L’ANTICA MEDICINA INDIANA (AYURVEDA)
di Amadio Bianchi
Ogni disciplina, scientifica o metafisica, ha come base una interpretazione
filosofico-matematica della natura e delle sue regole che la caratterizza e
la distingue. Così è anche per la medicina indiana più tipica: l’Ayurveda.
I pilastri di questo edificio sono costituiti da elementi di una antica
visione filosofica, dualistica, denominata Samkya, anteriore all’avvento del
Buddha ma anch’essa atea. Per tradizione si attribuisce a Kapila l’onere di
aver redatto il testo anche se, come afferma Radhakrishnan nel suo trattato
La filosofia Indiana, nessuna scuola filosofica ha origine in tutta la sua
pienezza dalla mente di un solo uomo. Troviamo, infatti, tracce di questo
“punto di vista” già nel Rg Veda e nelle Upanisad o perlomeno riferimento a
termini che saranno poi adottati dallo stesso Kapila.
Come forse non tutti sanno, il Samkhya è uno dei “Sat Darshana” o sei punti
di vista Brahmanici ortodossi, i quali nel corso della storia del pensiero
filosofico indiano ebbero il compito di enunciare alcune speculazioni
riguardanti la natura dell’universo in generale. Essi sono ancora oggi
considerati sistemi autorevoli del pensiero indù in quanto pur essendo
diversi hanno in comune le radici negli antichi testi sacri denominati Veda.
Personalmente ritengo che per comprendere i fondamenti teorici dell’Ayurveda
e dello Yoga si debba passare attraverso un esame del Samkhya.
Bisogna premettere che i filosofi e gli scienziati che hanno voluto indagare
alla ricerca dei principi della “Manifestazione”, per ovvia costituzione
limitata umana, hanno nelle loro enunciazioni costretto l’infinito
molteplice in regole finite tentando così di trovare elementi fondamentali
ed inscindibili costituenti il presupposto su cui poggiare con sicurezza le
loro interpretazioni.
Così è anche per il Samkhya dove con ventiquattro elementi base (Tattva o
principi della realtà) si procede a costituire una piramide interpretativa,
tuttavia priva di vertice o causa prima trascendente.
Nella mia esposizione ritengo interessante iniziare l’analisi partendo dalla
sommità di questo schema.
Gli antichi saggi relatori di questa dottrina, decretarono che due
componenti la natura, erano da considerarsi principi ultimi, eterni ed
assolutamente incausati: il Purusa e la Prakrti. Il primo può essere
considerato, da un certo punto di vista, l’Energia Cosmica Spirituale
inespressa. Esso è il Veggente sprovvisto sia di qualità, sia di attributi;
la coscienza cosmica impassibile ed immutabile che nel microcosmo ritroviamo
riflesso nel puro soggetto interiore ripulito dall’identificazione nella
materia.
La seconda, è l’Energia Cosmica Materiale, priva di coscienza ma attiva e
dinamica, l’oggetto con il quale erroneamente si identifica il soggetto.
Dalla unione dei due si origina, secondo alcune scuole, il male in quanto,
la Prakrti indurrebbe il Purusa a considerare bello e eterno, tutto ciò che
in verità sarebbe doloroso e impermanente.
Scopo dell’Ayurveda, come del resto anche dello Yoga, sarebbe di liberare
l’uomo dall’identificazione del soggetto nell’oggetto mediante la
discriminazione.
Ma per tornare al macrocosmo, mi sembra di comprendere che questi due
costituenti, potrebbero godere in natura di uno stato di quiete e inattività
fino a quando non entrano in contatto tra di loro. Sarebbe come a dire che,
se si ammette un inizio, l’uno è in grado di attivare l’altro.
In poche parole, quando lo spirito entra nella materia la attiva. La
conseguenza di tale affermazione potrebbe portarci a considerare lo spirito
come responsabile e forse anche, per altre scuole interpretative, causa
prima anche se, onestamente, mi pare che i fautori di questo movimento di
pensiero non desiderassero presentare l’idea di un Dio sia manifesto, sia
trascendente, che potesse essere la causa prima di entrambi sia il Purusa,
sia la Prakrti, vedendoli, come altre scuole ammetteranno, come aspetti
della manifestazione divina.
Come già detto all’inizio, il Samkhya è ateo, è inutile pertanto cavillare,
come alcuni studiosi fanno, nel tentativo di trovare un aggancio per un
recupero teistico di tale metodo d’indagine.
Quando il Purusa e la Prakrti, dunque, entrano in contatto tra di loro per
un motivo del quale non viene dichiarata la causa, sembra avere inizio
l’universo animato che si presenta come evoluzione della Prakrti, sempre
secondo questa filosofia, in un primo amalgama, denominato Mahat nel quale
sono già attive le qualità che determineranno in seguito, le caratteristiche
di ogni singolo agglomerato di materia compreso quello umano. Tali qualità
(Guna), se riferite al macrocosmo o all’aspetto microcosmico intellettivo
sono: Sattva, Rajas e Tamas.
La prima è la coscienza potenziale, la spinta verso la perfezione, tutto ciò
che è in grado di generare bontà e felicità. È leggero, trasparente e
illuminante. Esso tra l’altro è responsabile e determinante la formazione
dei cinque sensi conoscitivi o jnanendriya: udito, tatto, vista, gusto e
olfatto.
La seconda è l’attività, compreso il divenire del mondo; è responsabile di
produrre dolore e spingere alla attività febbrile. Determina lo sviluppo
degli organi di azione karmendriya: parola, mani, piedi, organi di
riproduzione, organi di escrezione.
La terza, infine, Tamas è ciò che si contrappone all’attività, è l’apatia,
l’indifferenza che conduce all’ignoranza e all’inerzia. Dal Tamas procedono
dapprima i cinque tanmatra o elementi sottili: suono, tatto, forma sapore e
odore, poi, con una successiva condensazione, i cinque elementi grossolani
(maha-bhuta): spazio, aria, fuoco, acqua e terra.
I tre Guna o qualità della Prakrti non sono mai separati ma convivono in
interrelazione dinamica tra di loro, si mescolano e si sostengono a vicenda.
Ecco che, nella medicina Ayurvedica, troviamo rappresentate nel corpo,
manifestate fisicamente e più concretamente le tre qualità, definite in
questo caso: Vata, Pitta e Kapha (tridosa).
Il medico Ayurvedico, tra l’altro, è in grado di sentire la loro presenza
auscultando anche semplicemente il polso. Non si tratta di una
interpretazione occidentale del battito cardiaco ma della capacità di
avvertire il pulsare di queste qualità in tre punti vicini, sia nel braccio
destro, sia nel sinistro alla ricerca di eventuali anomalie o disarmonie tra
di loro.
I Dosa (peculiarità-difetti) si manifestano nel corpo con queste
caratteristiche divergenti: il Vata corrisponde al secco, freddo, ruvido,
leggero, può essere anche il magro ed è situato nella parte bassa del corpo;
Il Pitta è calore, fluidità ma anche acidità ed è situato al centro del
corpo; infine il Kapha che è la pesantezza, il freddo, la solidità, il
grasso e lo ritroviamo collocato nella testa e nel torace.
All’atto della nascita, insieme al patrimonio genetico, l’uomo porta con sé
le sue caratteristiche di base, ma queste possono essere sicuramente
modificate lungo il percorso della vita dal contenuto della mente (manas)
per cui, si afferma che, anche la costituzione dei dosa, è variabile.
Affermo che la medicina Ayurvedica sostiene l’ipotesi dell’origine
psicosomatica delle malattie. Per questa ragione essa si occupa anche del
mentale ed i medici sono sempre pronti a dare consigli ai pazienti per
portarli ad una purificazione della loro mente, al risveglio dello stato di
attenzione e della conseguente consapevolezza, preludio della coscienza.
La strada è quella di ammettere che esiste una visione soggettiva ed una
oggettiva.
La prima è preda dell’ego. Ma vediamo da dove ha origine nell’Ayurveda il
concetto di ego: quando la manifestazione viene toccata dall’impulso
dell’evoluzione si attiverebbe un principio cosmico di coesione
“separatista” chiamato ahamkara in grado con la sua forza centripeta di far
coagulare la materia inerte portando, le particelle dell’universo, a
condensarsi in corpi separati. Da tale principio deriverebbe il senso
dell’Io o principio di individuazione soggettiva, nemico della visione
oggettiva, che spesso viene vista nelle discipline indiane come l’ostacolo
alla realizzazione.
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