per questo motivo la conoscenza, la sapienza vanno trasformate in distacco emotivo, in distacco da
ciò che non solo non serve, ma che è dannoso, e di ostacolo alla nostra evoluzione. Il primo livello
di distacco da esercitare è ritrarre i sensi dai loro oggetti (pratyahara), fare in modo che non
diventino cavalli selvaggi, evitando di contrastarli con violenza e repressione, ma incanalandoli in
un progetto evolutivo, funzionale alla nostra crescita interiore. Questa rinuncia non è brutale
privazione dettata da dogmatismo o pregiudizio, al contrario, è attraente ed efficace astensione che
attuiamo naturalmente nel momento in cui sperimentiamo qualcosa di superiore:

L’anima incarnata può astenersi dal godimento dei sensi,
sebbene il gusto per gli oggetti dei sensi rimanga.
Ma se perde questo gusto sperimentando un piacere superiore,
resterà fissa nella coscienza spirituale.
(Bhagavad-gita II.49)

Letteralmente dal sanscrito param significa ‘superiore’ e drishtva ‘avendo visto’: quando abbiamo
sviluppato una visione superiore, possiamo rinunciare ad una visione inferiore. Non dobbiamo temere
l’inibizione: anche alcune aree cerebrali, così come alcuni organi del corpo, vengono inibiti quando
facciamo qualcosa che richiede attenzione. Non è certo questa l’inibizione che ci preclude il
viaggio evolutivo, al contrario è qualcosa che noi stessi dominiamo, che dunque possiamo gestire in
maniera sensibile ed esperta rinunciando a qualcosa di inferiore a beneficio di qualcosa di
superiore. Questo atto può definirsi ascesi, in sanscrito tapas, ovvero la capacità di rinunciare
con un atto volitivo, con una scelta deliberata, a qualcosa di inferiore a favore dell’ottenimento
di qualcosa di superiore; implica una straordinaria coerenza con una progettualità che mira alla
liberazione dai condizionamenti, quindi allo scioglimento di tutti i samskara virulenti che
condizionano i soggetti e muovono spinte irresistibili. Il beneficio di ciò si estende poi a tutti
quei sensi di colpa o complessi, che popolano il nostro inconscio e che hanno avuto origine in
qualche momento della nostra storia esistenziale, sciogliendone gli effetti negativi e liberando
l’individuo dalla prigionia fino a quel momento subita.

L’ascesi, sebbene non esaurisca in se stessa il significato di meditazione, ne costituisce e
rappresenta una componente che non può essere trascurata; essa si accompagna alla preghiera e al
retto agire, ovvero all’agire a beneficio di tutte le creature, arrecando il minor danno possibile,
ahimsa, per esempio nutrendoci di cibi ottenuti con la minima violenza possibile: cereali, vegetali
e legumi. L’obiettivo che dovremmo porci dovrebbe dunque essere quello di strutturare la nostra vita
in maniera veramente progettuale, tendendo al raggiungimento del massimo livello evolutivo in questo
segmento di esistenza e di conseguenza aspirando ad un eventuale corpo più evoluto nella vita
successiva. Il Vishnu Purana spiega che esistono 400.000 sfumature evolutive all’interno della
specie umana: esistono umani, subumani, sovrumani, santi e briganti, tante diverse tipologie quante
sono le differenti strutture psichiche e le relative spinte ctonie che provengono dal profondo. Tali
spinte possono anche agire l’uomo, dominarlo inesorabilmente e, se distruttive, antisociali,
spingerlo fino a compiere orrendi crimini. La consapevolezza, anche da parte della giurisprudenza,
che alcune di queste spinte sono irrefrenabili per il soggetto e non possono da lui essere
controllate, ha fatto sì che tali casi non vengono condannati al carcere ma curati in speciali
strutture, gli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG). Tuttavia, prima di giungere a situazioni così
estreme e compromesse, è possibile attuare profilassi, piani preventivi e risolutivi, di cui la
meditazione fa parte e costituisce un esempio concreto.

da psicologiaespiritualita.blogspot.com/

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