L’arte di vivere la tecnica della meditazione vipassana 1

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L’arte di vivere la tecnica della meditazione vipassana 1

secondo S.N.Goenka – di William Hart (parte prima)

William Hart

L’ARTE DI VIVERE

“La tecnica di meditazione Vipassana secondo S. N. Goenka”

traduzione di
MARIA ANGELA PALA e PIERLUIGI GONFALONIERI

*************

INTRODUZIONE

Supponete di avere la possibilità di liberarvi da tutte le responsabilità
sociali per dieci giorni e di poter vivere in un luogo tranquillo,
appartato e protetto da ogni occasione di disturbo. In tale luogo si
provvederà alle vostre esigenze fisiche fondamentali di vitto e alloggio,
mentre alcuni volontari baderanno a che, nei limiti del ragionevole, non vi
manchi nulla. In cambio, ci si aspetterà da voi solo che evitiate i
contatti con gli altri e, a parte le attività essenziali, trascorriate
tutte le ore di veglia con gli occhi chiusi, mantenendo la mente
focalizzata su un ben determinato oggetto di attenzione.

Accettereste l’offerta?

Supponete di aver semplicemente sentito dire che una tale possibilità
esiste e che persone come voi non solo hanno la volontà ma anche il
desiderio di trascorrere il proprio tempo libero in questo modo. Come
definireste la loro attività? Fissarsi l’ombelico, potreste dire; o anche
contemplazione, fuga o ritiro spirituale; autointossicazione o autoricerca;
introversione o introspezione. Sia in senso negativo che positivo,
l’impressione comune che si ha in merito alla meditazione è che essa sia un
ritiro dal mondo. Anche se, ovviamente, esistono tecniche che hanno tale
funzione, la meditazione non è necessariamente una fuga. Può anche essere
un mezzo per incontrare il mondo al fine di comprenderlo e di comprendere
se stessi.

Ogni essere umano è condizionato a presumere che il mondo reale sia al di
fuori, che per vivere si debba entrare

in contatto con una realtà esterna, cercando input, sia fisici che mentali,
dal di fuori. La maggior parte di noi non ha mai considerato la possibilità
di recidere i legami con l’esterno per vedere ciò che accade all’interno.
L’idea di agire in tal modo ci sembrerebbe probabilmente come scegliere di
trascorrere ore e ore a fissare le righe di uno schermo televisivo.
Preferiremmo esplorare l’altra faccia della luna o il fondo dell’oceano
piuttosto che le profondità nascoste dentro di noi.

In realtà l’universo esiste per ognuno di noi solo quando lo sperimentiamo
con il corpo e con la mente. Non è mai altrove, ma sempre qui-e-ora.
Esplorando il qui-e-ora di noi stessi possiamo esplorare il mondo. Senza
indagare il nostro mondo interiore, non potremo mai conoscere la realtà:
conosceremo soltanto le nostre convinzioni o le nostre concezioni
intellettuali su di essa. Osservandoci, invece, possiamo arrivare a
conoscere la realtà direttamente e imparare a gestirla in modo positivo e
creativo.

Un metodo per esplorare il mondo interiore è la meditazione Vipassana. È un
modo pratico di esaminare la realtà del proprio corpo e della propria
mente, di portare alla luce e di risolvere qualsiasi problema vi sia
nascosto, di sviluppare nuovi potenziali incanalandoli verso il bene
proprio e degli altri.

Nell’antica lingua indiana pàli Vipassana significa «introspezione,
osservazione e comprensione profonda della realtà, così come essa è». È
l’essenza dell’insegnamento del Buddha, l’esperienza concreta delle verità
da lui proclamate; egli stesso ha fatto quella esperienza attraverso la
pratica della meditazione e quindi ha prima di tutto insegnato la
meditazione. Le sue parole testimoniano la sua esperienza di meditazione,
come pure le istruzioni particolareggiate su come procedere per fare
diretta esperienza della verità.

Tutto questo è ampiamente accettato, ma rimane il problema di come
comprendere e seguire le istruzioni date dal Buddha.

Infatti, mentre le sue parole sono state tramandate dai testi riconosciuti
come autentici, al di fuori di un contesto di pratica viva
l’interpretazione delle sue istruzioni su come meditare appare difficile.
Ma se esiste una tecnica che si è mantenuta per innumerevoli generazioni e
produce risultati identici a quelli descritti dal Buddha, e se essa si
conforma in modo preciso alle sue istruzioni e ne chiarisce dei punti che a
lungo sono sembrati oscuri, allora sicuramente merita di essere indagata. E
questa tecnica è Vipassana: straordinaria per la sua semplicità, per
l’assenza di qualsiasi dogma e, soprattutto, per i risultati offerti.

La meditazione Vipassana viene insegnata in corsi della durata di dieci
giorni, aperti a chiunque sinceramente desideri imparare la tecnica e
possieda le attitudini sia fisiche che mentali per farlo. Per tutti e dieci
i giorni i partecipanti non escono mai dal luogo in cui si tiene il corso e
non hanno alcun contatto con il mondo esterno. Si astengono dal leggere e
dallo scrivere e sospendono ogni altra pratica, religiosa o no, attenendosi
esattamente alle istruzioni ricevute. Per l’intero periodo del corso
seguono un codice morale di base che comprende l’astensione da ogni
attività sessuale e da ogni sostanza intossicante. Per i primi nove giorni
del corso osservano il silenzio fra loro, mentre sono liberi di discutere i
problemi inerenti la meditazione con il maestro e i problemi materiali con
la direzione.

Durante i primi tre giorni e mezzo i partecipanti praticano un esercizio di
concentrazione mentale preparatorio alla tecnica di Vipassana vera e
propria, che viene fatta conoscere il quarto giorno. Gli altri elementi
vengono introdotti giorno per giorno, in modo che alla fine del corso la
tecnica è stata presentata nel suo insieme secondo uno schema generale. Al
decimo giorno il silenzio finisce e i meditatori fanno ritorno a un genere
di vita più aperto ai contatti con gli altri. Il corso si conclude nella
mattinata dell’undicesimo giorno.

L’esperienza di questi dieci giorni riserva probabilmente numerose sorprese
ai meditatori. La prima è che la me-ditazione è un lavoro duro! Si
sperimenta subito che essa non ha niente a che vedere con il luogo comune
che la rappresenta come una sorta di inattività o di rilassamento. È
infatti necessaria un’applicazione continua per guidare consciamente i
processi mentali in un determinato modo. Si viene esortati a mettercela
tutta, seppure senza tensione, ma finché non si impara come fare,
l’esercizio può essere frustrante o persine estenuante.

Un’altra sorpresa è che, tanto per cominciare, le conoscenze profonde
ottenute con l’auto-osservazione non sono probabilmente tutte piacevoli e
beatificanti. Di norma siamo molto selettivi nelle opinioni su noi stessi.
Quando ci guardiamo allo specchio, badiamo di assumere la posa più
lusinghiera, l’espressione più gradevole. Allo stesso modo ognuno di noi ha
un’immagine mentale di sé che, mentre enfatizza le qualità migliori,
minimizza i difetti
e omette del tutto alcuni lati del nostro carattere. Vediamo l’immagine che
desideriamo vedere, non la realtà.

La meditazione Vipassana, però, è una tecnica per osservare la realtà da
ogni angolazione. Invece che con un’immagine di sé attentamente costruita,
il meditatore si confronta con una verità completa, non censurata.
E certi aspetti di essa saranno difficili da accettare.

Talvolta,può sembrare che, attraverso la meditazione, invece di trovare la
pace intcriore non si trovi altro che turbamento. Tutto, nel corso, può
apparire insostenibile, inaccettabile: l’orario pesante, la sistemazione,
la disciplina, le istruzioni e i consigli del maestro, la tecnica stessa.

Un’altra sorpresa, tuttavia, è che le difficoltà a un certo momento
scompaiono. Gradualmente i meditatori impa-rano a fare sforzi senza sforzo,
a mantenere un’attenzione rilassata, un coinvolgimento distaccato. Invece
di combatterla, vengono completamente assorbiti dalla pratica. A quel punto
la scomodità della sistemazione non sembra più importante, la disciplina
diventa un utile supporto, le ore passano rapidamente, inosservate. La
mente diviene calma come un lago di montagna all’alba, che rispecchia
perfettamente i dintorni e nello stesso tempo rivela le sue profondità a
quelli che lo guardano più da vicino.

Quando si fa strada questa chiarezza, ogni momento è pieno di conferme, di
bellezza, di pace.

Così il meditatore scopre che la tecnica funziona realmente. Ogni passo può
sembrare a volte un salto enorme, ma ci si accorge che è possibile
compierlo. Alla fine dei dieci giorni si nota chiaramente quale lungo
viaggio si è compiuto dall’inizio del corso. Il meditatore si è sottoposto
a un processo analogo a un’operazione chirurgica per incidere col bisturi
una ferita purulenta. Mettere a nudo la lesione e premere per rimuovere il
pus è doloroso, ma senza di questo la ferita non può guarire. Una volta che
il pus è stato rimosso, ci si è liberati sia di esso che del dolore e ci si
avvia verso la guarigione. Allo stesso modo, passando attraverso i dieci
giorni di corso, il meditatore libera la mente da alcune delle sue tensioni
e acquista una salute mentale migliore. Il metodo Vipassana ha lavorato in
profondità, producendo cambiamenti interni che persistono dopo la fine del
corso.
Il meditatore verifica che tutta l’energia mentale acquisita durante il
corso, tutto ciò che ha imparato, può essere applicato nella vita
quotidiana a proprio vantaggio e per il bene degli altri. La vita diviene
più armoniosa, fruttuosa e felice.
La tecnica Vipassana insegnata da S. N. Goenka è quella che egli ha
imparato dal suo maestro birmano, ora defunto, Sayagyi U Ba Khin, al quale
era stata insegnata da Saya U Thet, un maestro di meditazione assai
conosciuto in Birmania nella prima metà del nostro secolo. A sua volta Saya
U Thet era stato allievo di Ledi Sayadaw, un famoso monaco birmano vissuto
tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900. Risalendo più indietro nel tempo,
non si ricordano altri nomi di insegnanti di questa tecnica, ma coloro che
la praticano ritengono che Ledi Sayadaw abbia appreso la meditazione
Vipassana da maestri tradizionali, che l’avevano mantenuta in vita per
intere generazioni, fin dall’antichità, allorquando l’insegnamento del
Buddha era stato per la prima volta introdotto in Birmania. Non c’è dubbio
che la tecnica concordi con le istruzioni del Buddha sulla meditazione, con
il significato più semplice e più letterale delle sue parole.

E, cosa più importante, produce dei buoni risultati, personali, tangibili e
immediati.

Questo libro non è un manuale di fai-da-te per praticare la meditazione
Vipassana, e chiunque lo usi in tal modo lo fa a proprio rischio e
pericolo. La tecnica deve essere appresa esclusivamente attraverso un
corso, dove c’è l’ambiente adatto ad aiutare il meditatore e una guida
adeguatamente istruita. La meditazione è una cosa seria, e specialmente la
tecnica Vipassana, che affronta gli stati mentali profondi. Non ci si
dovrebbe mai avvicinare ad essa con leggerezza o per caso.

Il nostro proposito è solo quello di offrire una visione generale del
metodo Vipassana, nella speranza che questo aiuti ad ampliare la
comprensione degli insegnamenti del Buddha e della tecnica di meditazione
che ne costituisce l’essenza.
_______________

CAPITOLO PRIMO

LA RICERCA

Ognuno di noi cerca la pace e l’armonia, perché è ciò che manca alla nostra
vita. Tutti vogliamo essere felici; lo consideriamo un nostro diritto. La
felicità è la meta a cui tendiamo, anche se spesso è difficile da ottenere.
Tutti noi di quando in quando sperimentiamo l’insoddisfazione: turbamenti,
irritazione, disarmonia, sofferenza.

Anche se in questo momento siamo liberi da tali negatività, tutti possiamo
ricordare un periodo in cui ci hanno tormentato e anche prevedere quando
torneranno.

In ogni caso, tutti noi dobbiamo affrontare la sofferenza della morte.

La nostra insoddisfazione personale, inoltre, non resta limitata a noi
stessi: al contrario, tendiamo a farne partecipi gli altri. L’atmosfera
attorno a una persona infelice si carica di inquietudine, cosicché chiunque
entri in contatto con lei finisce col sentirsi agitato e infelice.

In tal modo le tensioni individuali, combinandosi fra loro, creano tensioni
sociali.

E’ questo il problema fondamentale della vita: la sua natura
insoddisfacente. Avvengono cose che non vogliamo, e le cose che vogliamo
non avvengono. E ignoriamo come e perché tale processo si realizzi, proprio
come ignoriamo quale sia il nostro inizio e quale la nostra fine.

Venticinque secoli fa, nell’India settentrionale, un uomo decise di
indagare questo problema: il problema della sofferenza umana. Dopo anni di
ricerca e di tentativi condotti con vari metodi, scoprì una via per
ottenere una
comprensione profonda della realtà della propria natura e sperimentare la
vera libertà dalla sofferenza. Avendo raggiunto la meta più alta, ossia la
liberazione dall’infelicità e dai conflitti, dedicò quel che gli restava
della vita ad aiutare gli altri a fare ciò che lui stesso aveva fatto,
mostrando loro la via per liberarsi.

Questa persona — Siddhattha Gotama, noto come il Buddha, «l’Illuminato» —
ha sempre dichiarato di non essere altro che un uomo. Come accade a tutti i
grandi maestri, su di lui sono fiorite numerose leggende, ma’nonostante le
storie meravigliose che si raccontano sulle sue passate esistenze e sui
suoi poteri magici, tutti i racconti concordano sul fatto che non si è mai
dichiarato di origine divina o ispirato da un dio. Quali che fossero le sue
particolari doti, erano doti eminentemente umane, che egli aveva portato
alla perfezione. Di conseguenza, tutto ciò che egli ha realizzato è nelle
possibilità di qualsiasi essere umano che agisca come lui.
Il Buddha non ha insegnato né una religione né una filosofia né un sistema
di credenze. Chiamò il suo insegnamento Dhamma, ovvero «legge», la legge
della natura. Non aveva alcun interesse nei dogmi o nelle speculazioni
oziose. Al contrario, offriva una soluzione pratica e universale per un
problema universale. « Ora come sempre » diceva « parlo della sofferenza e
di come eliminarla. »’ Rifiutò persino di discutere su tutto ciò che non
avesse a che fare con l’eliminazione delle miserie umane.

Tale insegnamento, insisteva, non era qualche cosa che aveva inventato o
che gli era stato rivelato da una divinità. Era semplicemente la verità, la
realtà che attraverso i suoi sforzi era riuscito a scoprire, così come
tanti avevano fatto prima di lui e come tanti avrebbero fatto dopo di lui.
Affermava di non avere il monopolio della verità e non rivendicava
un’autorità particolare come maestro, né perché la gente aveva fede in lui
né per la natura evidentemente logica di ciò che insegnava. Al contrario,
affermava che è giusto dubitare e provare tutto ciò che va oltre la propria
esperienza:

Non credete a tutto ciò che vi si dice né a tutto ciò che è stato
tramandato dalle generazioni passate, e neppure a ciò che è opi-nione
corrente o che dicono i testi sacri. Non accettate qualcosa come vera
semplicemente basandovi su una deduzione o su un’illazione, sull’apparenza
esteriore o sulla parzialità di una certa prospettiva o in base alla sua
plausibilità o perché il vostro maestro vi dice che è così. Ma quando voi,
da soli, direttamente riconoscete: «Questi principi non sono benefici, sono
biasimevoli, condannati dai saggi, se adottati e messi in pratica producono
danno e sofferenza », allora li dovete abbandonare. E quando da soli,
direttamente, riconoscete: «Questi principi sono benefici, non biasimevoli,
lodati dai saggi, se adottati e messi in pratica conducono al benessere e
alla felicità », allora li dovete accettare e mettere in pratica.

L’autorità più alta è la propria esperienza della verità. Nulla deve essere
accettato solo in base alla fede.

Dobbiamo esaminare ogni cosa per vedere se è logica, pratica, benefica.
Neanche l’aver esaminato un insegnamento uti-lizzando la ragione è
sufficiente per accettarlo intellettualmente come vero.
Se vogliamo trarre beneficio dalla verità, dobbiamo sperimentarla
direttamente.

Solo allora potremo sapere che è realmente vera.

Il Buddha, come lui stesso ha sempre sottolineato, insegnava solo ciò che
aveva sperimentato direttamente e incoraggiava gli altri a sviluppare da
soli tale conoscenza e quindi divenire essi stessi l’autorità a cui
riferirsi: « Ognuno di voi sia un’isola per se stesso, sia un rifugio per
se stesso; non c’è altro rifugio. Sia la verità la vostra isola, sia la
verità il vostro rifugio; non c’è altro rifugio ».
L’unico vero rifugio nella vita, l’unico terreno solido su cui posare, la
sola autorità che può dare una guida e una protezione sicura è la verità,
il Dhamma, la legge della natura, sperimentata e verificata di persona.
Quindi, nel suo insegnamento il Buddha ha sempre dato la più grande
importanza all’esperienza diretta della verità.

Spiegava nel modo più chiaro possibile quello che aveva sperimentato, così
da fornire agli altri delle linee di condotta da elaborare per giungere
alla personale realizzazione della verità. Egli ha detto: « L’insegnamento
che ho presentato non ha due versioni separate, una esteriore e una
segreta. Nulla è stato tenuto nascosto nel pugno chiuso del maestro».4 La
sua non era una dottrina esoterica per pochi eletti: al contrario, egli
desiderava far conoscere la legge della natura in modo chiaro ed
esauriente, cosicché ne potesse beneficiare il maggior numero di persone
possibile.

Non era nemmeno interessato a fondare una setta o un culto incentrato sulla
sua persona. La personalità di colui che insegna, egli affermava, è di
minor importanza rispetto all’insegnamento. Il suo proposito era di
mostrare agli altri come liberarsi, non di farli diventare ciecamente
devoti. A un seguace che gli dimostrava eccessiva venerazione, disse: «Che
cosa ottieni a vedere questo corpo, che è soggetto al disfacimento? Chi
vede Dharnma, vede me, chi vede me, vede Dhamma ».

La devozione nei confronti di un’altra persona, per quanto santa essa sia,
non è sufficiente a liberare qualcuno; non ci può essere liberazione o
salvezza senza l’esperienza diretta della realtà. Pertanto la supremazia è
della verità e non di chi ne parla. Si deve rispettare chiunque insegni la
verità, ma la via migliore per mostrare tale rispetto è lavorare per
realizzare la verità.

Quando verso la fine della vita gli furono tributati onori eccessivi, il
Buddha commentò: « Non è così che si onora un Illuminato, non è così che
gli si mostra rispetto, non è così che deve essere stimato, o riverito, o
venerato. Piuttosto sono il monaco e la monaca, il seguace e la seguace
laici che procedono con costanza lungo il sentiero di Dhamma, dal primo
passo fino alla meta ultima, è chi pratica il Dhamma operando nel giusto
modo, che onorano, stimano, rispettano, riveriscono e venerano al massimo
grado l’Illuminato».

Ciò che il Buddha ha insegnato era una via che ogni essere umano può
seguire. Chiamò questa via il Nobile Ottuplice Sentiero, ossia una pratica
divisa in otto parti fra loro collegate. È nobile nel senso che chi segue
il sentiero è destinato a diventare un uomo dal cuore nobile, una persona
santa, liberata dalle sofferenze.

È un sentiero che porta a una comprensione profonda della natura, della
realtà, un sentiero di realizzazione della verità. Per risolvere i nostri
problemi, dobbiamo vedere come è realmente la nostra situazione. Dobbiamo
imparare a riconoscere la realtà apparente, superficiale e anche a
penetrare al di là delle apparenze per percepire le verità più sottili sino
alla verità ultima, e quindi sperimentare la libertà dalla sofferenza.
Qualsiasi nome scegliamo di dare a questa verità di liberazione, sia esso
nibbàna, «paradiso », o qualsiasi altro, non ha importanza. La cosa
importante è farne esperienza.

Il solo modo per sperimentare direttamente la verità è di guardare dentro
noi stessi, di osservarci. Per tutta la vita siamo stati abituati a
guardare fuori. Siamo sempre interessati a ciò che accade fuori, a ciò che
fanno gli altri. Raramente, se non mai, abbiamo cercato di esaminare noi
stessi, la nostra struttura mentale e fisica, le nostre azioni, la nostra
realtà. Perciò siamo degli sconosciuti ai nostri stessi occhi. Non
comprendiamo quanto sia dannosa questa ignoranza, quanto rimaniamo schiavi
delle nostre forze interiori di cui non siamo consapevoli.

Questa oscurità interiore deve essere scacciata dalla conoscenza della
verità. Dobbiamo conseguire la comprensione profonda della nostra stessa
natura per comprendere la natura dell’esistenza. Pertanto, il sentiero che
il Buddha ha mostrato è il sentiero dell’introspezione,
dell’auto-osservazione. Egli ha detto: «”Proprio all’interno di questo
corpo, che contiene la mente con le sue percezioni, ho potuto conoscere
l’universo, la sua origine, la sua cessazione».7 L’intero universo e le
leggi della natura per mezzo delle quali esso opera devono essere
sperimentati all’interno di noi stessi. Possono essere sperimentati solo
all’interno di noi stessi.

Il sentiero è anche un sentiero di purificazione. Ricerchiamo la verità su
noi stessi non per un’oziosa curiosità intellettuale quanto piuttosto con
uno scopo ben preciso. Osservandoci, diventiamo consapevoli per la prima
volta delle nostre reazioni condizionate, dei pregiudizi che oscurano la
nostra visione mentale, che ci nascondono la realtà e producono sofferenza.
Identifichiamo le tensioni accumulate interiormente che ci turbano e ci
rendono infelici e comprendiamo che possono essere rimosse. Impariamo
gradualmente come permettere loro di dissolversi; e le nostre menti
diventano pure, calme e felici.

Il sentiero è un processo che richiede un’applicazione continua. Possono
sopraggiungere improvvise intuizioni, ma sono il risultato di uno sforzo
continuo. È necessario lavorare passo per passo; del resto, ad ogni passo i
benefici sono immediati. Non seguiamo il sentiero nella speranza di
accumulare benefici da godere solo nel futuro, o di ottenere, dopo la
morte, un paradiso che ora possiamo solo immaginare. I benefici devono
essere concreti, vividi, personali, sperimentati qui-e-ora.

E, soprattutto, è un insegnamento da praticare. Avere semplicemente fede
nel Buddha o nel suo insegnamento non ci aiuterà a liberarci dalla
sofferenza; né lo farà una comprensione meramente intellettuale del
sentiero. Questo ha valore solo se ci ispira a mettere in pratica
l’insegnamento. Solo la pratica concreta di ciò che il Buddha ha insegnato
darà risultati concreti e cambierà in meglio la nostra vita. Il Buddha ha
detto:
Una persona può recitare alla perfezione molti testi, ma se non li mette in
pratica è sventata come il bovaro che conta solo le mucche degli altri: non
gode delle ricompense proprie della vita di un ricercatore di verità.
Un’altra persona può essere capace di recitare solo poche parole dei testi,
ma se conduce una vita di Dhamma, procedendo passo dopo passo verso la meta
finale, allora può godere delle ricompense della vita di un ricercatore di
verità.8
Il sentiero deve essere seguito, l’insegnamento deve essere messo in
pratica, altrimenti l’esercizio è privo di senso. Non è necessario
definirsi un buddista per praticare questo insegnamento. Le etichette sono
irrilevanti. La sofferenza non fa distinzioni, ma è comune a tutti: quindi
il rimedio, per essere utile, deve essere ugualmente applicabile a tutti.

Né la pratica è riservata agli eremiti che si sono allontanati dalla vita
ordinaria. Sebbene sia necessario dedicare un determinato periodo
all’apprendimento, una volta che questo sia concluso, si deve applicare
l’insegnamento alla vita quotidiana. Chi lascia la propria casa e le
responsabilità del mondo per seguire il sentiero ha la possibilità di
lavorare più intensamente, di assimilare l’insegnamento più profondamente e
quindi di progredire più rapidamente. D’altra parte, chi è coinvolto nella
vita mondana, impegnato a far fronte a molte e diverse responsabilità, può
dedicare solo un tempo limitato alla pratica. Ma Dhamma deve essere
applicato sia da coloro che hanno lasciato le loro case, sia dai
capifamiglia.

Solo se viene applicato, Dhamma da dei risultati. Se questa è veramente la
via che conduce dalla sofferenza alla pace, allora, man mano che
progrediamo nella pratica la nostra vita quotidiana deve diventare più
felice, più armoniosa, apportatrice di pace interiore. Nello stesso tempo i
nostri rapporti con gli altri devono diventare più pacifici e armoniosi.
Invece di aumentare le tensioni della società, dobbiamo essere capaci di
fornire un contributo positivo che accrescerà la felicità e il benessere di
tutti. Per seguire il sentiero dobbiamo vivere la vita di Dramma, della
verità ,della purezza. Questo è il modo giusto di seguire l’insegnamento.
Dramma, correttamente praticato , è l’arte di vivere.
Domande e risposte
DOMANDA: Voi fate riferimento al Buddha. Insegnate quindi il buddismo?

SATYA NARAYAN GOENKA: Non mi occupo di « ismi ».Insegno Dhamma, e cioè
quello che ha insegnato il Buddha.

Egli non ha mai insegnato un « ismo » o una dottrina settaria. Ha insegnato
qualcosa da cui chiunque, quale che sia la sua provenienza, può trarre
beneficio: un’arte di vivere. Rimanere nell’ignoranza è dannoso per tutti:
sviluppare la saggezza è un bene per tutti. Così, chiunque può praticare
questa tecnica e trame beneficio. Un cristiano diventerà un buon cristiano,
un ebreo diventerà un buon ebreo, un musulmano un buon musulmano, un indù
un buon indù, un buddista un buon buddista. Ognuno deve diventare un buon
essere umano, altrimenti non potrà mai essere un buon cristiano, un buon
ebreo, un buon musulmano, un buon indù, un buon buddista. Come diventare
buoni esseri umani: è questa la cosa più importante.

Voi parlate del condizionamento. Questo tipo di esercizio non è anch’esso
una forma di condizionamento della mente, anche se positivo?

Al contrario, è un processo di decondizionamento. Invece di imporre
qualcosa alla mente, automaticamente rimuove le qualità non benefiche,
cosicché rimangono solo quelle positive e benefiche. Eliminando la
negatività, esso scopre la positività, che è la natura fondamentale di una
niente pura.

Ma il fatto che per un determinato periodo di tempo si debba sedere in una
certa posizione e dirigere l’attenzione in un certo modo, non è una forma
di condizionamento?

Se fate questo come un gioco o come un rito meccanico, allora indubbiamente
condizionate la mente. Ma sarebbe un uso sbagliato di Vipassana, mentre
quando la tecnica viene praticata in modo corretto vi rende capaci di
sperimentare direttamente la verità, da soli. E da questa esperienza si
sviluppa naturalmente la comprensione, che distrugge tutti i
condizionamenti precedenti.

Non è egoistico dimenticare il mondo e limitarsi a starsene seduti a
meditare tutto il giorno?

Lo sarebbe se fosse fine a se stesso, ma è un mezzo per raggiungere un fine
che non è affatto egoistico: una mente sana. Quando il vostro corpo è
malato, andate in ospedale per recuperare la salute. Non rimanete là per
tutta la vita, ma semplicemente per recuperare la salute, di cui poi farete
uso nella vita ordinaria. Allo stesso modo, frequentate un corso di
meditazione per ottenere la salute mentale che utilizzerete nella vita di
tutti i giorni per il bene vostro e degli altri.

Rimanere felici e in pace anche quando ci si confronta con la sofferenza
altrui non è forse pura insensibilità?

Essere sensibili alle sofferenze degli altri non significa che si debba
diventare tristi. Al contrario, dovete rimanere calmi ed equilibrati così
da poter alleviare le sofferenze altrui. Se anche voi diventate tristi,
accrescete l’infelicità attorno a voi; non aiutate gli altri e non aiutate
voi stessi.

Perché è necessario un corso di dieci giorni per apprendere questa tecnica?

È certo che se poteste fermarvi per un periodo più lungo sarebbe ancor
meglio! Ma dieci giorni sono il tempo minimo che consente di comprendere lo
schema della tecnica.

Perché dobbiamo rimanere per dieci giorni nel luogo in cui si tiene il
corso?

Perché siete qui per compiere un’operazione alla mente. Così come le
operazioni chirurgiche devono essere fatte in ospedale, in sale operatorie
protette da fonti di infezioni, così qui, dentro i confini del luogo dove
si tiene il corso, l’operazione sulla vostra mente può essere compiuta
senza essere disturbati da influenze esterne. Quando il corso finisce,
anche l’operazione è finita e voi siete pronti a rientrare in contatto con
il mondo.
Questa tecnica guarisce malattie fisiche?

Sì, come risultato secondario. Molti disturbi psicosomatici spariscono
spontaneamente allorché le tensioni mentali si dissolvono. Se la mente è
turbata, le malattie sono portate a svilupparsi. Quando la mente diviene
calma e pura, scompaiono automaticamente. Ma se vi prefiggete come scopo la
cura di un malessere fisico invece della purificazione della niente, non
raggiungerete né l’uno né l’altro risultato. Ho appurato che chi segue il
corso con lo scopo di curare una malattia fisica fissa l’attenzione solo su
questo per tutto il periodo del corso: “Oggi va meglio? No, non va
meglio… Oggi sto migliorando? No, niente miglioramento”. E tutti i dieci
giorni se ne vanno in questo modo. Ma se l’intenzione è semplicemente
quella di purificare la mente, allora molti malanni scompariranno
automaticamente, come risultato della meditazione.

Qual è secondo voi lo scopo della vita?

Uscire dall’infelicità. Gli esseri umani hanno la meravigliosa capacità di
scavare a fondo dentro di sé, di osservare la realtà e uscire dalla
sofferenza. Non usare questa capacità significa sprecare la propria vita.
Utilizzatela per vivere una vita sana e felice.

Voi parlate di « essere sopraffatti » dalla negatività. Cosa pensate del
caso contrario, cioè di « essere sopraffatti» dalla positività, per esempio
dall’amore?

Quella che voi definite « positività » è la natura reale della mente.
Quando la mente è libera dal condizionamento, è sempre piena d’amore —
amore puro — e ci si sente in pace e felici. Se si rimuove la negatività,
allora rimane la positività, rimane la purezza. Che tutto il mondo possa
essere sommerso da questa positività!

CAPITOLO SECONDO

IL PUNTO DI PARTENZA

La fonte della sofferenza è dentro ciascuno di noi. Quando avremo imparato
a conoscere profondamente la nostra propria realtà, allora avremo trovato
la soluzione al problema della sofferenza. «Conosci te stesso»: tutti i
saggi
lo hanno consigliato. Dobbiamo iniziare a conoscere la nostra propria
natura, altrimenti non potremo mai risolvere i nostri problemi o i problemi
del mondo.

Ma in realtà che cosa sappiamo di noi? Ognuno di noi è convinto di essere
importante, unico, ma la conoscenza che abbiamo di noi stessi è solo
superficiale. A livelli più profondi, non ci conosciamo affatto.

Il Buddha ha esaminato il fenomeno dell’essere umano indagando la sua
propria natura. Lasciando da parte ogni pregiudizio, ha esplorato la realtà
interiore e compreso che ogni essere è un insieme di cinque aggregati,
quattro mentali e uno fisico.

La materia

Cominciamo con l’aspetto fisico. È il più ovvio, la nostra parte più
visibile, subito percepita dai sensi, ma quanto poco la conosciamo in
realtà! Possiamo controllare il corpo superficialmente: si muove e agisce
secondo la volontà cosciente.

Ma a un altro livello, tutti gli organi interni funzionano fuori dal nostro
controllo, senza che noi sappiamo come. A un livello più sottile, non
abbiamo la percezione delle incessanti reazioni biochimiche che avvengono
dentro
ogni cellula del corpo. Ma questa non è ancora la realtà ultima del
fenomeno materia.

In definitiva il corpo, che sembra solido, è composto di particelle
subatomiche e di spazi vuoti.

Persino queste particelle subatomiche non hanno una solidità reale; il
tempo di esistenza di una di esse è molto meno di un trilionesimo di
secondo. Le particelle nascono e svaniscono continuamente, passando dentro
e fuori dallo stato di esistenza, come un flusso di vibrazioni.

Questa è la realtà ultima del corpo, di tutta la materia, scoperta dal
Buddha 2500 anni fa.

Con le loro ricerche, gli scienziati moderni hanno riconosciuto e accettato
questa realtà ultima dell’universo materiale, senza tuttavia divenire delle
persone liberate, illuminate. Con la loro curiosità essi hanno indagato la
natura dell’universo utilizzando l’intelletto e affidandosi agli strumenti
per verificare le loro teorie.

Il Buddha, al contrario, era motivato non soltanto dalla curiosità quanto
piuttosto dal desiderio di trovare una via d’uscita dalla sofferenza.

Nella sua ricerca non usò altri strumenti tranne la propria mente.

La verità che scoprì non fu il risultato di una razionalizzazione, bensì
della sua esperienza diretta.

Ecco perché riuscì a liberarsi. Scoprì che l’intero universo materiale era
composto da particelle, chiamate in pàli kalàpa, « unità indivisibili».
Nelle loro infinite varianti queste unità possiedono le qualità
fondamentali della materia: massa, coesione, temperatura e movimento. Si
combinano per formare strutture che sembrano avere una qualche permanenza,
ma che di fatto sono tutte composte di minuscole kalàpa, che sono in uno
stato di continuo sorgere e sparire. Questa è la realtà ultima della
materia: un costante flusso di onde o particelle.

Questo è il corpo che ciascuno di noi chiama « me stesso ».

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