La vita è così

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La vita è così

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Federico Petrangeli

Testo adattato di un discorso pronunciato il 18 aprile 1999 presso lo
Spirit Rock Meditation Centre (USA).

Prima di diventare monaco facevo l’insegnante di inglese a Bangkok.
Era il 1966 e in Thailandia c’erano molte basi militari dell’aviazione
americana. Uno degli insegnanti della scuola di lingue era un aviatore
americano. Una volta, quando tornò dopo un’assenza di circa una
settimana, gli chiesi dove fosse stato. Mi rispose: “Sono stato in un
posto del nord-est della Thailandia dove la gente è così povera che
mangia gli insetti”. Pensai: “Io non ci andrò mai”. Mi vedevo
piuttosto come un monaco seduto in samadhi sulla spiaggia, sotto una
palma, oppure in una caverna tra montagne incantevoli, impegnato nella
realizzazione della verità. Ovviamente sono finito a fare il monaco
nel nordest della Thailandia per dieci anni, ed è vero, laggiù
mangiano insetti.

Il primo anno in monastero lo passai da solo, in una piccolo capanna.
Non scambiavo praticamente parola con nessuno, meditavo soltanto.
Riuscivo a seguire piuttosto bene i miei programmi. Essendo americano,
alto e corpulento, mi bastava gonfiare il petto e assumere
un’espressione fiera per ottenere tutto quello che volevo. Durante
quell’anno arrivai a rendermi conto che ero diventato molto arrogante,
con quel tipo di carattere che ha bisogno di avere dei limiti. Ero
sempre stato una persona molto indipendente; ora avevo bisogno di
imparare a obbedire e a far parte di una comunità. Avevo bisogno di un
insegnante che non si rassegnasse al mio carattere.

Per caso un monaco del monastero di Ajahn Chah, l’unico che sapeva
l’inglese, visitò il monastero dove vivevo. E finì che mi portò con
sé, a conoscere Ajahn Chah. L’idea di vivere nella tradizione
tailandese della Foresta mi ispirava molto, così decisi di rimanere.
All’inizio ero affascinato dalla vita nel monastero e mi sentivo molto
ispirato, ma ben presto iniziarono le difficoltà. La luna di miele
finì, e la vecchia mente giudicante riprese il sopravvento. Prese a
fare molto caldo, iniziò la stagione del monsone, e tutto diventò
fradicio e maleodorante. Così cominciai ad odiare quel posto. Ricordo
che sedevo pensando: “Perché sono qui?”.

Ajahn Chah amava testare la resistenza della nostra pazienza fino al
punto in cui non pensavamo che ce l’avremmo fatta a resistere un altro
minuto. Per me era diventato una specie di koan. Sentivo la mia voce
ripetere: “Non ce la faccio più… Ne ho abbastanza. Questa è la FINE!”.

Poi ho scoperto che potevo resistere ancora. Cominciai a non fidarmi
più di questo lamento isterico interiore, che dentro di me diceva
continuamente: “Sono stufo, non ce la faccio più”. Da questo punto di
vista lo stato monastico e le condizioni di vita che impone mi furono
di grande aiuto.

Ma c’erano anche un sacco di abitudini che resistevano alla vita
monastica. Essendo americano, cresciuto con un ideale di vita di
libertà e di uguaglianza, mi sentivo incredibilmente frustrato,
soffocato da quel sistema. Vivevo in una struttura gerarchica fondata
sull’anzianità. Ed essendo il monaco più giovane, dovevo svolgere una
serie di compiti per i monaci più anziani. Imparare ad accettare
questi doveri e a prendere interesse al loro svolgimento fu per me una
grossa sfida. C’era la parte egoista di me che avrebbe voluto vivere
la vita monastica nei suoi propri termini. Avrei voluto decidere di
svolgere determinati compiti solo se lo avessi ritenuto utile per me;
ma nella maggior parte dei casi non era così. Sentivo dentro di me una
specie di resistenza e un sentimento di ribellione.

Nello stesso tempo, c’era una continuo incoraggiamento a prendere
reale coscienza di quello che stavo provando: la resistenza, la
ribellione, l’atteggiamento di critica. Erano emozioni che emergevano
e che potevano essere osservate durante la meditazione. Divenni
consapevole della mia ostinazione, di un’immaturità che mi faceva
brontolare e lamentarmi se le cose non andavano come volevo. L’enfasi
era sul coltivare la consapevolezza di quello che stavo provando, così
fu un periodo piuttosto interessante. Non ero certo spinto al
conformismo, come se fosse un campo militare. Nessuno mi costringeva a
stare in quel luogo, ero stato io a scegliere di vivere lì. Il mio
impegno era di adeguarmi alla disciplina, di arrendermi alla vita
monastica.

Adattarmi ad una vita monastica così rigida e tradizionalista
includeva imparare a mangiare cibo che non amavo particolarmente. La
gente del villaggio poteva portare piatti piccanti di curry con pollo,
con pesce o con rane. E magari Ajahn Chah rovesciava tutto in una
catino e mischiava. Era terribile. Oppure poteva capitare che per il
nostro pasto le monache raccogliessero qualcosa nel bosco, ad esempio
delle foglie. Ricordo che scrivevo a mia madre: “Vado avanti mangiando
foglie”. E lei mi rispondeva con lettere molto preoccupate.

All’inizio non riuscivo a mangiare. Solo vedere il cibo mi faceva star
male. Per fortuna eravamo nella stagione dei manghi, e c’erano grandi
vassoi di manghi. Così riuscii ad andare avanti un mese intero
nutrendomi di manghi e riso glutinoso. Ma poi la stagione dei manghi
finì e io ripresi a dimagrire a vista d’occhio. Alla fine cominciai ad
imparare come mangiare. E’ incredibile come possiamo adattarci bene.
Incominciai a pensare che se ero in grado di mangiare quel cibo, sarei
stato capace di vivere dovunque. In nessun posto il cibo sarebbe
potuto essere peggiore di quello.

Qualche volta capitava che noi monaci andassimo tutti in città, nel
retro di un grande carro. Poi si camminava per un giro di questua con
Ajahn Chah. Era davvero una bella esperienza. Stavano tutti al bordo
della strada principale, la gente aveva ogni tipo di cibo e lo versava
nelle nostre ciotole. Quando le ciotole erano piene, qualcuno veniva
con un grande cesto, noi versavamo il cibo nel cesto e andavamo
avanti. Quando tornavamo al monastero, potevamo scegliere cosa
mangiare tra quello che era rimasto nelle nostre ciotole. Era
un’occasione così rara che ci faceva davvero perdere la testa. Una
volta una donna mise nella mia ciotola una piccola torta. Quando
arrivò il momento di versare il contenuto della ciotola nel cestino
più grande, cercai di trattenere la torta nella ciotola. Non volevo
che l’uomo che portava il cestino si accorgesse di quello che stavo
cercare di fare, e la mia mente fu invasa da ogni genere di pensiero
contorto. Era incredibile vedere con quanto sforzo e con quanta ansia
cercassi di trattenere la torta. Ne ero totalmente ossessionato.

Mi scoprì anche ossessionato dai dolci. Vivendo nel celibato, ogni
forma di attività sessuale è vietata. Questo limita il piacere che si
può provare. Possiamo solo mangiare un pasto al giorno, spesso senza
niente di particolarmente buono. Però ci sono permessi, se sono
offerti, lo zucchero e il miele, come tonici. Una volta Ajahn Chah mi
diede un sacchetto di zucchero. Ero così felice. Pensai: “Lo assaggio
solamente”. Così aprii il sacchetto, ci infilai un cucchiaino, lo
riempii e lo misi in bocca. Dopo un quarto d’ora avevo finito il
sacchetto. Non riuscivo a fermarmi. A volte sognavo i dolci: andavo in
pasticceria, mi sedevo e ordinavo delle torte dall’aspetto squisito.
Appena ero sul punto di mangiarne una mi svegliavo.

La mente fa un sacco di scherzi. Quando si vive in una condizione in
cui non si possono soddisfare tutti i propri desideri e non si può
fare semplicemente ciò che si vuole, possono sorgere strane sensazioni
e incredibili forme di desiderio su cose che prima non erano mai state
un problema. Quando ero laico i miei desideri erano estesi su un gran
numero di cose; nella vita monastica si erano tutti concentrati sullo
zucchero e sui dolci. Eccomi là, un monaco che aveva ricevuto la piena
ordinazione, che cercava di condurre una vita spirituale, e che si
comportava come un fantasma affamato, sognando zucchero e dolci. Un
altro monaco americano che aveva perfino la madre che gli spediva
pacchi pieni di caramelle e di dolci al cioccolato.

Essendo il desiderio così concentrato, potevo però contemplarlo
facilmente. Imparare a riflettere su questi desideri, su queste
ossessioni della mente, è molto importante. E’ in queste circostanze
che spesso abbiamo bisogno dei precetti per evitare di seguire le
nostre abitudini o quella che è solo la via più semplice, quale che
sia. I precetti ci aiutano ad osservare le sensazioni che sorgono, le
nostre reazioni, e i risultati del nostro comportamento. Le
restrizioni e il controllo che sono imposti dai precetti ci danno il
senso del limite. Con consapevolezza riflessiva, impariamo a notare
quanto forti possono essere gli impulsi e le ossessioni della mente.
Possiamo vederli come oggetti mentali, piuttosto che come bisogni da
soddisfare. Anche se a volte la mente urla: “Non ce la faccio più!”,
la verità di tutta la faccenda è che possiamo tranquillamente farcela.
Gli esseri umani hanno straordinarie capacità di resistenza. Se
impariamo a esercitare un controllo su noi stessi, a non essere
semplicemente trascinati dall’impeto dell’impulsività, allora iniziamo
a trovare forza nella pratica. Non dobbiamo necessariamente essere
schiavi delle abitudini e degli istinti.

Le molte regole della vita monastica sono basate su questo controllo.
Una delle regole che all’inizio mi irritava veramente era quella che
riguardava le vesti. Quando diventiamo monaci, ci viene dato un abito
composto da tre vesti. Nella tradizione delle Foresta c’è l’usanza di
indossare tutte e tre le vesti quando si esce per il giro mattutino
della questua. Di mattino faceva molto caldo, e noi dovevamo sempre
camminare parecchio, attraverso risaie e villaggi. Così, al ritorno,
le vesti erano zuppe di sudore. Le vesti erano colorate con una tinta
naturale di albero del pane e così, dopo un po’, la miscela di sudore
e tinta di albero del pane cominciava a odorare terribilmente.
Sembrava una vita incentrata sulle vesti: usare le vesti, lavare le
vesti, cucire le vesti. Ma io non volevo avere una vita incentrata
sulle vesti: io volevo meditare.

Trovavo tutto questo incredibilmente frustrante. Ricordo che una volta
dissi a un altro monaco: “Questa di mettersi tutte le vesti è
un’usanza stupida. Tutto quello che ci serve è una veste leggera, che
ci copra adeguatamente. E’ molto difficile fare le nostre vesti
pesanti, ci vuole tanta stoffa e usandola tutti i giorni nel caldo si
deteriorano facilmente. Così dobbiamo farne altre, e questo significa
più stoffa, più tinta, più cucito”. Ne feci un buon motivo per non
mettermi tutte e tre le vesti, essendo la persona ragionevole che
sono. Ma in realtà stavo solo piagnucolando e lamentandomi.

Il monaco raccontò tutto ad Ajahn Chah, che mi fece chiamare. Ero così
imbarazzato. Improvvisamente mi apparve chiaro: perché fare un
problema di tutto questo? Indossa semplicemente quelle vesti! Non vale
la pena di fare queste scene. Lo posso sopportare. Non manderà in
rovina la mia vita. Quello che mi sta rovinando la vita è la mia mente
lagnosa, che dice: “Non voglio fare questo, questo è stupido, non ne
vedo il motivo!”. Questa continua recriminazione mi stava consumando
dal di dentro: affliggersi, criticare, avere opinioni rigide,
stufarsi, voler andar via, rifiutarsi di collaborare, lamentarsi della
vita. Questa è la sofferenza che non potevo sopportare. Mi resi conto
che anche per la maggior parte della mia vita prima di diventare
monaco, anche nel pieno di una vita confortevole, avevo l’abitudine di
lamentarmi e di vedere le cose incessantemente con occhi critici.

Queste sono le cose che possiamo contemplare. Non possiamo controllare
cosa sorge nella nostra mente, ma possiamo contemplare le nostre
reazioni e imparare da questo, piuttosto che essere trascinati,
impotenti, dalle reazioni istintive e dalle cattive abitudini. Anche
se ci sono molte cose della nostra vita che non possiamo cambiare,
possiamo cambiare il nostro atteggiamento nei confronti della vita. In
fin dei conti la meditazione è soprattutto questo: cambiare il nostro
atteggiamento, passare da un atteggiamento auto-centrato, del tipo di
“liberati di questo oppure prendi più di quest’altro!”, a un
atteggiamento di accoglienza benevola della vita in quanto tale. Per
accogliere l’opportunità di mangiare cibo che non ci piace, di vestire
con tre vesti in una giornata caldissima. Per accogliere il disagio,
l’essere stufi, la voglia di fuggire via. Questo modo di accogliere la
vita esprime una comprensione profonda. La vita è così. Qualche volta
è bella, qualche volta è orribile, e la maggior parte del tempo non è
né l’una né l’altra cosa. La vita è così.

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