Di Antonio Cioppa
È difficile ricostruire storicamente la vita del fondatore del Buddhismo, giacché la sua biografia e
la stessa cronologia affondano in tradizioni chiaramente leggendarie. I documenti posseduti sono
posteriori anche di parecchi secoli agli eventi storici narrati e presentano tali incrostazioni di
elementi mitologici che impresa ardua è il tentativo di riconoscervi, tra storia e leggenda, la
vicenda terrena del Buddha.
Nel recente passato, fra gli studiosi occidentali, non è mancato chi ha negato del tutto la
storicità del Siddharta Gautama; ma oggi l’esistenza di un Buddha storico non viene più messa in
dubbio. In quanto alla sua biografia, se ne può tracciare una, purché ci si accontenti di una
narrazione sobria ed essenziale, basata sulle concordanze dei testi più antichi, quali il Canone
Pali, le Cronache di Ceylon e le opere in sanscrito.
Siddharta Gautama nacque intorno all’anno 560 a.c. da una famiglia principesca della tribù ariana
dei Sakya. (Anche il Buddha, come Mahavira, il fondatore del Giainismo, e come i rappresentanti
delle scuole filosofiche, apparteneva non alla casta dei brahmani ma a quella dei guerrieri). Dal
nome del suo clan, Gautama fu più tardi chiamato Sakyamuni, ovvero « il saggio dei Sakya». Vivendo
nel palazzo di suo padre, ebbe un’educazione adeguata al suo rango. Diventato adulto sposò una
nobile fanciulla dalla quale ebbe un figlio.
Fino all’età di 29 anni la sua vita fu quella comune ai giovani aristocratici del tempo. Ma, giunto
alle soglie della maturità, il principe Siddhàrta fu profondamente turbato dalla vista delle miserie
umane e fu totalmente assorbito dal problema del dolore. La leggenda narra che, malgrado le
precauzioni del padre, il quale voleva che a suo figlio fossero evitate le impressioni deprimenti,
il destino o la volontà degli dèi fece sì che, in breve tempo, gli si parassero davanti dapprima un
vecchio decrepito, quindi un malato, finalmente un morto e un asceta consumato dalle astinenze. Nei
quattro personaggi della leggenda vediamo simboleggianti i mali maggiori dell’umanità: la
decrepitezza, la malattia, la morte, la sofferenza (anche quella volontaria).
Allora il temperamento religioso del principe si manifestò in pieno: egli abbandonò la famiglia, per
adottare la vita dell’anacoreta errante, alla scoperta d’una via di liberazione. Dapprima si fece
discepolo di due brahmani asceti, i quali lo istruirono nella loro dottrina e nelle loro discipline;
poi si ritirò con cinque compagni in una foresta e iniziò una lunga serie di digiuni severi, di
esercizi di meditazione e di moitificazioni tremende. Ma né l’insegnamento delle Upanishad né le
mortificazioni ascetiche lo soddisfecero. Gli parve che, a curare i mali dell’uomo, non valessero né
le interminabili disquisizioni dei filosofi né le crudeli macerazioni ascetiche, valide, queste,
tutt’al più a ingenerare, assieme alla debolezza del corpo, anche la stanchezza dello spirito.
Decise allora di abbandonare i compagni, per tentare tutto solo un’altra strada, quella della
contemplazione e della meditazione silenziosa. La leggenda narra che, durante questa nuova
esperienza, Gautama fu più volte assalito da Mara, lo spirito del male, che invano cercò di farlo
recedere dalla sua decisione. Questo particolare leggendario sottolinea che il travaglio interiore
di Gautama non fu privo di tentennamenti e di prove: solo dopo una strenua lotta spirituale egli
riuscì ad abbandonare le vecchie credenze e a cercare metodi nuovi. Finalmente, all’età di circa 35
anni, Gautama raggiunse il suo «Risveglio», l’illuminazione personale, la Bodhi, e divenne cos1 il
Buddha. l’Illuminato, il Ridesto.
Nella città di Benares tenne il suo primo sermone sulle «quattro nobili verità» che aveva intuito
nella Illuminazione. Il sermone gli attirò i primi cinque discepoli, che costituirono il nucleo
iniziale della Comunità. Da quel momento il Buddha non si concesse riposo: per 45 anni percorse in
lungo e in largo tutta l’India, annunziando il «suo» messaggio di salvezza con la parola e con
l’esempio. Morì alletà di 80 anni, lasciando una Comunità già largamente sviluppata.
I testi
Notizie della vita e della predicazione del Buddha ci sono fornite da un complesso di testi, il cui
numero s’è accresciuto via via nel corso dei secoli fino a formare una vasta biblioteca. Le «
scritture» buddhiste si dividono in tre gruppi: 1) i «Discorsi» (Sutra), in cui si ritiene siano
conservate le parole autentiche del Buddha; 2) gli scritti sulla vita monastica (Vinaya); 3) i
trattati dogmatici o di «Dottrina Astratta» (Abhidhamma). I testi più importanti sono i Sutra.
Ciascuno di essi contiene un sermone dell’Illuminato, sia che questi l’abbia realmente tenuto, sia
che lo scrittore l’abbia udito in visione, mentre era in uno stato di raccoglimento in se stesso.
Data la molteplicità delle lingue parlate in India, gli scritti buddhisti sono redatti in lingue
differenti. La loro diffusione fuori dell’India ebbe come conseguenza un enorme lavoro di
traduzione. Su tutte emerge, per la sua mole, la raccolta cinese.
Tutti insieme, questi scritti costituiscono l’immenso canone buddhista, ma in senso diverso da
quello che rappresentano, per esempio il Corano e la Bibbia. Infatti il Buddhismo non ha mai
considerato «chiuso», nel tempo e nel contenuto, il suo canone. Questa «Scrittura» è una grande
raccolta, dalla quale le singole correnti e i singoli gruppi scelgono come «canonici» i libri per
essi più importanti, mentre considerano solo subordinatamente gli altri, quando addirittura non li
rifiutano.
La dottrina
La dottrina annunziata originariamente da Siddharta Gautama può essere oggi ricostruita solo in modo
ipotetico, poiché non abbiamo alcun documento che si riferisca direttamente e immediatamente alla
sua predicazione. Tuttavia sembra certo che il suo insegnamento essenziale sia espresso nel discorso
di Benares, nel quale il Buddha annunziò le «quattro nobili verità», fondamento di tutto il
Buddhismo. In quel discorso Gautama, prescindendo da ogni questione metafisica, indicò in maniera
pratica una terapia spirituale, una sicura via di salvezza agli uomini soggetti al samsara e immersi
in un mondo misero, perituro e fallace.
Elencate appunto in termini terapeutici, le quattro nobili verità possono essere così enunciate:
1) Diagnosi: qualsiasi esistenza è dolore. Nascita, vecchiaia, malattia, morte, separazione dagli
esseri amati, possesso e privazione, desideri insoddisfatti, tristezza, pena, angustia, angoscia
sono dolore.
«Dolore è la nascita, dolore è la malattia, dolore è la vecchiaia, dolore è la morte, dolore è
l’unione con ciò che si ama, dolore è non ottenere ciò che si desidera» (Mahavagga, I, 1-2).
2) Eziologia: origine del dolore è il desiderio; sia il desiderio di divenire sia quello di
estinguersi. Esso costituisce l’essenza del karman e causa la rinascita.
«Dal desiderio nasce il dolore; dal desiderio nasce il timore; chi è libero da desiderio non conosce
dolore: difatti, di che cosa dovrebbe tèmere?
-Dalla sete di vivere nasce il dolore, dalla sete nasce il timore; chi è libero da sete non conosce
dolore: difatti, di che cosa dovrebbe temere? » (Dhammapada, 215-216).
3) Guarigione: lo spegnimento del dolore consiste nello spegnimento del desiderio.
«Chi ha raggiunto la consumazione (dell’esistenza), che non trema più, la cui sete è scomparsa, che
è senza macchia, che ha troncato i pungoli dell’esistenza, (di costui) quello attuale è l’ultimo
corpo (di cui si riveste).
Colui la cui sete è scomparsa, che è privo di attaccamento, che conosce la composizione delle
lettere e la loro collocazione (= che intende l’insegnamento e)o interpreta rettamente), costui, che
ha ricevuto il suo ultimo corpo, è detto Gran Saggio e Grande Uomo» (Dhammapada, 351-352).
4) Terapia: la via allo spegnimento del desiderio è il nobile ottuplice sentiero.
«Colui che, invece, cerca rifugio nel Buddha, nella Legge e nella Comunità, scorge con retta
cognizione le quattro nobili verità: il dolore, l’origine del dolore, la cessazione del dolore e il
nobile ottuplice sentiero che conduce all’acquietamento del dolore» (Dhammapada, 190-191).
Constatata l’universalità del dolore, Gautama Buddha trova nel desiderio l’origine e la causa di
ogni sofferenza: desiderio o cupidigia di piaceri sensuali, sete d’esistenza, sete di perennità,
sete di annientamento. Questa sete viene dall’ignoranza (avidya), cioè dalla falsa credenza in un
«io» concepito come individuale. Per Buddha, quella che ordinariamente noi occidentali chiamiamo
anima non è un’entità spirituale, un essere a sé, ma è solo un composto variabile e precario di
aggregati indecomponibili. Egli respinge l’idea brahmanica di un « sé » concepito come entità
spirituale che trasmigra di corpo in corpo, in quanto ciascun essere vivente non è altro che un
insieme di fenomeni psico-fisici in perpetuo divenire.
Questi aggregati, questi elementi semplici (naturali, spirituali e morali) che costituiscono
l’individuo, non si annullano con la morte: continuano ad agire di là dalla decomposizione del corpo
fisico e pongono le basi della vita di nuovi individui. Pertanto la concezione buddhistica della
rinascita non è da confondersi con quella induistica della trasmigrazione delle anime. Nel samsara
buddhistico non c’è nulla che trasmigra, che si trasferisce di corpo in corpo. Esistono delle onde
di vita, tanti desideri non estinti, che costituiscono altrettante forze aggreganti degli elementi
psico-fisici e che si manifestano qui come uomo, là come animale, altrove come dèmone. Queste onde,
queste correnti di elementi semplici, che continuamente s’aggregano e si disgregano, obbediscono
alla legge della causalità morale, al karman.
Dunque, lio non esiste:
«Come là dove le parti di un carro si trovano riunite, si suole usare la parola “carro”, che in sé
non esiste, così là dove i fenomeni psico-fisici sono riuniti, si suole usare la parola “io”, ma in
effetti l’io non esiste come entità a sé» (Samyutta-nikâya I, 135).
Se l’io non esiste, niente posso dire che sia «mio». È la falsa credenza nell’io e nel mio, è
l’ignoranza che ci spinge ad attaccarci a ciò che è caduco e non ci appartiene, creando così in noi
la sete di vivere, generatrice del dolore. Per guarire il male, per ottenere la cessazione della
sofferenza, non c’è che un rimedio unico e radicale: la distruzione dell’ignoranza e l’ estinzione
del desiderio, in una parola, il nirvana.
Il termine sanscrito «nirvana» significa «cessazione», «spegnimento»; indica quindi il cessare di
ogni impulso vitale, di ogni passione, di ogni mutazione.
« L’annullamento della cupidigia, l’annullamento dell’odio, l’annullamento dell’errore, ecco ciò che
è chiamato nirvana o santità» (Samyutta-nikâya IV, 251).
Nirvana è, dunque, uno stato di pace perfetta. Esso non è identico all’annichilarsi; bensì è una
conquista positiva, quarto grado della santità e, come tale, raggiungibile già in questa vita. Ma
dopo la morte, dopo la dissoluzione del corpo, il nirvana non è forse la fine di tutto? Non è forse
la dissoluzione definitiva e totale? Sembra che non vi sia altra possibilità: l’ anima individuale
non esiste, il karman non esiste più. Il Buddha ha rifiutato qualsiasi spiegazione al riguardo. Il
suo procedimento è pragmatico. Pertanto egli rifiuta come non necessarie tutte le spiegazioni che
non mirano direttamente allo scopo di liberare dal dolore.
«Alle domande: “Il mondo è eterno o non eterno? Il mondo è infinito o non finito? L’ anima e il
corpo sono uno o non sono uno? Il santo dopo la morte esiste in un senso e non esiste in un altro
senso? Oppure né esiste né non esiste? “, il Buddha rispose col silenzio» (Dîgha-nikâya I, 187).
Cercare di rispondere a tali interrogativi sarebbe addirittura nocivo, giacché si ritarderebbe il
conseguimento del fine ultimo, che è il nirvana.
« Un uomo ferito da una freccia cerca di estrarsela, senza mai domandarsi di quale materia sia
fatta» (Majjhima-nikâya I, 426).
Per il Buddha, il nirvana e una realtà che non può essere oggetto di speculazione o di intuizione
intellettuale, è un’esperienza spirituale perfettamente positiva, quantunque indefinibile e
indescrivibile, che si può provare fin da quaggiù in terra, ma che per il vivente non si può
caratterizzare che in opposizione, e per ciò stesso in relazione, a ciò che del nirvana è negazione:
l’esistènza:
L’ottuplice sentiero
La via salvifica che conduce al nirvana è riassunta nell’ottuplice sentiero e costituisce, per la
sua moderazione, un. sorprendente contrasto coi metodi di salvezza raccomandati dalle altre correnti
religiose contemporanèe. Essa evita tutti gli estremi, sia la tendenza all’edonismo sia l’ascesi
eccessivamente severa. Questa moderazione ha meritato al Buddhismo la denominazione di Via Media.
La via di mezzo, proposta dal Buddha, comprende otto corsie o otto fattori necessari al
conseguimento della liberazione dal samsâra: due sono di ordine intellettuale (retta comprensione,
retta intenzione); tre riguardano il comportamento morale (retta parola, retta azione, retto
contegno); tre infine dipendono dalla disciplina mentale (retto sforzo, retto ricordo, retta
concentrazione).
I primi due fattori significano che non può esserci retta intenzione senza un corretto atteggiamento
spirituale: non si può intraprendere il cammino che conduce alla liberazione, se prima non si
penetrano la dottrina delle quattro nobili verità e quella dei caratteri dell’essere individuale, se
cioè non si vede chiaramente che l’individualità è legata alla sofferenza, che la distruzione della
sete d’esistenza è necessaria alla cessazione della sofferenza e che non c’è affatto un « io »
permanente. Questa retta comprensione delle cose è in grado di determinare una retta intenzione,
cioè quella di estinguere la sete d’esistenza individuale.
La retta intenzione si esprime nella condotta morale, vale a dire in una conformità dell’azione
esteriore con la risoluzione interiore. Retta parola vuol dire veracità, dolcezza e decenza nel
parlare; retta azione significa rispettare i cinque precetti obbligatori: non uccidere alcun essere
vivente, non rubare, non commettere atti contrari alla castità, non dire parole menzognere,
astenersi dalle bevande alcooliche. Retto contegno vuol dire operare sempre con onestà (cf.
l’honestas dei latini) e purezza d’intenti.
I tre ultimi fattori, quelli dipendenti dalla disciplina mentale, richiamano l’attenzione
sull’importanza della vita interiore. Il retto sforzo è il controllo e la padronanza della vita
spirituale; il retto ricordo è uno stato di continua vigilanza e lucidità d’intenti, che proviene
ogni rilassamento dello sforzo; la retta concentrazione è uno stato di profonda calma interiore
(samâdhi), raggiungibile attraverso un lungo esercizio di meditazione, che consiste nello staccare
progressivamente lo spirito da ogni esperienza sensibile ed esterna. È enstasi, è uno stato di
sopracoscienza che permette di raggiungere il nirvana fin da questa vita, anche se permane ancora
una certa esperienza sensibile.
Questo stato di coscienza superiore continuerà anche dopo la morte? Pare che il Buddha lasciasse
supporre di si.
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