La scimmia e il buddha: il cervello, la coscienza e i media

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La scimmia e il buddha: il cervello, la coscienza e i media

di Ivo Quartiroli

A parte l’uomo, solo pochissimi animali hanno le caratteristiche fisiche e le capacità mentali per
utilizzare uno strumento. Tra questi, le scimmie. Ma come fanno i primati ad apprendere l’uso di uno
strumento?

Uno studio di Giacomo Rizzolatti, direttore di neuroscienze dell’università di Parma, ci dice che il
cervello usa il trucco di considerare lo strumento come fosse parte del proprio corpo. Alcune
ricerche precedenti avevano mostrato che le azioni della mano vengono controllare da un’area del
cervello chiamata F5.

Egli ha registrato l’attività cerebrale di due macachi dopo che avevano appreso ad afferrare il cibo
con delle pinze. Hanno documentato l’attività nell’area F5 e in un’area chiamata F1 che a sua volta
è implicata nella manipolazione di oggetti. Hanno scoperto che vi era la stessa attività cerebrale
sia quando le scimmie afferravano il cibo con l’ausilio delle sole mani che quando usavano le pinze:
l’attività neuronale viene trasferita dalle mani allo strumento, come se lo strumento fosse la mano
e la sua estremità fossero le dita. Inoltre Rizzolatti mette in evidenza il fatto che l’area F5 è
ricca di neuroni specchio, un tipo di neurone da lui scoperto in precedenza, che si eccitano sia
quando si svolge un’azione sia quando si osserva un altro individuo che attua la stessa cosa. Le
scoperte, secondo Dietrich Stout, un archeologo specializzato nell’uso di strumenti, ci dicono che
“chiaramente, l’uso degli stessi da parte delle scimmie implica la loro incorporazione nello schema
corporeo, letteralmente una estensione del corpo”.

La scimmia non sa distinguere tra le proprie mani e lo strumento che utilizza, considerando
quest’ultimo come una vera e propria estensione del corpo. Questo mi ricorda ciò che disse Marshall
McLuhan – un teorico dei media del secolo scorso – riguardo dei mezzi di comunicazione di massa, e
degli strumenti come estensioni di noi stessi.

In questo esperimento tuttavia si fanno i conti senza l’oste. Manca il fattore coscienza, che
tutt’ora sfugge alle neuroscienze. La presenza o meno della coscienza e dove questa si dirige non
può essere rilevata dagli esperimenti. Questo esperimento mi ha fatto riflettere sul rapporto tra
coscienza, strumenti e percorsi di ricerca spirituali verso la consapevolezza.

A un livello neurale primitivo quindi gli strumenti sono veramente estensioni del corpo, ma la
consapevolezza di un essere umano permette di comprendere che lo strumento è fuori di noi. La
scimmia non conosce la dualità che viene prodotta dalla coscienza di sé, quindi sembrerebbe
avvicinarsi ad una condizione spirituale di “unione con il tutto” . L’unione però avviene ad un
livello pre-cosciente.
La coscienza di se stessi è allo stesso tempo gioia e dolore poiché ci intrappola nella mente,
separandoci dal resto dell’esistenza, e ci scinde anche al nostro interno, ma, anche, ci consente di
raggiungere vette spirituali ignote al nostro famelico macaco. La coscienza di sé e di conseguenza
lo sviluppo di un ego che ci separa dal tutto sono fasi intermedie tra la scimmia e lo stato di
risveglio (illuminazione) che traduce il termine buddhità

U.G. Krishnamurti, ne La mente è un mito, afferma:

«Ad un certo punto della sua evoluzione, l’uomo si è spaccato interiormente e per la prima volta ha
fatto l’esperienza della coscienza di sé, una coscienza che gli altri animali non hanno. Questo
evento l’ha gettato nella sofferenza. Ed è stato il principio della fine dell’uomo. L’individuo che
riesce, se è fortunato, a liberarsi da questa coscienza di sé, non sperimenta più un’esistenza
indipendente. Egli è, anche per se stesso, come qualsiasi altra cosa che c’è all’esterno. Ciò che
accade nell’ambiente che lo circonda si riflette nel suo essere senza che egli nemmeno lo sappia.
Quando il suo pensiero ha estinto se stesso completamente, non rimane più niente che possa creare
divisione».

Mi colpisce quando dice che l’individuo libero dalla coscienza “è, anche per se stesso, come
qualsiasi altra cosa che c’è all’esterno”.
Quindi sembrerebbe che la scimmia e quell’essere umano che raggiunga la sua piena evoluzione oltre
il pensiero, non possiedano la coscienza di sé. Forse anche i loro tracciati neurali potrebbero
essere simili. Mancherà, però, ancora il fattore Coscienza, non rilevabile da alcuno strumento. Nel
risvegliato, questa Coscienza non è più coscienza di sé, ma unione con la Coscienza universale, di
cui il cervello è solo un’antenna ricevente.
La scimmia non possiede le divisioni tra interno ed esterno che il pensiero ci consente di attuare,
ma la scimmia neppure si trova nello stato di buddhità.
Com’è possibile che se la coscienza è una e condivisa da ogni entità dell’universo, questa possa
separarsi, a livello evolutivo, dopo la scimmia e prima del buddha (nel suo senso di: il
risvegliato), in diverse coscienze che credono di essere individuali?

Ramesh Balsekar, in A Duet of One (Advaita Press. Los Angeles. 1989) lo esprime in questi termini:

«Se la Coscienza è originariamente e sempre senza restrizioni, totalmente libera, perché non
dovrebbe limitare se stessa e quindi prendere parte nella lila (gioco divino, ndt) che è la vita?
Questo atto deliberato di restringere se stessa in una coscienza individuale è parte della sua
libertà. Inoltre, è solamente tramite questa divisione in soggetto ed oggetto che la Coscienza può
percepire e avere cognizione dell’universo fenomenico che ha “creato” al suo interno. Un essere
senziente diventa il soggetto e percepisce gli altri esseri senzienti come oggetti, e questo è il
“meccanismo” con cui la Coscienza ha cognizione del manifesto».

Sembra che la Coscienza, pur essendo un’unità, ha la capacità di replicare se stessa e di
considerarsi separata dal resto. E’ questa la radice di tutte le simulazioni, delle quali quelle del
computer sono l’imitazione della realtà da parte di una Coscienza individuale che a sua volta è il
prodotto di una simulazione. Buffo, oppure inquietante, a seconda di come si guarda.

La strada per ricongiungersi con la Coscienza è di sviluppare l’osservazione interiore, il
testimone. Sembra necessaria un’ulteriore separazione prima di ritornare all’unità. Osho diceva che
dovrebbero esserci due correnti al nostro interno. “Un uomo ordinario che si limita a pensare ha
solo una corrente. Un meditatore ha due correnti al suo interno, i pensieri e l’osservazione. Un
meditatore ha due correnti parallele al suo interno, i pensieri e l’atto del testimoniare. Un uomo
ordinario ha una sola corrente, quella del pensiero. E anche una persona illuminata ha una sola
corrente al suo interno, quella del semplice testimoniare”. [Osho. The Path of Meditation. Rebel
Publishing House. Pune. 1997].
Ma il testimoniare non va confuso con l’essere spettatori:

«Molte volte ho visto le persone fare questo errore: credono di essere diventati osservatori quando
sono diventati spettatori […] Uno spettatore è colui i cui occhi sono sugli altri, mentre un
osservatore è colui i cui occhi si volgono al’interno». [Osho. Enlightenment. The Only Revolution.
Rebel Publishing House. Pune. 1997].

Il percorso verso l’osservazione non è senza difficoltà, come afferma Almaas:

«L’auto-riflessione porta consapevolezza di se, ma porta anche conflitti. La manifestazione centrale
di questo conflitto è essere identificati con un’entità separata che ha una sua volontà e che
manifesta un suo agire. Siamo completamente liberi quando non riflettiamo su noi stessi, proprio
come i bambini piccoli. I bambini piccoli non riflettono su loro stessi. Non guardano neppure a se
stessi. Non sanno neanche chi sono, o se esistono o meno. Quando le loro menti cominciano a
svilupparsi e i bambini iniziano a riflettere: «Sono questo, sono quello, sono bravo, sono
cattivo..» allora cominciano anche i guai». [A.H. Almaas. Indestructible Innocence. Diamond Books.
Berkeley. 1990].

Il neonato può dirigere la sua attenzione solo verso l’esterno non avendo ancora gli strumenti
cognitivi necessari all’auto-riflessione. Non ha ancora la “marcia indietro”, la sua evoluzione
cognitiva lo porterà prima a riconoscersi e poi a dirigere la sua attenzione verso la sua
interiorità.

Ogni volta che usiamo degli strumenti, possiamo perderci in questi come fa la scimmia. Pur sapendo
di essere separati dallo strumento, tendiamo a portare l’attenzione verso di esso dimenticandoci di
noi stessi. Con gli esseri umani questo perdersi avviene più facilmente con gli strumenti quali i
media che attivano la mente, ad esempio la televisione o Internet, dove ci coinvolgiamo dando
attenzione esclusivamente agli input che provengono dall’esterno.
Quando siamo coinvolti con uno strumento o con un mezzo è difficile rimanere testimoni, è più
semplice come afferma Osho, divenire spettatori e perderci nello spettacolo.

C’è poi un paradosso. Se ci immergiamo invece con totalità in un’attività che ci coinvolge
globalmente, quale la danza o il fare l’amore, o anche nell’uso di uno strumento, quale ad esempio
uno strumento musicale, allora si sviluppa il testimone interiore e si allineano azione e
consapevolezza dell’azione. Sparisce il soggetto che agisce, ma rimane la consapevolezza. In questo
caso non ci si “perde” nell’azione come la scimmia con le pinze o l’essere umano con la televisione,
piuttosto ci si ritrova nell’azione in forma di consapevolezza.

«Ogni volta che sei totalmente in qualcosa, in te si sprigiona una grande consapevolezza – diventi
un testimone. All’improvviso! Non che ti eserciti nell’essere testimone. Se sei totalmente in
qualcosa… una volta, entra totalmente nella danza e potrai prendere atto di ciò che sto dicendo.
Non sono conclusioni logiche quelle che vi do: sono indicazioni esistenziali, suggerimenti. Danza
totalmente! Allora rimarrai sorpreso. Sentirai qualcosa di nuovo. Quando la danza diventa totale e
colui che danza si dissolve quasi completamente nella danza… nasce una nuova sorta di
consapevolezza. Sarai totalmente immerso nella danza: colui che danza scompare, soltanto la danza
rimane. Tuttavia non sei inconsapevole, affatto – sei proprio l’opposto! Sei molto consapevole, più
consapevole di quanto tu sia mai stato». [Osho. La Saggezza dell’innocenza. Apogeo/Urra. Milano.
1998]

Il percorso occidentale, sia in campo scientifico che psicologico, non concepisce la consapevolezza
senza un soggetto che la esperisce. Quindi anche senza essere illuminati possiamo avere un barlume
di quella condizione diventando totali nelle nostre azioni. Possiamo diventare di nuovo “uno”:
danzando si diventa la danza, facendo l’amore si diventa tutt’uno con l’amore e con la persona
amata, suonando si diventa una cosa sola con lo strumento e la musica. Più recentemente, Mihály
Csíkszentmihályi l’ha definito come stato di flusso.

La totalità è uno stato di gioia e di consapevolezza allo stesso tempo. La consapevolezza si
estende, si sincronizza azione, attore che agisce e testimone. Ci si sente, appunto… da Dio!
Questi stati possono essere raggiunti da pratiche meditative, da attività che coinvolgono il
corpo/mente tipo alcune tecniche di respiro, da emozioni intense quali l’amore o il senso
dell’immenso.

Ma essere totali non è cosa di tutti i giorni. Nella quotidianità va già bene quando non ci troviamo
in una guerra civile con noi stessi. E’ necessario lavorare sul proprio giudice interiore e sul
superego che non ci consentono di esprimere noi stessi per ciò che siamo, bloccando alla fonte
l’esperienza della totalità. Qualcuno assume droghe, cercando una scorciatoia per forzare i blocchi
stradali verso la totalità, che inevitabilmente ricompariranno una volta finito l’effetto, con
l’aggravante di ritrovarsi un corpo/mente provato ed indebolito.

Quando siamo inconsapevoli ci perdiamo nell’oggetto della nostra attenzione, come la scimmia con le
pinze, e non ricordiamo più noi stessi. Il testimone scompare e ci perdiamo nell’oggetto esterno,
che sia uno strumento, un essere umano o la televisione. Lo strumento o la persona diventano allora
in termini psicologici ciò che si definisce come oggetto di relazione.

Tuttavia con un oggetto di relazione non manteniamo vivo il testimone al nostro interno e inglobiamo
la realtà esterna come se fosse parte di noi. Ad esempio, possiamo sentire inconsciamente un
rapporto di amicizia come un oggetto di relazione paterno o materno, considerando di fatto l’altra
persona non come un individuo in sé con la sua particolare natura, ma come un oggetto che fa parte
dei nostri bisogni psicologici. Analogamente, possiamo “fonderci” in un oggetto tecnologico quale il
computer inglobandolo al nostro interno come se ci trovassimo nella fase primordiale e rassicurate
di fusione con la madre.

Quando sovrapponiamo le nostre attese, proiezioni e bisogni alla realtà, non siamo molto distanti
dalla scimmia che scambia le pinze per le mani. Inglobare la realtà esterna al nostro interno non ci
porta all’unità dell’illuminazione, non diventiamo “uno” come quando l’ego è trasceso e si unisce al
tutto, bensì regrediamo a uno stato pre-cosciente in cui non differenziamo ciò che è la nostra
proiezione da ciò che è la realtà. In qualche modo sembra che diventiamo di nuovo “uno”, ma perdiamo
per strada la consapevolezza. Invece di essere testimoni di noi stessi, diventiamo solamente
spettatori, portando l’attenzione verso l’esterno e dimenticando il nostro interno.

Il fascino dei media quali il cinema, la televisione e Internet, è che possiamo identificarci negli
input esterni e per un certo lasso di tempo dimenticare la nostra interiorità con tutti i conflitti
a questa annessi.

Il regista teatrale Bertolt Brecht riteneva che l’immergersi acriticamente nel teatro della sua
epoca da parte del pubblico avrebbe favorito l’attrazione delle immagini naziste sul popolo. Brecht
creò una tecnica teatrale che riportava l’attenzione del pubblico verso se stesso. Era una sorta di
tecnica di ricordo di sé com’era stata diffusa da G.I.Gurdjieff.
Probabilmente ci servirebbe un Brecht per darci consapevolezza dei nuovi media ed evitare di
regredire a scimmie.

Nell’articolo sul n° 25 box esplicativi e di approfondimento

da www.scienzaeconoscenza.it

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