LA VIA DELLA DEVOZIONE

pubblicato in: AltroBlog 0
LA VIA DELLA DEVOZIONE

di Eugenia Romano

La Bhagavad-Gita incentra il suo insegnamento su tre strade che si esplicano vicendevolmente, vale a
dire le vie dell’azione (karma-yoga), della conoscenza (jnana-yoga) e della devozione (bhakti-yoga),
anche se esteriormente taluni possano sentirsi più portati per questa o per quella delle tre strade.

Col semplice astenersi da ogni attività, non si ottiene la libertà dall’azione, né colla mera
rinuncia si giunge a perfezione.

L’uomo, infatti, neanche per un solo istante può rimanere inattivo, essendo costretto all’azione dai
costituenti della natura (guna) e, anche astenendosi dall’atto, nel senso stretto della parola,
tutta un’attività incosciente, provocata da questi guna, continua ad integrarlo nel circuito
karmico. Perciò, l’azione deve esser compiuta con distacco, perché solo in tal caso non vincola a
questo mondo (1). Distacco significa rinuncia non all’azione, ma al frutto dell’azione (karma phala
tyaga).

Krishna insiste sul valore esemplare e soteriologico del modello divino. Ciò che fa un capo è
imitato dalla massa: Krishna, che è Dio, non è tenuto a fare nulla; pure, egli opera
incessantemente, creando il mondo per mezzo della sua prakriti. In tal maniera gli uomini, avendo
compreso l’essenza della divinità, seguono il suo esempio. E, ad imitazione di Dio che crea e
sostiene il mondo senza essere incatenato da tale attività, gli uomini imparano ad agire guardandosi
dall’attaccarsi ai “frutti delle proprie azioni”.

Ogni essere vivente ha un proprio dharma (qualità essenziale, condizione peculiare) che non può e
non deve trasgredire. Questo dharma, ad un livello di esistenza condizionata, si estrinseca nelle
creature a seconda del loro grado di coscienza. Così, negli animali si identifica con gli istinti
che ne regolano il comportamento, negli uomini assume aspetti differenti a seconda del paese e del
gruppo sociale di appartenenza. All’epoca della composizione della Gita la società indiana è
organizzata in quattro caste (varnasrama-dharma): brahmana, ksatriya, vaisya e sudra. I brahmana
sono i sacerdoti. Essi conoscono perfettamente i Veda e sono situati sotto l’influsso del sattva.

Gli ksatriya sono coloro che si occupano di proteggere il popolo e, in generale, ne sono i regnanti.
Sono situati sotto l’influsso del rajas. I vaisya, incaricati del commercio e dell’agricoltura, sono
sotto l’influsso del rajas e del tamas. Infine i sudra, il cui unico compito pare sia quello di
servire gli appartenenti alle tre classi più elevate, sono influenzati dal tamas. Così, condannato
all’azione, l’uomo deve compiere gli atti prescritti, che gli incombono a causa della sua
particolare condizione. E’ meglio, infatti, compiere il proprio dovere, sia pure imperfettamente,
che espletare, anche alla perfezione, il dovere di una condizione altrui (2).

Oltre al dharma individuale esiste un dharma cosmico, che non è altro che la volontà divina, dai cui
l’uomo non può sfuggire, perché solo confacendovisi potrà aspirare alla liberazione (3).

Per meglio comprendere questo concetto, prendiamo come esempio la guerra di Kuruksetra. Essa è
voluta da Krishna, il cui scopo è quello di annientare buona parte della classe degli ksatriya,
figlia della più nera degradazione. Perché il fato possa compiersi, occorre che in seno alla
suddetta stirpe sorgano dissidi. Così il dharma individuale dei protagonisti – i cinque pandava e i
cento figli di Dhritarastra – si combina con quello cosmico. Il dharma di Yudhisthira, che è uno
ksatriya, gli impedisce di rompere un voto fatto, ed un voto tipico della classe guerriera è non
ritirarsi mai di fronte a una sfida, di qualunque genere essa sia. Perciò, quando Duryodhana lo
sfida a una partita di dadi, non può esimersi, malgrado lo assalga il presentimento che non ne verrà
nulla di buono. E accade che, pur di attenersi alle leggi che regolano il suo dharma, il pandava si
ritrovi senza il suo regno, che gli ha vinto Duryodhana, e a trascorrere, insieme ai fratelli e alla
moglie Draupadi, dodici anni di esilio. Un ulteriore anno debbono vivere nascosti, perché solo se le
spie di Duryodhana non riusciranno a trovarli, verrà loro restituita la parte di regno a cui hanno
diritto. Ma Duryodhana, allo scadere del tredicesimo anno, non vuole ridare nulla ai cugini, ebbro
del potere assoluto gustato sino a quel momento. Questa presa di posizione non lascia via di scampo
ai pandava, che dichiarano guerra ai kurava.

Così, ognuno concorre con le proprie decisioni, prese dovendo tenere conto del dharma della classe
guerriera, a compiere la volontà divina: Yudhisthira, con il suo rifiuto a non mantenere un voto
fatto; Duryodhana, a cui lo ksatriya-dharma impone di andare in guerra e battersi con valore, di
uccidere o essere ucciso; Così, ognuno concorre con le proprie decisioni, prese dovendo tenere conto
del dharma della classe guerriera, a compiere la volontà divina: Yudhisthira, con il suo rifiuto a
non mantenere un voto fatto; Duryodhana, a cui lo ksatriya-dharma impone di andare in guerra e
battersi con valore, di uccidere o essere ucciso; Dhritarastra, il padre cieco di quest’ultimo che,
nel proprio orgoglio di re guerriero, non disdegna la discesa alle armi, nonostante sia consapevole
che essa significherà la rovina per sè e per i suoi figli.

Ma Yudhisthira, in diversi momenti della sua travagliata esistenza, comprende che al di là del
dharma che si acquisisce al momento della nascita, ve n’è un altro insito nel cuore di ogni essere,
che si specchia nella coscienza individuale, e non ha nulla a che fare con la casta d’appartenenza.
Yudhisthira, ad esempio, ha tutte le qualità di un brahmana, essendo risoluto, controllato, casto,
paziente, veritiero, generoso, ascetico, laddove il dharma del regno implica guerre di conquista,
menzogne, inganni, azioni di spionaggio. Tale stato di cose non può che fargli detestare la propria
condizione e, quando al termine della guerra, egli si avvede dello scempio totale di amici e nemici
che questa ha procurato, vuole bdicare e fare vita da rinunciato. Eppure Krishna lo istruisce sul
pericolo che la stessa rinuncia comporta, visto che finchè egli non avrà rinunciato anche a questa,
sarà ancora schiavo dei desideri. Queste parole di Krisha fungono da corollario all’altro discorso
che egli aveva tenuto per Arjuna prima dell’inizio dello contro armato: “Lascia ogni forma di
religione (sarva dharman) e abbandonati a Me” (4), enfatizzando in tale maniera la via della
devozione (bhakti-yoga) che, più di qualunque altra via, libera dalla sofferenza e conduce alla
riunione con l’Assoluto.

Il dedicarsi in maniera totale al servizio di Dio è talmente purificante che chi lo attua non
occorre che dia credito a null’altro, doveri filiali e di casta compresi. Quando Krisha è
soddisfatto, difatti, automaticamente lo è tutto il creato.
Nella Gita Krishna è chiamato ajita, l’’inconquistabile’, perchè nessuno può conquistare Dio, eppure
la via della bhakti riesce laddove nessun’altra via può. Alla perfezione non si può assurgere da sè,
nè mediante lo yoga, che non è pratica di quest’era, nè mediante la sola gnosi. Solo l’accostamento
sottomesso a sorgenti di autentica conoscenza spirituale – sastra e maestro spirituale discendente
da sampradaya riconosciuti – e la messa in pratica di quanto ascoltato può gradualmente condurre
all’amore, senza remora di sorta, per Dio, che si lascia conquistare solo da questo sentimento.
Bhaktisiddhanta Sarasvati era solito dire: “Don’t try to see God. I ask God to come and stand before
us because we want to see Him? That is not the submissive way. We have to oblige Him by our love and
service” (5).

La grazia divina assume connotati particolari. Essa è elargita solo al beneficiario che abbia
mostrato amore incondizionato e duraturo insieme con un altrettanto prodigarsi per il proprio
Signore, il quale, in questo caso, non ha scampo: “è obbligato” ad accogliere il devoto sotto la
propria ala protettiva e a condurlo seco, al momento della morte (6). Egli è il controllore di
tutto; pure, è vinto dal prema, e da null’altro. E quanto non sono capaci di fare i più grandi yogin
e sapienti riesce a una semplice pastorella, Yashod, madre di Krishna che, con la forza del proprio
amore è in grado di catturare la Suprema Personalità di Dio, e legarla a un mortaio di legno. Eppure
quell’addome cinto dalla fune contiene gli universi interi (7).

La tradizione gaudiya-vaishnava ha un nutrito numero di esempi che racconta del desiderio di Krishna
di ripagare il puro devoto che si prodiga vita natural durante per Lui. E’ la normale dinamica
dell’amore spirituale che spinge colui che è oggetto d’amore a cercare di ripagare la sorgente di
tale sentimento. Il concetto appena citato si riallaccia in maniera esemplare al pensiero di
Nammalvar (8) e a quello di Ramanuja: solo il bhakti-yoga promette la salvazione suprema; il
praticante, purificatosi mediante tale processo, diviene amante di Dio e amato da Dio (9).

Riguardo all’ideale della grazia salvifica, Ramanuja pone l’accento sulla prapatti, l’abbandono o
sottomissione pia al supremo, e una delle due scuole che vennero fondate dai ramanujiya, la scuola
settentrionale, vada-galai, si collega mirabilmente al pensiero della salvazione, così come è visto
dai vaishava, allorchè insegna la cosiddetta “via della scimmia”: Dio, essendo equanime, non opera
mai arbitrariamente. Tenendo conto delle intenzioni e degli sforzi, egli interviene con giustizia
infallibile.

L’anima può volere la propria schiavitù o chiedere aiuto a Dio: in entrambi i casi l’Essere Supremo
agevola la scelta fatta. Ma allorchè essa decida ed agisca nell’intento di liberarsi dalle catene
del samsara , intraprendendo la strada della bhakti, Dio le concede la propria grazia che, però, non
toglie all’anima ogni responsabilità. Come i cuccioli di scimmia che, nel momento del pericolo si
aggrappano al collo della madre, così il fedele deve cooperare attivamente alla propria liberazione
(10).

NOTE
1) Cfr. BG III 3-9

2) Cfr. BG III 35

3) Cfr. R. C. ZAEHNER, L’induismo, Il Mulino, p.173

4) BG XVIII 66

5) Cit. in BBD, p.33

6) BG VIII 14: “Colui che si ricorda sempre di Me, senza deviare, Mi raggiunge facilmente, o figlio
di Pritha, grazie al suo costante impegno nel servizio devozionale. Dopo averMi raggiunto, le grandi
anime, yogi colmi di devozione, mai più torneranno in questo mondo pieno di sofferenza, poichè hanno
ottenuto la perfezione più alta”.

7) Cfr. KB Vol I, p.65

8) Il più grande fra gli alvar, i poeti tamil vissuti sotto la dinastia dei Pallava.

9) Cfr. HELMUT VON GLASENAPP, Filosofie dell’India, Sei, Torino 1988, p.182

10) Cfr. JAN GONDA, Le Religioni dell’India, Jaca Book 1981, Vol I, pp. 173-187

da www.isvara.org

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *