L’aborto e la cultura Bhagavata

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L’aborto e la cultura Bhagavata

di Rupa Vilasa Das

Presentiamo in questo numero un argomento scottante e scomodo: l’aborto. L’aborto rappresenta una
gravissima piaga sociale che affligge la comunità umana. Occorre che tutte le persone di buon senso
facciano sentire la loro voce affinchè la pratica dell’aborto possa finire. La cultura Bhagavata
insegna attraverso i suoi postulati che l’anima è contenuta nel nascituro sin dal momento del suo
concepimento. Non è ammissibile pertanto che si possa togliere la vita ad un essere solo perché non
si può difendere o perché chi pratica l’aborto non ha conoscenza delle più elementari nozioni
attinenti la vita. In riferimento a questo tema molto importante, già dal numero precedente abbiamo
introdotto il variegato mondo della famiglia. Argomenti come: la sessualità, la procreazione, la
fecondazione artificiale, la pedofilia, il matrimonio e il divorzio saranno i prossimi temi
trattati. Con questo ciclo di articoli intendiamo fornire un quadro completo sulla famiglia e sui
valori che la regolano ed in particolar modo trasmettere la conoscenza, il rispetto e l’amore per la
vita.

L’aborto è l’interruzione prematura di una gravidanza. Detta interruzione può originarsi per cause
naturali (aborto spontaneo) o avere per causa un artifizio (aborto procurato o interruzione
volontaria della gravidanza). Mentre per il primo le cause sono da ricercarsi in un evento naturale,
non causato da un intervento esterno (il periodo a maggior rischio è il primo trimestre), per il
secondo esiste una vera e propria ingerenza esterna che ha come risultato l’interruzione dello
sviluppo dell’embrione o del feto e della sua rimozione dall’utero della gestante. La pratica
dell’aborto “procurato” o “interrotto volontariamente” usa mezzi subdoli per togliere la vita, come:
l’induzione farmacologica (pillola) con la quale il feto si stacca chimicamente dall’utero senza che
sia necessario intervenire in forma chirurgica sulla donna, lo svuotamento strumentale che è il
sistema più usato e nel quale il feto viene aspirato lasciando l’utero vuoto. Esso si divide a sua
volta in: isterosuzione, dilatazione e revisione della cavità uterina (D&R), dilatazione e
svuotamento (D&S), isterotomia. Quest’ultima è la tecnica che consiste nell’asportazione del feto
tramite taglio cesareo; la nascita parziale è il metodo più brutale in assoluto. Attraverso l’uso di
una pinza, si avvicina il piccolo cranio alla cervice e per permettere il passaggio dello stesso
attraverso questo organo, lo si svuota aspirandolo con una canula.

Le conseguenze dell’aborto interrotto volontariamente sulla salute fisica della donna sono sempre
serie. Esiste la reale possibilità che per imperizia o per movimenti bruschi della paziente si
verifichino perforazioni all’utero, alla vescica o all’addome. Se un’aborto non viene eseguito bene,
come conseguenza esso porta allo shock settico (organismo colpito da sepsi, infezione da germi per
putrefazione) perché non sono stati asportati tutti i residui dalla cavità uterina. Detta infezione
provoca l’infertilità o addirittura la morte. Un aborto procurato innalza nella maggioranza dei casi
il rischio di contrarre il cancro al seno, poiché l’eliminazione dell’embrione interrompe nella
donna la produzione di ormoni per il suo necessario sviluppo. Esistono poi rare eventualità in cui
la gravidanza in uno stato molto avanzato possa continuare (con relativa nascita del bambino),
nonostante si sia praticato l’aborto.

Alle implicazioni di carattere fisico si aggiungono poi le complicanze psicologiche che si
manifestano in traumi e sensi di colpa, timori di eventuali conseguenze, incomprensioni,
inadeguatezza, spaesamento ed elevato rischio di stress con gravi sofferenze emotive che possono
durare anni. Per quanto riguarda l’embrione (colui che in questo disumano processo mortale subisce
il danno maggiore), è origine di una accesa controversia tra coloro che pensano che il feto possa
esser dotato di anima (coscienza) e che conseguenzialmente egli provi dolore se maltrattato e coloro
che danno per scontato il fatto che il feto non essendo provvisto della scintilla vitale spirituale
e non avendo ancora del tutto formato le sue singole parti, non senta pena, predisponendosi a subire
l’aborto.

Per redimere questa stupida ed inutile polemica occorre partire dalle cellule riproduttive, maschili
e femminili. Dalla fusione di due cellule sessuate (lo spermatozoo maschile e l’ovocita femminile,
cellula riproduttiva femminile che viene rilasciata dall’ovaio ogni 28 giorni e che contiene tutte
le sostanze nutritive indispensabili per cominciare lo sviluppo dell’embrione) chiamate gameti, ha
genesi un’unica cellula, chiamata zigote. Quest’ultima contiene i caratteri morfologici e funzionali
di un nuovo essere umano. Lo zigote (la prima fase dello sviluppo dell’embrione) è appena più grossa
di alcune cellule del corpo umano e percorre una delle tube di falloppio della donna arrivando sino
all’utero. Lungo il percorso lo zigote si divide pur rimanendo unito. Passata una settimana le
cellule divise formano una massa chiamata blastociti. Essa si impianta nell’utero cominciando a
crescere di dimensioni (embrione).

Il periodo embrionale dura otto settimane. Durante la sua trasformazione l’embrione non possiede
ancora tutti gli organi dell’adulto e perciò subisce le fasi di accrescimento, morfogenesi e
istogenesi. Dall’embrione (tra l’80° e il 90° giorno) si sviluppa il feto, che matura
strutturalmente e funzionalmente fino al parto. La cultura Bhagavata insegna che prima del rapporto
sessuale tra i coniugi l’anima del futuro nascituro viene introdotta dalla natura materiale nel seme
di un uomo scelto come suo padre per il karma espresso e durante tale rapporto la particella di seme
maschile, con all’interno l’anima stessa, viene introdotta nell’utero della madre. Pertanto la
coscienza (che è l’energia spirituale dell’anima), pervade il corpo del bambino senziente
all’interno dell’utero materno già nel momento del concepimento.

Il feto prova gioia e dolore, ascolta, impara, si muove, si alimenta, parla, piange e capisce. Sono
numerosi i racconti nei quali la tradizione vedica descrive casi di bambini istruiti direttamente
nell’utero materno da grandi saggi o dalla stessa genitrice e casi in cui il bambino vede la forma
del Signore Supremo accanto a sè (1). Non c’è da stupirsi quindi se la cultura Bhagavata considera
il feto un’essere umano in miniatura, uguale all’essere umano adulto. L’unica differenza si
riscontra nelle sue misure ridotte che al momento non gli permettono di difendersi. Il feto ha gli
stessi identici attributi di ogni individuo umano esistente sulla Terra comprese l’anima e la
coscienza.

Quindi, sia nella situazione in cui nel feto sussistono gravi malformazioni o vi sia pericolo per la
madre, sia che l’embrione possa avere avuto genesi da una violenza carnale, danneggiando fisicamente
la madre, sia nel frangente in cui il marito preferisca un figlio maschio, anziché una figlia
femmina, poiché la società in cui vive è di stampo patriarcale ed imponga alla moglie di abortire,
sia perché molti esseri umani ritengono l’embrione o il feto privo di anima e dunque un oggetto di
cui sbarazzarsi, sia perché considerato d’intralcio nel caso di donne non sposate, e perciò non più
appetibili per l’uomo, che escogitano come unica via di fuga il gesto di buttare il loro “prodotto”
nella spazzatura, sia per quegli adolescenti che praticando sesso illecito si ritrovano con il
frutto della loro attività e non sanno che farsene se non eliminarlo, sia per queste attività
dell’uomo poc’anzi descritte, sia per altre non menzionate per motivi di spazio (ma ugualmente
ritenute abominevoli), tutte sono considerate per la cultura Bhagavata pratiche inqualificabili,
tanto è l’orrore che suscitano.

L’aborto è praticato ormai in buona parte del mondo, lasciando alla donna la scelta di interrompere
o preservare la vita organica di un essere. Il problema drammatico dell’aborto praticato
volontariamente coinvolge perciò tutti gli strati della società e nessuno può ritenersi escluso o
rimanere insensibile di fronte a tale crudeltà. La cultura Bhagavata condanna in tutti i sensi
l’aborto procurato, non volendo per questo eliminare la libertà di scelta, che ontologicamente
appartiene ai coniugi ed in particolar modo alla donna. La libertà a cui fa riferimento la cultura
Bhagavata “è la libertà di donare altra libertà” (quella di vivere) e non la libertà di eliminare la
libertà (quella di togliere la vita). Il modo migliore di impiegare la propria vita consiste nel
donare libertà (vita) manifestando opportunità di libertà per realizzare sè stessi. La libertà è il
presupposto grazie al quale tutti possono manifestare amore. Tutto procede dall’amore e tutto fa
ritorno all’amore. L’uomo che non “sceglie” la libertà non conosce l’amore. Non vi è libertà senza
amore, che ne è l’apice ed il contenuto sostanziale (e viceversa).

Si può dire che là dove inizia la libertà inizia anche l’amore e viceversa. In un rapporto
d’amore vi è la libera scelta pertanto per maturare una consapevole e matura libertà l’uomo è
costretto ad amare. Come può esistere la libertà se in un rapporto d’amore tra madre e figlio si
impone la morte fisica al più debole? Che tipo di libertà è mai questa, che consente di togliere la
vita senza considerare la voglia di vivere del bambino? Donare “opportunità di libertà” significa
tenere conto anche delle esigenze altrui e non solo delle proprie. Abbiamo espresso questo
chiarimento perché sembra esista un’endemica sottovalutazione o sopravvalutazione (a seconda di come
si affronta questo problema) della libertà e dell’amore in relazione al concepimento, all’embrione,
al feto e alla vita in generale. La libertà non è anarchia, mancanza di regole, fare quello che uno
vuole senza considerare sé stessi, gli altri, l’ambiente circostante e Dio e non è nemmeno caos o
caso. Esistono variabili all’interno di questo concetto così importanti e tutte ugualmente degne di
nota perché si possa correre il rischio di tralasciarne qualcheduna.

La libertà è un percorso in cui occorre (in modo cosciente) dire diversi sì alla libertà, a ciò che
è “buono” e “vero”. Essa pone l’uomo di fronte alla “scelta” e alla “rinuncia”, per renderlo forte e
quindi aiutarlo ad autodeterminarsi. La scelta e la rinuncia si determinano nel momento in cui si ha
la consapevolezza di decidere se realizzare il proprio iter vitale come oggetto o soggetto,
scegliendo tra il condizionamento dei sensi o la libertà di poter fare a meno della gratificazione
dei sensi. Scelta che in ultima analisi ha come suo punto più alto la decisione di scegliere o
rinunciare agli altri (il prossimo) e a Dio. Questo è il vero concetto di libertà. Decidere di
togliere la vita organica ad un essere vivente (aborto) significa non avere compreso a fondo
(etimologicamente, semanticamente e sostanzialmente) il concetto di libertà. Essa fra l’altro a sua
volta si inserisce in un contesto più vasto poiché chiama in causa altre leggi universali come:
l’amore, il valore, la preziosità, l’unicità, la causa e l’effetto, il tempo (inteso come principio
attivo di ogni cosa) etc.

Facendo una breve disamina e partendo dal concetto di valore per allargare la visione di ciò che è
relazionato alla vita (e quindi contro la morte e l’aborto) e per dare un senso compiuto a questo
argomento possiamo aggiungere che tutto ciò che circonda l’uomo è valore perché creazione divina. In
realtà non esiste nulla al di fuori del valore, anche se può sembrare così. Se un ente esiste è
perché è valore. Il dharma (la natura e la funzione di ogni ente) è il valore intrinseco di ogni
cosa. Tutto ha un suo modo di esistere in base al proprio valore. Ogni singolo valore valorizza il
valore generale perché se mancasse quel valore mancherebbe qualcosa di insostituibile. Il valore non
può essere sostituito, solo consapevolizzato. La consapevolezza valorizza il valore per quello che
è, la non consapevolezza il contrario. Ciò determina che il valore è piena consapevolezza, coscienza
del valore stesso.

Quindi essere sempre consapevoli permette di cogliere continuamente il valore ovunque: in sé stessi,
negli altri (nell’uomo in generale e persino nell’embrione e nel feto), nell’ambiente circostante e
in Dio (il Supremo Valore), il ricettacolo del Valore Originale. Il valore consapevole sceglie, non
si fa scegliere; è azione, movimento, cammino, apprendimento, prima scelta; è vivere la propria vita
da soggetto e non da oggetto (non buttandosi via); è il preludio della libertà, della varietà,
dell’amore che sono qualità paritetiche al valore. Senza la percezione del valore e dell’aspetto
variegato di sé stessi in relazione a Dio, non esiste libertà e amore. La libertà e l’amore sono il
contenuto sostanziale l’una dell’altro come spiegato poco fa. Il valore conduce all’unicità,
all’individualità, alla consapevolezza di essere diversi e per questo speciali. Ogni persona è
speciale per Dio, perché Egli in modo personale interagisce personalmente con ogni atomo della Sua
creazione. Il valore è anche prezioso poiché deve essere preservato come una gemma di inestimabile
pregio e va relazionato solo a coloro che lo ricercano con intenso desiderio perché lo sanno
riconoscere ed apprezzare.

Quindi il valore pervade ogni parte del nostro essere, è parte costituzionale e sostanziale della
nostra persona ed essendo qualità intrinseca ad ogni essere vivente deve essere preservato e
custodito. Esso è prezioso. Questa è l’attitudine giusta per custodire il valore e valorizzarlo
continuamente, senza che esso perda di interesse. Quando una persona consapevolizza il proprio
valore deve concentrarsi solo nel ricercare e nel dare opportunità di valore. A sua volta la
preziosità porta all’unicità in quanto ogni anima è differente dall’altra, poiché eredita da Dio la
qualità della differenza. Non esiste essere vivente che sia uguale alla Verità Assoluta, così come
non esiste una persona uguale all’altra. Questa qualità rende l’anima unica. L’unicità è valore
assoluto. L’unicità è parte costituzionale dell’anima. L’unicità esprime il proprio valore in
relazione alle altre individualità e a Dio. Pertanto ogni qualità appartenente all’anima viene
tradotta in termini pratici nelle leggi naturali sopra descritte, che servono a difendere e a
preservare la vita organica, non ad attaccarla, ad offenderla e a toglierla.

Se l’uomo esterna un cattivo comportamento, pensando che tutto sia al suo servizio e svaluta ciò che
lo circonda, si predisporrà ad entrare in una dimensione di “automatismo”. Egli non calcolerà che
ogni azione deve essere prima ponderata, centellinata e meritata prima di essere agita e che ogni
pensiero non può essere espresso senza obiettivi, senza programmazione perché poi se ne dovranno
subire le conseguenze; che non è possibile imitare gli altri esseri umani (specialmente quando
questi vivono nell’agiatezza), poiché ognuno ha un suo dovere, ben preciso in funzione del karma
acquisito (2); che non è importante quante cose l’uomo faccia, ma come le fa (qualità); che non è
necessario accumulare più del dovuto in quanto Dio provvede ad ogni singolo essere vivente in base
alle sue necessità; che l’uomo non è solo un’insieme di tanti fattori meccanici ma una totalità
organizzata voluta nella sua essenza da una volontà superiore con uno scopo finalistico; in base a
simili riflessioni, ciò che l’essere umano sceglie (la strada da lui intrapresa), egli si
riconoscerà nelle affermazioni di stampo negative o positive sopra riportate.

Le prime condurranno l’uomo a non valutare con le dovute precauzioni la vita, attuando accorgimenti
di ripiego (surrogati) per adattare alle sue esigenze ciò che lo circonda senza tanti scrupoli
(aborto, pedofilia, divorzio, guerre, ricerca scientifica e altro), le seconde viceversa lo
aiuteranno a soppesare la vita come un dono, ma soprattutto come in realtà essa è, trovandosi in
ogni entità vivente (pianta, animale, microrganismo, uomo) e ad agire di conseguenza. Quindi occorre
ricordare a coloro che pensano che l’embrione o il feto non sono dotati di anima che ogni
considerazione in tal senso viene immediatamente smentita. Innanzitutto dalle valutazioni
precedentemente argomentate e attinenti le qualità dell’anima stessa e dalle leggi del
creato brevemente esposte, ma soprattutto dalla vivacità e dalla dinamicità con la quale la vita nel
suo stadio iniziale manifesta i suoi effetti su un corpicino che inizialmente misura pochi
centimetri, e poi successivamente, misura decine di centimetri con tutti gli attributi organici ben
sviluppati e al loro posto. Solo un’intelligenza superiore (Dio) può “progettare” in modo perfetto e
armonico un tale avvenimento creativo.

L’aborto fatto volontariamente come pratica umana contravviene a tutte le leggi del creato e non può
essere in nessun caso minimamente tollerato. Per la cultura Bhagavata esso rientra in quei casi per
cui il termine omicidio può essere usato senza correre il rischio di essere fraintesi. L’aborto è
una procedura introdotta dall’uomo che ha come scopo finale la soppressione della vita organica di
un essere umano non ancora nato. L’aborto è l’uccisione premeditata di quest’ultimo (inteso nella
sua forma corporale) nella fase in cui la sua esistenza terrena si situa tra il concepimento e la
nascita. L’aborto è una grave offesa alla vita organica nel suo inizio e una pesante aggressione
alla società, poiché da questa pratica (che riguarda il rapporto tra madre e figlio come essenza
dello stesso amore naturale) ogni crimine nei confronti dell’uomo può essere attuato eliminando alla
radice il concetto di pace.
L’aborto giustifica ogni attività offensiva nei confronti della vita non ponendo più nessun tipo di
ostacolo all’inarrestabile degrado cui è sottoposto l’uomo.
(Continua nel prossimo numero…)

Rupa Vilasa Dasa è laureato in teologia e studio comparato delle religioni, ha un master in
pedagogia clinica e uno in psicologia di consultazione. Insegna psicologia nei corsi FSE ed ha un
proprio studio di consulenza psicologica e pedagogica. Per contatti e informazioni:
rupavilasa@bhaktisvarupadamodara.com – 333/8811259.

NOTE

(1) Srimad-Bhagavatam, 1.12.7-11
(2) Bhagavad-gita, 3.35.

(Tratto da Movimento ISKCON)

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