La vita “miracolosa” del Dalai Lama

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La vita “miracolosa” del Dalai Lama

Tratto da:
“Il Dalai Lama ci parla”
di John F. Avedon
Traduzione italiana di Francesco Settanni
Chiara Luce Edizioni – Pomaia

– La Sua Vita –

J.A.: Qual’è stata la sua prima sensazione quando venne riconosciuto come il
Dalai Lama?

D.L.: Ero molto felice. Mi piaceva molto. Anche prima d’essere riconosciuto,
dicevo spesso a mia madre che sarei andato a Lhasa. Mi mettevo a cavalcioni
sul davanzale della finestra, nella nostra casa, facendo finta di cavalcare
verso Lhasa. A quel tempo ero un bambino molto piccolo, ma ora ricordo
chiaramente che avevo un grande desiderio d’andare a Lhasa. Un’altra cosa
alla quale non ho accennato nella mia autobiografia (1) è che, dopo la mia
nascita, due corvi vennero a posarsi sul tetto della nostra casa. Arrivavano
ogni mattina, si fermavano per un po’, e poi se ne andavano. Questo è
particolarmente interessante perché la stessa cosa è successa in occasione
della nascita del Primo, Settimo, Ottavo e Dodicesimo Dalai Lama. Dopo la
loro nascita, apparve una coppia di corvi che sostò qualche tempo. Nel mio
caso, nessuno prestò attenzione a questo fatto. Tuttavia recentemente, forse
tre anni fa, mentre stavo parlando con mia madre, si è ricordata di questo
fatto. Li aveva visti arrivare al mattino, ripartire dopo un po’ – e tornare
il mattino seguente. Ora, la sera dopo la nascita del Primo Dalai Lama,
alcuni banditi avevano fatto irruzione nella casa della sua famiglia e i
genitori erano scappati abbandonando il bambino. Quando tornarono il giorno
seguente, chiedendosi cosa fosse accaduto a loro figlio, trovarono il
bambino in un angolo della casa, un corvo stava davanti a lui e lo
proteggeva. Più tardi, quando il Dalai Lama crebbe e sviluppò la sua pratica
spirituale, attraverso la meditazione stabilì un diretto contatto con la
divinità protettrice Mahakala (2). A quel tempo Mahakala gli disse: “Chi
come te sostiene l’insegnamento Buddhista ha bisogno di un protettore come
me. Io ti ho aiutato proprio nel giorno della tua nascita”. Dunque possiamo
vedere che esiste una precisa connessione tra Mahakala, i corvi e i Dalai
Lama.

C’è un’altra storia a questo proposito: una volta gli scolari di Nalanda
(3), la grande Università Buddhista, vennero sfidati da Ashvaghosha, un
famoso maestro Hindu, a sostenere un dibattito. A quel tempo, la tradizione
voleva che chiunque fosse sconfitto in un dibattito dovesse convertirsi alla
fede del vincitore. Ora Nalanda era la più importante università Buddhista,
se fosse uscita sconfitta dal dibattito l’insegnamento avrebbe sofferto un
danno grave. Gli allievi erano talmente preoccupati che decisero di mandare
a chiamare Nagarjuna (4), il più grande erudito di quel tempo. Tuttavia
Nagarjuna era molto lontano, nel sud dell’India, troppo lontano perché un
uomo gli potesse portare il messaggio. Poiché non c’era tempo, decisero di
sottoporre il caso a Mahakala. Pregarono e eseguirono una elaborata
cerimonia rituale, poi deposero la lettera che avevano scritto davanti alla
statua di Mahakala, allora Mahakala – attraverso la statua emanò un corvo
che prese la lettera e partì per il sud dell’India. Quando Nagarjuna
ricevette la lettera, capì che Nalanda era in una situazione disperata e
decise che il suo discepolo Aryadeva sarebbe stato il migliore per dibattere
con Ashvaghosha.

Quindi preparò Aryadeva impegnandolo in un serrato dibattito. Ad un certo
punto, Aryadeva si lasciò trascinare e si comportò in modo leggermente
orgoglioso con il proprio maestro. Nagarjuna gli disse di non preoccuparsi,
ma che a causa di ciò sarebbe sorta una “originazione dipendente” (5)
negativa. Nel viaggio verso Nalanda, Aryadeva fu assalito da un gruppo di
banditi e perse un occhio. Nonostante ciò, arrivò a Nalanda e batté con
successo Ashvaghosha. Ashvaghosha divenne allora discepolo di Nagarjuna e in
seguito scrisse i propri libri.

J.A.: La connessione con il corvo è dovuta al fatto che e nero come
Mahakala, o c’è qualcosa nel corvo in sé stesso? Da allora, sono apparsi
altri corvi nella sua vita?

D.L.: In realtà i corvi non mi piacciono. I corvi di solito sono molto
crudeli con gli uccelli piccoli perché li disturbano sempre e li attaccano
anche. Un’altra cosa che mia madre ricorda molto chiaramente è che, poco
dopo il mio arrivo a Lhasa, dissi che i miei denti erano in una scatola in
un certo padiglione del Norbulinka. Quando la scatola venne aperta, venne
trovata una serie di denti del Tredicesimo Dalai Lama. Avevo indicato la
scatola dicendo che i miei denti erano là dentro, ma adesso non ricordo
affatto questo episodio. I nuovi ricordi associati a questo corpo sono più
forti e il passato è diventato distante e vago. A meno che io non faccia uno
sforzo preciso per sviluppare quel tipo di memoria, non lo ricordo.

J.A.: Si ricorda della sua nascita o di quando si trovava nel ventre
materno?

D.L.: In questo momento non ricordo. Non ricordo nemmeno se me lo ricordavo
al tempo in cui ero un bambino piccolo. Comunque forse c’era un piccolo
segno esteriore: i bambini di solito nascono con gli occhi chiusi, io sono
nato con gli occhi aperti. Questo potrebbe essere un piccolo segno di un
chiaro stato mentale mentre ero nel ventre.

J.A.: Quando era un ragazzino, cosa provava ad essere trattato dagli adulti
come una persona importante? Era apprensivo o addirittura spaventato da
tanta riverenza?

D.L.: I Tibetani sono gente molto pratica. I Tibetani anziani non mi
avrebbero mai trattato in quel modo. Comunque avevo molta fiducia in me
stesso. Quando mi avvicinai per la prima volta a Lhasa, nella piana di
Debuthang, l’oracolo di Nechung venne per verificare ancora una volta se ero
l’uomo giusto. Con lui venne un ghesce del collegio Loseling (6) del
monastero di Drepung, molto anziano e molto rispettato in quanto altamente
realizzato (7). Era profondamente interessato a scoprire se io fossi o meno
la persona giusta. Commettere un errore nel ritrovamento del Dalai Lama
sarebbe stato molto pericoloso. Questo Ghesce era un religioso, non un uomo
di governo. Venne nella tenda dove mi trovavo durante un’udienza di gruppo,
e stabilì che ero indiscutibilmente l’uomo giusto. Così, sebbene ci fossero
molte persone rispettabili e anziane, ad esaminarmi, si direbbe che io abbia
recitato bene la mia parte e che le abbia convinte tutte (ride). Non mi sono
mai sentito a disagio nella mia posizione. Gharles Bell (8) riferisce che
reagivo a tutto con completa naturalezza. Una sera ho voluto andare a vedere
mia madre che era venuta a Lhasa con il resto della mia famiglia. Ero nella
tenda del Reggente. Davanti all’ingresso c’era una guardia del corpo molto
robusta. Era sera, al tramonto, e quest’uomo aveva un occhio malridotto,
ricordo che allora ho avuto paura e terrore di uscire dalla tenda. Ci sono
molte storie e avvenimenti, quando si parla di rinascita.

J.A.: Potrebbe descrivere i sentimenti che ha provato per i suoi maestri.
Sembra che abbiano avuto un ruolo importante nella sua educazione.

D.L.: Niente di particolare. Quando ragazzo incontrai per la prima volta
Ling Rimpoce (9), ne fui un po’ spaventato. Crescendo, il timore è
gradualmente scomparso e il rispetto ha preso il suo posto. Ecco, non è
molto.

J.A.: Si sentì cambiato, tra i 16 e 18 anni, dopo l’assunzione del potere
temporale?

D.L.: Sì cambiai… un poco. Ho trovato molta gioia e molto dolore in questo
contesto e per la crescita, guadagnando maggiore esperienza; sono cambiato
per i problemi che ho dovuto affrontare e la sofferenza connessa. Il
risultato finale è l’uomo che lei vede adesso (ride).

J.A.: Cosa può dirmi del periodo dell’adolescenza? Molta gente ha delle
difficoltà nel definirsi come un adulto. È successo anche a lei?

D.L.: No. Gran parte della mia vita era routine: studiavo due volte al
giorno, ogni volta studiavo un’ora, e poi passavo il resto del tempo a
giocare (ride). Poi, a 13 anni, ho cominciato a studiare filosofia,
definizioni, dibattito. Il mio programma di studio era aumentato e studiavo
anche calligrafia. Comunque faceva tutto parte di una routine e mi ci
abituai. Ogni tanto c’erano delle vacanze, durante le quali ero a mio agio
ed ero felice. Losang Samten, il fratello nato prima di me, di solito era a
scuola, ma in questi periodi veniva a farmi visita. Occasionalmente mia
madre portava anche del pane speciale della nostra provincia di Amdo. Era
molto spesso e delizioso, lo faceva lei stessa.

J.A.: Durante la crescita, ha avuto l’opportunità d’avere un rapporto con
suo padre?

D.L.: Mio padre è morto quando avevo 13 anni. È scritto nel mio libro.

J.A.: C’è qualcuno dei suoi predecessori con il quale sente una particolare
affinità o interesse?

D.L.: Il Tredicesimo Dalai Lama. Apportò molti miglioramenti al programma di
studio dei collegi monastici e incoraggiò grandemente i vari studiosi. Fece
in modo che fosse impossibile che qualcuno potesse avanzare nella gerarchia
religiosa, diventando abate o altro, se non era pienamente qualificato. Era
molto rigido a questo proposito. Diede anche migliaia d’ordinazioni da
monaco. Questi sono stati i suoi principali obbiettivi religiosi che ha
portato a termine. Non ha dato molte iniziazioni, né tenuto molti discorsi.
Riguardo al paese, diede grande importanza e considerazione
all’organizzazione dello Stato, in particolare delle regioni di confine, a
come dovevano essere governate e così via. Desiderava una maggiore
efficienza nel governo e la questione dei confini e di cose analoghe gli
dava grandi preoccupazioni.

J.A.: Nel corso della sua vita, secondo lei, quali sono state le lezioni o i
problemi interni più importanti che ha avuto? Quali realizzazioni ed
esperienze hanno inciso maggiormente sulla sua crescita come individuo?

D.L.: Per quanto riguarda l’esperienza religiosa è stata una certa
comprensione della vacuità (10) – una certa percezione, qualche esperienza
ma soprattutto mi ha molto aiutato bodhicitta (11), l’altruismo. In un certo
senso, si può dire che ha fatto di me una persona nuova, un uomo nuovo. Sto
ancora cercando di progredire. La Bodhicitta dà forza interiore, coraggio,
ed è più facile accettare le situazioni: questa è una delle più grandi
esperienze.

J.A.: A proposito di bodhicitta, si riferisce ad un progressivo
approfondimento della realizzazione o a un particolare momento associato a
un’esperienza esterna?

D.L.: Mi riferisco principalmente alla pratica interiore. Potrebbero esserci
anche cause o circostanze esterne. Dei fattori esterni potrebbero aver avuto
un ruolo nello sviluppo di una propensione per la bodhicitta. Ma deve
derivare principalmente dalla pratica interiore.

J.A.: Può indicare un momento specifico della sua pratica in cui ha sentito
di aver superato una soglia?

D.L.: A proposito della teoria della vacuità, prima la teoria della vacuità,
poi l’esperienza di bodhicitta… circa nel ’65 ’66, in quel periodo. Ma
veramente questo è un argomento molto personale. Per un vero praticante
religioso queste cose devono rimanere private.

J.A.: D’accordo. Non faro domande sulle sue esperienze più profonde, ma nei
termini del corso della sua vita – degli eventi della sua vita – come hanno
influito su di lei come uomo? In che modo e cresciuto sperimentandole?

D.L.: Il fatto d’essere un rifugiato è stato molto utile: si è molto più
vicini alla realtà. Quando ero in Tibet, come Dalai Lama, cercavo di essere
realistico, ma in qualche modo, a causa delle circostanze credo che avessi
un certo distacco. Ero un po’ isolato dalla realtà. Diventai un rifugiato,
molto bene. Così avevo una buona occasione per acquisire dell’esperienza,
insieme a della determinazione o forza interiore.

J.A.: Quando diventò un rifugiato, cosa l’ha aiutata ad acquisire questa
forza? È stata la perdita della sua posizione e del suo paese, il fatto che
tutti soffrissero intorno a lei? Le e stato chiesto di guidare il suo popolo
in modo diverso da come era abituato?

D.L.: Essere un rifugiato è veramente una situazione disperata e pericolosa.
In quel momento tutti si trovano davanti alla realtà. Non è il momento di
far finta che tutto sia meraviglioso. Questo è un fatto. Ti senti coinvolto
nella realtà. In tempo di pace, ogni cosa va secondo le previsioni e, anche
se c’è un problema, la gente fa finta che vada tutto bene. In tempo di pace
e di tranquillità è possibile agire così, ma in un momento di pericolo,
quando si produce un cambiamento drammatico, allora non c’è ragione di
fingere che tutto va bene. Devi accettare il male in quanto male. Ora,
quando lasciai il Norbulinka, la situazione era pericolosa. Passammo molto
vicino alle baracche militari cinesi. Il posto di guardia cinese era proprio
dall’altra parte del fiume. Vede, due o tre settimane prima che partissi
avevamo ricevuto informazioni precise che i Cinesi erano pronti ad
attaccarci. Quello che non sapevamo era il giorno e l’ora.

J.A.: In quel momento, quando attraversò il fiume Kyichu e incontro il
gruppo di guerriglieri Khampa che lo stavano aspettando, assunse
direttamente il comando? Per esempio, chi prese le decisioni riguardanti la
sua fuga?

D.L.: Appena lasciata Lhasa io e altre otto persone abbiamo costituito un
comitato per discutere ogni questione.

J.A.: Fu sua l’idea di renderlo unanime?

D.L.: Sì. Anche coloro che rimasero a Lhasa costituirono un Comitato del
Popolo. Qualcosa come un Consiglio rivoluzionario. Ovviamente, dal punto di
vista dei Cinesi, era un comitato controrivoluzionario. Era stato scelto dal
popolo, vede, in pochi giorni… Organizzarono quel comitato che prendeva
tutte le decisioni più importanti. Ho mandato anche una lettera al comitato,
legittimandolo. Nel nostro piccolo comitato, formato da quelli che fuggivano
con me – discutevamo ogni sera le questioni pratiche. Ci sedevamo insieme e
discutevamo, ma non sempre. In principio, come lei sa, il nostro piano era
di stabilire il nostro quartier generale nel sud del Tibet. Nel mio libro ho
parlato di questo. Dissi anche al Pandit Nehru – credo che fosse il 24
aprile 1959 – che avevamo costituito un governo provvisorio Tibetano,
trasferito da Lhasa al Tibet del sud. Ne parlai casualmente al Primo
Ministro e lui ne fu leggermente scosso (ride). “Non riconosceremo il vostro
governo”, disse, sebbene questo governo fosse stato formato in Tibet, e io
mi trovassi già in India…

J.A.: Vorrei chiederle qualcosa riguardo al fatto d’essere la reincarnazione
di Avalokiteshvara, il Bodhisattva dell’infinita Compassione. Cosa pensa
personalmente a questo riguardo? È qualcosa di cui, in un modo o nell’altro,
ha una visione inequivocabile?

D.L.: È difficile per me dirlo con certezza. A meno che m’impegni in uno
sforzo meditativo, ripercorrendo all’indietro la mia vita da un respiro
all’altro, non potrei dirlo con precisione. Noi crediamo che ci siano
quattro tipi di rinascita: il primo e il tipo comune nel quale un essere è
incapace di determinare la sua rinascita e s’incarna solo in conseguenza
della natura delle azioni passate. Il tipo opposto è quello di un Buddha,
completamente illuminato, che semplicemente per aiutare gli altri manifesta
una forma fisica. In questo caso è chiaro che la persona è un Buddha. Il
terzo tipo è quello in cui, grazie ad una passata realizzazione spirituale,
uno può scegliere o almeno influenzare il luogo e la situazione della
propria rinascita. Il quarto tipo viene chiamato una manifestazione
dell’energia illuminata: in questa rinascita la persona, al di là delle
normali capacità, ha raggiunto lo stato di poter agire per il bene altrui,
per esempio, dando insegnamenti religiosi. Per ottenere quest’ultimo tipo di
rinascita, nelle vite precedenti si deve aver sviluppato un desiderio molto
forte di aiutare gli altri. Così si ottiene questo tipo di potere. Non posso
dire con certezza a quale tipo di rinascita appartengo, sebbene alcuni
sembrino più probabili di altri.

J.A.: Come si sente allora dal punto di vista dell’effettivo ruolo da lei
svolto in qualità di Cenrezig? Storicamente solo poche persone sono state
considerate, in un modo o nell’altro, divine. Questo ruolo è un peso o una
gioia?

D.L.: È di grande aiuto. In questo ruolo, posso essere di grande beneficio
alla gente. Per questo motivo mi piace e mi sento a mio agio. È chiaro che è
di grande aiuto alla gente e che ho la connessione karmica per svolgere
questo ruolo. È chiaro anche che esiste una connessione karmica col popolo
Tibetano in particolare.: Vede, date le circostanze, potrebbe ritenere che
sono molto fortunato. Tuttavia, dietro la parola fortuna, ci sono ragioni o
cause precise. C’è la forza karmica della mia capacità di assumere questo
ruolo e la forza della mia volontà di agire in questo senso. A questo
proposito c’è un’affermazione nel grande testo di Shantideva “Guida allo
stile di vita di un Bodhisattva” che dice: “Fino a quando esisterà lo
spazio, e fino a quando ci saranno dei migratori nell’esistenza ciclica,
possa io rimanere per eliminare la loro sofferenza”. Ho questo desiderio in
questa vita, e so di aver avuto questo desiderio nelle vite passate.

J.A.: Con uno scopo così vasto come motivazione, come supera i suoi limiti
come uomo?

D.L.: Di nuovo, come dice Shantideva: “Se il Buddha benedetto non può
compiacere tutti gli esseri senzienti, allora come potrei farlo io?” Persino
un essere illuminato, con conoscenza e potere infiniti e con il desiderio di
salvare tutti gli esseri dalla sofferenza, non può eliminare il karma
individuale di ciascun essere.

J.A.: È questo che le permette di non sentirsi sopraffatto quando vede la
sofferenza dei sei milioni di Tibetani dei quali, ad un certo livello, è
responsabile?

D.L.: La mia motivazione è diretta verso tutti gli esseri senzienti. Non c’è
dubbio tuttavia che, ad un altro livello, mi dedichi ad aiutare i Tibetani.
Se un problema si può risolvere, se una situazione è tale da poter fare
qualcosa, allora non c’è bisogno di preoccuparsi. Se non c’è soluzione,
allora preoccuparsi non serve a nulla. In ogni caso preoccuparsi non porta
alcun beneficio.

J.A.: Molte persone pensano così, ma pochi riescono a vivere veramente in
questo modo. È sempre stato così, o ha dovuto imparare?

D.L.: Questa attitudine si sviluppa attraverso la pratica interiore. In una
prospettiva più ampia, ci sarà sempre sofferenza. Da un lato è sicuro che si
dovranno sperimentare gli effetti delle azioni negative compiute
precedentemente con il corpo, la parola o la mente. Inoltre, la sofferenza è
insita nella natura stessa dell’esistenza. Nella mia affermazione non
interviene un solo fattore, ma molti fattori differenti. Dal punto di vista
dell’effettiva entità che produce la sofferenza, come ho detto, se c’è
rimedio allora non c’è motivo d’angustiarsi. Se non c’è rimedio,
preoccuparsi non porta alcun beneficio. Dal punto di vista della causa, la
sofferenza è prodotta da azioni negative passate accumulate dall’individuo
stesso e da nessun altro. Questi karma non si esauriscono e daranno il loro
frutto. Non si sperimenteranno gli effetti d’azioni che non si sono commesse
in prima persona. Infine, dal punto di vista della natura della sofferenza
stessa, gli aggregati della mente e del corpo hanno come loro effettiva
natura la sofferenza. Servono da base alla sofferenza. Fino a quando li
avremo saremo soggetti alla sofferenza. Da un punto di vista più profondo,
finché non avremo la nostra indipendenza e saremo ospiti in un paese che non
è il nostro, proveremo un certo tipo di sofferenza, ma quando torneremo in
Tibet e avremo ottenuto la nostra indipendenza, allora avremo altri tipi di
sofferenza. È così. Lei potrebbe credere che sono pessimista, ma non lo
sono. Questo è il realismo Buddhista. Questo è il modo in cui, attraverso
l’insegnamento e il pensiero Buddhista affrontiamo le situazioni. Quando
furono uccise cinquantamila persone della stirpe dei Shakya in un solo
giorno, Buddha Shakyamuni, che pure apparteneva alla stessa stirpe, non
soffrì affatto. Stava appoggiato ad un albero, e diceva: “Sono un po’
triste, oggi, perché 50 mila uomini della mia stirpe sono stati uccisi”. Ma
lui stesso rimase impassibile. Proprio così, vede. (Ride). Questo era la
causa ed effetto del loro karma personale. Non poteva fare niente. Questo
genere di pensieri mi rende più forte, più attivo. Non è assolutamente il
caso di perdere la propria forza e la propria volontà di fronte alla natura
onnipervadente della sofferenza.

J.A.: Quando prova dei sentimenti di felicità, come fa a rimanere
distaccato?

D.L.: Quando si abbandona la propria famiglia e la propria casa, come nel
caso di un monaco, si pongono molti limiti alla propria vita e al proprio
comportamento. Questi limiti danno automaticamente un appagamento. Dipende
dall’attitudine personale. Se si ha la tendenza a volere di più, allora
quando si va in un negozio si vorrà tutto quello che c’è, o anche tutto
quello che c’è in tutti i negozi. Ma se l’attitudine è di volere solo ciò
che serve, allora niente di tutto ciò serve.

J.A.: Mi interessa quello che fa per rilassarsi: il giardinaggio e gli
esperimenti d’elettronica.

D.L.: Oh, i miei hobbies. Passatempi (ride). Quando riesco a riparare
qualcosa sono veramente soddisfatto. Ho cominciato a smontare le cose da
piccolo perché ero curioso di capire come funzionavano certe macchine.
Volevo sapere cosa c’è all’interno del motore, ma adesso cerco solo di
aggiustare qualcosa quando si rompe.

J.A.: E il giardinaggio?

D.L.: Il giardinaggio a Dharamsala è un’impresa quasi disperata. Per quanto
duramente si lavori, il monsone viene a distruggere ogni cosa. Sa, la vita
di un monaco è molto gratificante, molto felice. Si può capirlo da quelli
che hanno abbandonato la vita monastica. Conoscono perfettamente il valore
della condizione di monaco. Molti mi hanno detto quanto sia complicata e
difficile la vita di chi non è monaco. Con una moglie graziosa e dei figli
si può essere felici per un certo tempo. Col tempo, però, si presentano
spontaneamente molti problemi e si perde metà della propria indipendenza e
della propria libertà. Se c’è qualche beneficio o significato nello
sperimentare il disagio che sorge quando si rinuncia alla propria
indipendenza, allora ne vale la pena. Se si tratta di una situazione in cui
si aiuta effettivamente la gente, allora va tutto bene. Il disagio è
giustificato, se non è così, non ne vale la pena.

J.A.: Ma nessuno di noi sarebbe qui a parlarne, se non avessimo madri e
padri!

D.L.: Non sto dicendo che avere figli sia un male, o che tutti dovrebbero
essere monaci. Impossibile (ride). Penso che se viviamo una vita semplice
allora dovrà esserci appagamento. La semplicità è estremamente importante
per la felicità. Avere pochi desideri, sentirsi soddisfatti con ciò che si
ha è molto importante. Ci sono quattro cause che contribuiscono a creare un
essere superiore. Essere soddisfatti di qualsiasi cibo si riceve. Essere
soddisfatti d’avere stracci per vestito, o accettare qualsiasi cosa per
coprirsi senza desiderare vestiti alla moda o colorati. Contentarsi di un
riparo appena sufficiente per proteggersi dagli elementi. E, infine
un’intensa gioia nell’abbandonare gli stati mentali negativi e nel coltivare
quelli utili attraverso la meditazione.

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