Tratto dal libro “Guarigione spirituale e immortalità”
di Patrick Drouot
ed. Amrita
Uno dei punti fondamentali della medicina tibetana è il suo approccio
alla malattia mentale. Nella tradizione psichiatrica tibetana, la
possessione ad opera di spiriti maligni è una delle cause principali
della malattia mentale. Il trattamento, secondo questo approccio
religioso e magico, comprende pratiche rituali come l’utilizzazione e
l’applicazione della via del Dharma (la via che porta al risveglio).
La pratica del Dharma permette di porre rimedio a quell’oscuramento
emozionale e mentale che produce il male e che impedisce il risveglio.
Dei tre umori (venti, bile e flegma), l’aria è quello associato per
primo ai disturbi mentali. Nella tradizione dell’Ayurveda, uno dei
principali termini per designare la follia è vatula, che
significa “gonfio d’aria”. Tutte la arie, in quanto correnti di
energia, circolano nei canali sottili del corpo eterico, ma la parte
più sottile del primo vento principale, il vento che sostiene la
vita, rimane immobile all’interno della vena-di-vita collegata al
cuore. Questa forza di vita estremamente sottile, il Soklung, forma
il supporto principale della coscienza. Il dottor Dhonden spiega che
questo vento ha sede sopra la testa e scende poi nel petto. Tra le
varie funzioni, esso chiarifica la mente, gli organi di senso e
mantiene la coesione mentale. Questa vena-di-vita corrisponde molto
probabilmente al nervo vago. Secondo le descrizioni, una parte di
questo canale sottile conduce dai polmoni al cuore. La coscienza è
turbata e addirittura impazzisce quando, per ragioni diverse, i venti
circolano in modo inadeguato o in luoghi inadatti, soprattutto se
gonfiano la vena di vita e se si inseriscono in quella parte del
cuore dove risiede la forza di vita più sottile. Quando ciò avviene,
la forza mentale dell’individuo inizia a disgregarsi, facendo sorgere
allucinazioni ed ogni sorta di distorsione nella percezione della
realtà.
L’approccio tibetano ai problemi mentali fa riferimento al demonio
ma, certamente, questo termine è da interpretare in modo simbolico.
Esso rappresenta la vasta gamma di forze ed emozioni che normalmente
stanno oltre il controllo cosciente ed impediscono il benessere e lo
sviluppo spirituale. Queste forze vanno dalle tendenze sottili innate
ed inconsce, a quelle pulsioni irresistibili che sono i desideri e i
bisogni repressi dell’uomo.
Nel suo insieme, l’approccio psicosomatico della medicina tibetana è
molto istruttivo: la mente è percepita come l’origine della malattia
e del benessere. La medicina tibetana integra le tecniche mentali,
spirituali e mistiche di guarigione con pratiche di medicina
ordinaria. Nel trattamento psichiatrico confluisce tutta la gamma
delle pratiche, in modo da non accentuare né l’approccio psicologico,
né l’approccio fisiologico, né quello ambientale, ma accogliendo
ognuno di essi come modello di trattamento globale. I primi precetti
della medicina moderna esistevano già nel sistema tibetano: l’arte di
alimentarsi (naturoterapia) è concepita in funzione dei suoi effetti
e del suo potere curativo. I trattamenti con il colore
(cromoterapia), la temperatura, il tipo di ambiente più favorevole
vengono indicati secondo i vari tipi umorali e viene particolarmente
sottolineata l’importanza dello stato d’animo dei medici, dei
terapeuti, del personale curante, degli amici e dei parenti.
Questo tipo di trattamento fece irruzione nella visione terapeutica
occidentale, in particolare con i Greci e i Romani, che ne
beneficiarono nel loro approccio alla follia. Purtroppo la negazione
del ruolo della mente fece sì che questo insieme di trattamenti fosse
dimenticato, fino alla sua riscoperta ai nostri giorni.
Esistono dei metodi di terapia mentale che escono dal modesto quadro
di questo libro e che furono impiegati ed insegnati dal Buddha; non
si trattava di una psicanalisi religiosa, ma di una trasformazione
del se attraverso l’etica, la meditazione, la saggezza.
Vi si ritrova la concezione originale della malattia secondo
l’insegnamento del Buddha: l’essere umano è catturato dai tre veleni
(l’attaccamento, cioè il desiderio a tutti i livelli, la collera e la
ignoranza).
Terry Clifford precisa che sviluppando la padronanza della mente e le
possibilità di concentrazione, l’uomo può raggiungere stati di
meditazione profonda che approdano infine all’Illuminazione. Un
simile stato di coscienza trascende il pensiero discorsivo: esso è
mistico nel senso che supera la dualità del sé e procura
un’esperienza di gnosi diretta della verità e della non-dualità. A
suo tempo Buddha affermava che una delle quattro grandi sofferenze
era la nascita: nella medicina tibetana si riconosce non solamente la
natura traumatica della nascita, ma anche la sofferenza traumatica
che si prova nell’utero, un approccio completamento diverso dalla
concezione occidentale. La psicologia occidentale riconosce il
carattere traumatico della nascita ma non i diversi stati di
coscienza che può attraversare il feto, benché questi siano stati
osservati da tutti i terapeuti che hanno fatto regredire la coscienza
dell’individuo fino all’interno del ventre materno. Così la
tradizione tibetana traduce precisamente le diverse sofferenze e gli
stati di coscienza della vita intrauterina.
La medicina tibetana è la “terapia di diamante”: questo simbolo ci
ricorda che se vogliamo comprendere, guarire gli altri ed essere
guariti, dobbiamo associare la nostra tecnologia medica ai concetti
di mente e di struttura multidimensionale dell’essere umano, così
come furono insegnati dai tibetani e da altre tradizioni come quella
degli indiani d’America.
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