L’arte di vivere la tecnica della meditazione vipassana 6b

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L’arte di vivere la tecnica della meditazione vipassana 6

secondo S.N.Goenka) – di William Hart (parte sesta)

traduzione di
MARIA ANGELA PALA e PIERLUIGI GONFALONIERI

CAPITOLO SETTIMO

LA PRATICA DELLA SAGGEZZA
Né sila né samadhi sono insegnamenti esclusivi del Buddha. Entrambi erano già noti e praticati prima
della sua illuminazione; infatti, mentre stava cercando la via per diventare illuminato, il futuro
Buddha aveva appreso samadhi da due maestri con cui aveva studiato. Nel prescrivere le due pratiche
il Buddha concordava con i maestri delle religioni convenzionali. Tutte le religioni infatti
insistono sulla necessità di un comportamento morale e offrono anche la possibilità di ottenere
degli stati di beatitudine sia per mezzo di preghiere, rituali, digiuni o altri esercizi di
austerità, sia con varie forme di meditazione. Lo scopo di tali esercizi è semplicemente quello di
raggiungere uno stato di assorbimento mentale profondo. Si tratta dell’« estasi » sperimentata dai
mistici delle varie religioni.

Tale concentrazione, anche quando non è sviluppata fino al livello di trance, è molto utile.
Acquieta la mente, distogliendo l’attenzione da situazioni in cui altrimenti si reagirebbe con
bramosia e avversione. Contare lentamente fino a dieci per prevenire uno scoppio di ira è una forma
rudimentale di samadhi. Altre forme, persino più ovvie, sono la ripetizione di una parola o di un
mantra o la concentrazione su un oggetto. Tutte funzionano: quando l’attenzione è rivolta verso un
certo oggetto, sembra che la mente divenga calma, piena di pace.

La calma acquisita in tal modo, tuttavia, non è una vera liberazione. Anche se è estremamente utile,
la pratica

della concentrazione opera solo a livello mentale conscio. Quasi venticinque secoli prima
dell’invenzione della moderna psicologia, il Buddha scoprì l’esistenza dell’inconscio, che chiamò
anusaya. Egli scoprì inoltre che bramosia e avversione si possono controllare a livello conscio col
distogliere l’attenzione, ma che, in realtà, questo non le elimina: al contrario, le spinge in
profondità, a livello inconscio, dove rimangono pericolose come sempre, anche se assopite. Pertanto,
nella mente a livello superficiale può esserci uno strato di pace e armonia, mentre in profondità
c’è un vulcano addormentato di negatività soppresse che prima o poi erutteranno con violenza. Il
Buddha ha detto:
Se le radici rimangono intatte e solide nel terreno, un albero abbattuto butterà ancora fuori nuovi
getti.

Se l’abitudine latente alla bramosia e all’avversione non viene estirpata alle radici,
la sofferenza risorgerà da capo continuamente.

Sino a quando il condizionamento rimane a livello inconscio, alla prima occasione esso darà vita a
nuovi germogli, provocando sofferenza. Per questo, persino dopo aver raggiunto i più alti stati
conseguibili con la pratica della con-centrazione, il Buddha non era convinto di aver raggiunto la
liberazione. Stabilì dunque di continuare la sua ricerca per trovare la via di uscita dalla
sofferenza e il sentiero che conduce alla felicità.

Vide che c’erano due possibilità di scelta. La prima era il sentiero dell’autoindulgenza, che dava
via libera al sod-disfacimento di tutti i desideri. È questo il sentiero mondano, quello che segue
la maggior parte della gente, con-sapevolmente o no. Ma egli vide con chiarezza che non poteva
portare alla vera felicità. Non esiste nessuno nell’universo i cui desideri siano sempre
soddisfatti, e nella cui vita ogni cosa desiderata si avveri senza che gli accada
mai nulla di indesiderato. Chi segue questo sentiero, inevitabilmente soffre quando non riesce a
soddisfare i propri desideri, cioè soffre per il disappunto e l’insoddisfazione. Ma soffre
ugualmente quando ottiene ciò che desidera: soffre per la paura che l’oggetto desiderato svanisca,
che il momento della gratificazione si dimostri transitorio: come di fatto è. Nel cercare,
nell’ottenere e nel perdere ciò che desiderano, tali persone sono sempre agitate. Il futuro Buddha
aveva sperimentato questo sentiero di persona prima di abbandonare il mondo per farsi eremita, e
quindi sapeva che esso non porta alla pace.

L’alternativa è il sentiero dell’autocontrollo, dell’astenersi deliberatamente dal soddisfare i
propri desideri. In India, 2500 anni fa, il sentiero dell’autocontrollo veniva portato all’eccesso,
fino a evitare tutte le esperienze piacevoli e infliggersi quelle spiacevoli: si pensava in tal modo
di guarire dall’abitudine alla bramosia e all’avversione e, di conseguenza, che la mente si sarebbe
purificata. Del resto, queste pratiche rigide sono comuni alla vita religiosa di qualsiasi parte del
mondo e il futuro Buddha le aveva sperimentate per anni dopo aver abbandonato la vita laica. Aveva
provato diverse pratiche ascetiche fino a ridursi in uno stato di estrema magrezza, per poi scoprire
che ancora non si era liberato. Punire il corpo non purifica la mente.

L’autocontrollo non deve essere spinto a questi estremi: si può praticarlo in una forma più moderata
astenendosi dal gratificare i desideri che implicano azioni dannose. Questo tipo di autolimitazione
sembra assai preferibile all’autoindulgenza, perché, nel praticarlo, si evita almeno di compiere
azioni immorali. Ma se l’autocontrollo viene raggiunto solo con l’autorepressione, le tensioni
mentali aumenteranno fino a un livello pericoloso. Tutti i desideri soppressi si accumuleranno come
acque in piena dietro la diga dell’autocontrollo. Un giorno la diga sarà costretta a cedere e a dare
via libera a una distruttiva inondazione.
Fino a quando la nostra mente non si libererà dai condizionamenti, non potremo essere né al sicuro
né in pace. Per quanto benefico,sila non può essere mantenuto dalla pura e semplice forza di
volontà. Anche samadhi può aiutare, ma si tratta solo di una soluzione parziale che non opera ai
livelli mentali profondi dove si trovano le radici del problema, le radici delle impurità. Per cui,
fino a quando queste radici rimarranno sepolte nell’inconscio, non ci potrà essere né una vera e
duratura felicità, né la liberazione.

Ma se è possibile rimuovere dalla mente le radici del condizionamento, allora non ci sarà pericolo
di indulgere in azioni dannose, né necessità di autorepressione, perché l’impulso stesso di compiere
un’azione negativa sarà scomparso. Liberati dalla tensione sia della ricerca che del rifiuto,
ciascuno potrà vivere in pace.

Per rimuovere le radici è necessario un metodo col quale penetrare nelle profondità della mente e
raggiungere le impurità proprio dove esse si annidano. È questo il metodo scoperto dal Buddha: la
pratica della saggezza, o panna, che lo ha guidato all’illuminazione, chiamata anche
vipassana-bhavana, lo sviluppo della comprensione profonda della propria natura, per mezzo della
quale si possono riconoscere ed eliminare le cause della sofferenza.Questo è ciò che il Buddha ha
scoperto, ciò che egli ha praticato per raggiungere la sua liberazione e che ha insegnato agli altri
per tutta la vita, l’elemento peculiare del suo insegnamento al quale attribuiva la massima
importanza. Egli ripeteva spesso che:

« Se è sostenuta dalla moralità, la concentrazione è molto fruttuosa, molto benefica.
Se è sostenuta dalla concentrazione, la saggezza è molto fruttuosa, molto benefica.
Se è sostenuta dalla saggezza, la mente si libera da tutte le impurità».

La moralità e la concentrazione — sila e samadhi — sono preziose di per sé, ma il loro vero scopo è
di condurre alla saggezza.

È solo attraverso lo sviluppo di panna che troviamo il sentiero che sta a mezzo fra gli estremi
dell’autoindulgenza e dell’autorepressione. Con la pratica della moralità, evitiamo di compiere le
azioni che provocano le forme più gravi di agitazione mentale. Concentrando la mente, poi, la
calmiamo ulteriormente e nello stesso tempo la prepariamo a intraprendere il lavoro di
autointrospezione. Ma solo sviluppando la saggezza saremo in grado di penetrare nella realtà
interiore e liberarci da ogni ignoranza e attaccamento.

Due parti del Nobile Ottuplice Sentiero riguardano la pratica dell’educazione alla saggezza: il
giusto pensiero e la giusta comprensione.
Il giusto pensiero

Prima di iniziare vipassana-bhavana non è necessario sospendere tutti i pensieri durante la
meditazione. I pensieri possono ancora persistere, ma per iniziare a lavorare è sufficiente
mantenere la consapevolezza momento per momento.

I pensieri possono rimanere, ma la natura del loro corso cambia. Con la consapevolezza del respiro,
bramosia e av-versione si sono calmati. La mente è divenuta tranquilla, almeno a livello conscio, e
ha iniziato a pensare a Dhamma, alla via per uscire dalla sofferenza. Le difficoltà che si sono
presentate agli esordi della pratica della consapevolezza del respiro ora sono terminate, o almeno
sono state in parte superate. Si è pronti per il passo successivo: la giusta comprensione.

– La giusta comprensione –

È questa la vera saggezza. Pensare alla verità non è abbastanza. Dobbiamo noi stessi realizzare la
verità, dobbiamo vedere le cose come sono realmente, non solo come appaiono. La verità apparente è
anch’essa una realtà, ma è quella che dobbiamo penetrare per sperimentare la nostra realtà ultima e
così eliminare la sofferenza. Ci sono tre tipi di saggezza: la saggezza ricevuta (suta-maya panna),
la saggezza intellettuale (cinta-maya panna) e la saggezza basata sull’esperienza (bhavana-maya
panna). Letteralmente, la frase suta-maya panna significa « saggezza ascoltata»: la saggezza
imparata dagli altri, ad esempio leggendo libri o ascoltando discorsi o conferenze; è la saggezza di
un’altra persona che si decide di fare propria. L’accettazione può essere causata dall’ignoranza.
Per esempio, le persone cresciute in una comunità con una certa ideologia, una certa religione o
altro, possono accettare senza discutere. Oppure l’accettazione può essere causata dal desiderio. I
capi della comunità possono dichiarare che accettare l’ideologia stabilita, il credo tradizionale,
garantisce un futuro meraviglioso; può anche darsi che affermino che tutti i fedeli, dopo la morte,
andranno in paradiso. Naturalmente la beatitudine del paradiso attrae molto, e così si accetta
volentieri. Oppure l’accettazione può provenire dalla paura. I capi intuiscono che la gente comincia
ad avere dei dubbi e a fare domande sull’ideologia della comunità, così ordinano di conformarsi al
credo comune, minacciando punizioni terribili se non ci si adegua ad esso: forse affermano anche che
tutti quelli che non credono dopo la morte andranno all’inferno. Naturalmente la gente non vuole
andare all’inferno, così soffoca i suoi dubbi e adotta il credo della comunità.

Sia che venga accettata per cieca fede, per desiderio o per paura, la saggezza ricevuta non è la
propria saggezza, né qualcosa sperimentato di persona: è una saggezza presa a prestito.

Il secondo tipo di saggezza è la comprensione intellettuale. Dopo aver letto o ascoltato un certo
insegnamento, ci si riflette sopra e lo si esamina per stabilire se è davvero razionale, benefico e
pratico. E se soddisfa a livello intellettuale, lo si accetta come vero. Anche in questo caso si
tratta di una conoscenza che non è la propria, ma solo un ragionamento sulla saggezza che si è
ascoltata.

Il terzo tipo di saggezza è quella che nasce dalla propria esperienza, dalla realizzazione personale
della verità. È la saggezza che si vive, la saggezza reale che porterà un cambiamento nella propria
vita, mutando la natura stessa della mente.

Nelle faccende del mondo, non sempre la saggezza basata sull’esperienza può essere necessaria o
utile. È sufficiente accettare l’avvertimento degli altri sul fatto che il fuoco è pericoloso,
oppure convalidare i fatti con dei ragionamenti deduttivi. È sconsiderato insistere a buttarsi tra
le fiamme prima di accettare il fatto che il fuoco brucia. In Dhamma, però, la saggezza che deriva
dall’esperienza è essenziale, dal momento che solo essa rende capaci di liberarci dai
condizionamenti.

La saggezza che si acquisisce ascoltando gli altri e la saggezza acquisita con la ricerca
intellettuale sono utili se ci ispirano e ci guidano verso il terzo tipo di panna, la saggezza
basata sull’esperienza. Ma se ci accontentiamo di accettare la saggezza ricevuta senza discutere,
questo diventa una forma di schiavitù, una barriera che non ci permette di ottenere la comprensione
a livello di esperienza. Per la stessa ragione, se ci accontentiamo solo di contemplare la verità,
di studiarla e comprenderla intellettualmente, ma non facciamo alcuno sforzo per sperimentarla
direttamente, allora tutta la nostra comprensione intellettuale, invece di un aiuto per la
liberazione, diventa una schiavitù.

Ognuno di noi deve vivere la verità sperimentandola direttamente con la pratica di bhavana. Soltanto
questa

esperienza vissuta libererà la mente. Anche la realizzazione della verità di qualcun altro non potrà
liberarci; persino l’illuminazione del Buddha potè liberare una sola persona, Siddhattha Gotama.
Tutt’al più la realizzazione di qualcuno può agire come ispirazione per altri, offrendo loro delle
tracce da seguire, ma in definitiva ognuno di noi deve lavorare per conto proprio. Come ha detto il
Buddha:

Ciascuno di voi deve lavorare e compiere il proprio sforzo.
Coloro che hanno raggiunto la meta finale
vi mostreranno solamente la via.

La verità può essere vissuta, e sperimentata direttamente, solo all’interno di se stessi. Tutto ciò
che è esterno è sempre lontano da noi. Solo interiormente possiamo avere un’esperienza viva, diretta
e autentica della realtà.
Dei tre tipi di saggezza, i primi due non sono peculiari dell’insegnamento del Buddha, poiché
entrambi esistevano in India prima di lui e anche ai suoi tempi c’era chi affermava di insegnare già
qualsiasi cosa egli andava insegnando. Il contributo specifico del Buddha al mondo è stata la via
per realizzare personalmente la verità e sviluppare così la saggezza basata sull’esperienza diretta,
bhavana-maya panna. Questo modo per conseguire la realizzazione diretta della verità è la tecnica di
vipassana-bhavana.

– Vipassana-bhavana –

Vipassana viene spesso descritta come un lampo di comprensione profonda, un’improvvisa intuizione
della verità.

La descrizione è corretta, ma di fatto c’è un metodo graduale che il meditatore può usare per
avanzare fino al punto in cui si diventa capaci di avere una simile intuizione. Questo metodo è
detto vipassana-bhavana, sviluppo della comprensione profonda, comunemente chiamato meditazione
Vipassana.

La parola passana significa « vedere », quel tipo ordinario di visione che abbiamo quando apriamo
gli occhi.

Vipassana significa un tipo di visione speciale: l’osservazione della realtà all’interno di se
stessi. Questa si raggiunge prendendo come oggetto di attenzione le proprie sensazioni fisiche. La
tecnica consiste nell’osservazione sistematica e imparziale delle sensazioni dentro di sé,
un’osservazione che svela la realtà totale della mente e del corpo.

Perché la sensazione? Innanzitutto perché è con la sensazione che sperimentiamo direttamente la
realtà. Qualunque cosa deve entrare in contatto con i nostri cinque sensi fisici o con la mente,
altrimenti per noi non esiste. Queste sono le vie d’accesso attraverso le quali sperimentiamo il
mondo, le basi di tutte le nostre esperienze. E ogniqualvolta qualcosa viene in contatto con queste
sei basi sensorie, si ha una sensazione.
Il Buddha ha così descritto questo processo: « Se qualcuno prende due pezzetti di legno e li
strofina l’uno contro l’altro, dalla frizione si forma del calore e si produce una scintilla. Allo
stesso modo, quale risultato di un contatto che si è sperimentato come piacevole, sorge una
sensazione piacevole, quale risultato di un contatto che si è sperimentato come spiacevole, sorge
una sensazione spiacevole, quale risultato di un contatto che si è sperimentato come neutro, sorge
una sensazione neutra».

Il contatto di un oggetto con la mente o con il corpo produce una scintilla di sensazione. Tale
sensazione è il legame attraverso cui sperimentiamo il mondo con tutti i suoi fenomeni, fisici e
mentali. Per sviluppare la saggezza basata sull’esperienza dobbiamo diventare consapevoli di ciò che
realmente proviamo, cioè dobbiamo sviluppare la consapevolezza delle sensazioni.

Inoltre, le sensazioni fisiche sono strettamente connesse con la mente e, come il respiro, offrono
un riflesso dello stato mentale presente. Quando degli oggetti mentali — pensieri, idee, fantasie,
emozioni, ricordi, speranze, timori — vengono in contatto con la mente, sorgono le sensazioni. Ogni
pensiero, ogni emozione, ogni azione mentale è accompagnata da una sensazione corrispondente
all’interno del corpo. Quindi, osservando le sensazioni fisiche,
osserviamo anche la mente.

La sensazione è indispensabile per esplorare fino in fondo la verità. Ogni cosa in cui ci imbattiamo
nel mondo provoca una sensazione all’interno del corpo. La sensazione è un crocevia in cui mente e
corpo si incontrano. Sebbene sia di natura fisica, è altresì uno dei processi mentali. Sorge dentro
il corpo ed è sentita dalla mente. In un corpo morto o nella materia inanimata non ci può essere
sensazione perché non vi è mente.
Se siamo inconsapevoli di questa esperienza, la nostra indagine della realtà resta incompleta e
superficiale. Proprio come quando, liberando un giardino dalle erbacce, dobbiamo essere consapevoli
delle radici nascoste e della loro funzione vitale, allo stesso modo dobbiamo essere consapevoli
delle sensazioni — la maggior parte delle quali generalmente ci rimangono nascoste — se vogliamo
comprendere la nostra natura e confrontarci con essa in modo appropriato.

Le sensazioni si avvicendano senza sosta nel nostro corpo. Ogni contatto, mentale o fisico, produce
una sensazione. Ogni reazione biochimica da origine a una sensazione. Nella vita ordinaria, la mente
conscia manca della con-centrazione necessaria per essere consapevole di tutte le sensazioni —
tranne le più intense —, ma una volta che abbiamo affilato la mente con la pratica di anapana-sati e
sviluppato la facoltà della consapevolezza, diveniamo capaci di sperimentare consciamente la realtà
di ogni sensazione che proviamo dentro di noi.

Nella pratica della consapevolezza della respirazione, lo sforzo consiste nell’osservare il respiro
naturale, senza controllarlo o regolarlo. Analogamente, nella pratica di vipassana-bhavana
osserviamo semplicemente le sensazioni fisiche.

Facciamo scorrere l’attenzione sistematicamente attraverso tutta la struttura fisica, dalla testa ai
piedi e dai piedi alla testa, da un’estremità all’altra, ma così facendo non andiamo alla ricerca di
qualche tipo particolare di sensazione, né cerchiamo di evitare sensazioni di un certo tipo. Lo
sforzo è solo quello di osservare oggettivamente, di essere consapevoli di qualsiasi sensazione si
manifesti nel corpo. Le sensazioni possono essere di qualsiasi tipo: calore, freddo, pesantezza.,
leggerezza, prurito, palpitazione, contrazione, espansione, pressione, dolore, ronzio, pulsazione,
vibrazione, tremolio e altro ancora.

Il meditatore non cerca qualcosa di straordinario, ma osserva le sensazioni fisiche ordinarie così
come si manifestano naturalmente. Né deve fare sforzo alcuno per scoprire la causa di una
sensazione: essa può nascere dalle condizioni atmosferiche, o per la posizione in cui si è seduti, o
per gli effetti di una vecchia malattia o della debolezza del corpo, o anche per il cibo che si è
ingerito. La ragione non è importante e non ci interessa. La cosa importante è di essere consapevoli
della sensazione che proviamo in quel determinato momento nella parte del corpo in cui l’attenzione
è concentrata.

Quando ci dedichiamo a questa pratica per la prima volta, possiamo essere in grado di percepire le
sensazioni in alcune parti del corpo e non in altre. Quando la facoltà della consapevolezza non è
ancora pienamente sviluppata, sperimentiamo solo le sensazioni intense e non le più fini, le più
sottili. Tuttavia, alternativamente, continuiamo a rivolgere l’attenzione a ogni parte del corpo,
muovendo la nostra consapevolezza in ordine sistematico, senza per-mettere all’attenzione di essere
attratta indebitamente da sensazioni più forti. Essendo già educati alla concentrazione, abbiamo
sviluppato l’abilità di fissare l’attenzione su un oggetto scelto consciamente. Ora utilizziamo tale
abilità per muovere la consapevolezza su ogni parte del corpo in ordine progressivo, senza
tralasciare le parti in cui la sensazione è poco chiara per passare a quelle dove è più forte, senza
soffermarci su qualche sensazione particolare e neppure cercare di evitarne altre. In tal modo ci
troveremo gradualmente nella situazione in cui potremo sperimentare le sensazioni in ogni parte del
corpo
.
Quando si intraprende la pratica della consapevolezza della respirazione, il respiro sarà spesso
pesante e irregolare. Poi man mano si calma e diventa progressivamente più leggero, fine e delicato.
Allo stesso modo, all’inizio della pratica di vipassana-bhavana, spesso si sperimentano sensazioni
forti, intense e spiacevoli che sembrano durare a lungo, così come possono sorgere emozioni forti,
pensieri a lungo dimenticati, ricordi che apportano disagi fisici e mentali, persino dolore. Gli
ostacoli della bramosia e dell’avversione, della pigrizia, dell’agitazione e del dubbio, che
impediscono di progredire nella pratica della consapevolezza del respiro, possono ora ricomparire, e
tanto forti da rendere completamente impossibile mantenere la consapevolezza delle sensazioni. Di
fronte a una tale situazione, non si ha altra alternativa se non quella di ritornare alla pratica
della consapevolezza del respiro per calmare e affinare ancora una volta la mente.

Pazientemente, senza sentirci sconfitti, riprendiamo a operare per ristabilire la concentrazione,
ben sapendo che tutte queste difficoltà in realtà sono il risultato del nostro successo iniziale.
Alcuni condizionamenti sepolti in profondità sono stati stimolati e hanno cominciato ad apparire a
livello conscio. Gradualmente, con uno sforzo prolungato, ma senza tensioni, la mente riacquista la
tranquillità e la concentrazione. I pensieri forti e le emozioni scompaiono e si può ritornare alla
consapevolezza delle sensazioni. Con una pratica continua e ripetuta, le sensazioni intense tendono
a dissolversi in sensazioni più uniformi e sottili e alla fine in semplici vibrazioni, che sorgono e
se ne vanno con grande rapidità.

Ma ai fini della meditazione è irrilevante che le sensazioni siano piacevoli o spiacevoli, intense o
sottili, uniformi o variate. Il compito dei meditatori è semplicemente quello di osservare con
oggettività. Sia che le sensazioni spiacevoli ci abbiano procurato disagio, sia che quelle piacevoli
ci abbiano attratto, non dobbiamo fermare il nostro lavoro, né permettere ad esse di distrarci o di
intrappolarci; il nostro compito consiste solo nell’osservare noi stessi con lo stesso distacco di
uno scienziato alle prese con esperimenti di laboratorio.

– Impermanenza, inesistenza dell’Io, sofferenza –

Perseverando nella meditazione, comprenderemo ben presto un fatto basilare: le nostre sensazioni
mutano costante-mente. Ad ogni istante, in ogni parte del corpo, sorge una sensazione e ogni
sensazione è indice di mutamento. Ad ogni istante avvengono dei cambiamenti in ogni parte del corpo,
delle reazioni elettromagnetiche e biochimiche. Ad ogni istante, e più rapidamente ancora, i
processi mentali cambiano e si manifestano con mutamenti fisici.
Questa è la realtà della mente e della materia: mutevole e impermanente: anicca. Ad ogni istante le
particelle subatomiche di cui è composto il corpo nascono e svaniscono. Ad ogni istante le funzioni
mentali compaiono e scompaiono, una dopo l’altra. Ogni cosa interna, fisica e mentale, così come il
mondo esterno, cambia ad ogni istante.

E se in precedenza potevamo aver riconosciuto, aver compreso intellettualmente che questo era vero,
ora, con la pratica di vipassana-bhavana, sperimentiamo invece la realtà dell’impermanenza dentro la
struttura del nostro corpo. L’esperienza diretta della transitorietà delle sensazioni ci prova la
nostra natura effimera.

Ogni parte del corpo, ogni processo mentale è in uno stato di fluire continuo. Non c’è niente che
permanga al di là del singolo istante, nessun nucleo a cui potersi aggrappare, nulla che si possa
chiamare « Io » o « mio ».
Questo Io è solo una combinazione di processi in continuo mutamento.

Così il meditatore arriva a comprendere un’altra realtà fondamentale: anatta, la non-esistenza di un
Io reale, di un sé o di un ego permanente. L’ego a cui si è così attaccati è un’illusione creata
dalla combinazione di processi fisici e mentali, processi in costante fluire. Avendo esplorato il
corpo e la mente fino ai livelli più profondi, si verifica che non c’è un nucleo immutabile,
un’essenza che sia indipendente dai processi, nulla che sia esente dalla legge dell’impermanenza.

C’è solo un fenomeno impersonale, che cambia al di fuori del nostro controllo.

Allora un’altra realtà diviene chiara. Qualsiasi sforzo di aggrapparsi a qualcosa, dicendo: « questo
è l’Io, questo è me, questo è mio », ci costringe all’infelicità, perché prima o poi questo qualcosa
a cui ci aggrappiamo se ne andrà, e anche l’Io se ne andrà. L’attaccamento a ciò che è impermanente,
transitorio, illusorio e fuori dal nostro controllo è sofferenza, dukkha. Comprendiamo tutto questo
non perché qualcuno ci dice che è così, ma perché lo sperimentiamo osservando le sensazioni
all’interno del nostro corpo.

– Equanimità –

Come si fa allora a non essere infelici? Come si fa a vivere senza sofferenza? Limitandosi ad
osservare senza reagire: invece di cercare di far durare un’esperienza o di evitarne un’altra, di
procurarsene una o di scacciarne un’altra ancora, non si fa altro che esaminare ogni fenomeno
oggettivamente, con equanimità, con la mente equilibrata.

Sembra abbastanza semplice, ma che fare quando ci sediamo con l’intenzione di meditare per un’ora e
dopo dieci minuti ci fanno male le ginocchia? Cominciamo subito a odiare il dolore, a volere che se
ne vada. Ma non se ne va; al contrario, più lo odiamo, più diventa forte. Il dolore fisico diviene
un dolore mentale, che provoca grande sofferenza.

Se possiamo apprendere per un momento solo a osservare il dolore fisico, se sia pure temporaneamente
possiamo liberarci dall’illusione che è il nostro dolore, che siamo noi a sentire dolore, se
possiamo esaminare la sensazione oggettivamente come un medico esamina il dolore di qualcun altro,
allora ci accorgiamo che il dolore stesso cambia. Non è fisso, cambia ad ogni istante, se ne va,
ricomincia, cambia di nuovo.
Quando comprendiamo questo attraverso l’esperienza personale, scopriamo che il dolore non potrà più
sopraffarci né controllarci a lungo. Forse se ne andrà via rapidamente, forse no, ma non importa.
Non soffriamo più per il dolore perché possiamo osservarlo con distacco.

– La via che conduce alla liberazione –

Possiamo liberarci della sofferenza sviluppando consapevolezza ed equanimità. La sofferenza ha il
suo principio nell’ignoranza della propria realtà. Nel buio di questa ignoranza, la mente reagisce
ad ogni sensazione con piacere o dispiacere, bramosia o avversione. Ogni reazione di tale tipo crea
sofferenza ora e mette in moto una catena di eventi che in futuro non porteranno altro che
sofferenza. Come si può rompere questa catena di cause ed effetti? In qualche modo, a causa di
azioni passate compiute nell’ignoranza, la vita è cominciata, il flusso di mente e materia ha avuto
inizio. Allora ci si dovrebbe suicidare? No, questo non risolverebbe il problema. Nel momento in cui
ci si uccide, la mente è colma di infelicità, colma di avversione. Qualsiasi cosa verrà dopo,
anch’essa sarà colma di infelicità.

Tale azione non può condurre alla felicità.

La vita ha avuto inizio e da essa non si può scappare. Allora si dovrebbero distruggere le sei basi
dell’esperienza sensoriale? Ci si potrebbe strappare gli occhi, mozzare la lingua, distruggere naso
e orecchie. Ma come si potrebbe distruggere il corpo? Come si potrebbe distruggere la mente? Si
tratterebbe di nuovo di suicidio, ossia di un atto inutile.

Si dovrebbero distruggere gli oggetti propri di ognuna delle sei basi sensoriali, tutte le cose
visibili, i suoni e così via? Non è possibile. L’universo è gremito di innumerevoli oggetti; nessuno
riuscirebbe a distruggerli tutti. Dato che le sei basi sensoriali esistono, è impossibile prevenirne
il contatto con i rispettivi oggetti. Appena avviene il contatto, si è costretti a provare una
sensazione.

Ma questo è il punto in cui la catena può essere rotta. Il legame cruciale avviene nell’istante
della sensazione. Ogni sensazione da origine a piacere o dispiacere. Queste reazioni momentanee,
inconsce, di piacere e dispiacere sono immediatamente moltiplicate e intensificate in bramosia e
avversione, in attaccamento, e producono infelicità sia ora che nel futuro. È un’abitudine cieca che
ripetiamo meccanicamente.

Con la pratica di vipassana-bhavana, però, sviluppiamo la consapevolezza di ogni sensazione. E
sviluppiamo l’equanimità: non reagiamo. Esaminiamo la sensazione spassionatamente, senza che ci
piaccia o ci dispiaccia, senza bramosia, avversione o attaccamento. Invece di dar origine a reazioni
nuove, ogni sensazione da ora origine soltanto a saggezza, panna, alla comprensione profonda: «Tutto
ciò è impermanente, transitorio, destinato a cambiare, a sorgere per poi sparire».

La catena è stata rotta, la sofferenza è stata fermata. Non c’è alcuna nuova reazione di bramosia o
avversione e quindi nessuna causa da cui la sofferenza possa scaturire.

La causa della sofferenza è il kamma, l’azione mentale, ovvero la reazione cieca di bramosia e
avversione, il sankhara. Quando la mente è consapevole della sensazione, ma mantiene l’equanimità,
non c’è una reazione di questo tipo, non ci sono cause che produrranno sofferenza: abbiamo smesso di
creare sofferenza per noi stessi. Il Buddha ha detto:

Tutti i sankhara sono impermanenti.

Quando realizzerete ciò con vera comprensione profonda, allora vi staccherete dalla sofferenza:
questo è il sentiero della purificazione.

Qui la parola sankhara ha un significato molto ampio. Una reazione mentale cieca è definita
sankhara, ma il risultato di tale azione, il suo frutto, è anch’esso noto come sankhara: da un certo
seme, un certo frutto. Ogni cosa in cui ci imbattiamo nella vita è in ultima analisi il risultato
delle nostre azioni mentali. Quindi, nel senso più ampio, sankhara non significa altro che il mondo
condizionato, tutto ciò che si è formato e composto. Ne consegue che «Tutte le cose esistenti sono
impermanenti», siano esse mentali o fisiche: ogni cosa nell’universo.

Quando si osserva questa verità con la saggezza basata sull’esperienza per mezzo della pratica di
vipassana-bhavana, allora la sofferenza scompare, perché ci si allontana dalle cause della
sofferenza, si abbandona cioè l’abitudine alla bramosia e all’avversione. Questo è il sentiero della
liberazione.

Tutto lo sforzo sta nell’apprendere come non reagire, come non produrre un nuovo sankhara. Sorge una
sensazione e ha inizio il piacere o il dispiacere. Questo momento transitorio, se non ne siamo
consapevoli, viene ripetuto e si intensifica in bramosia e avversione, diventando un’emozione forte
che talora opprime la mente conscia. Veniamo imprigionati dall’emozione e tutti i nostri migliori
propositi sono spazzati via. Il risultato è che ci troviamo impegnati in azioni e discorsi malsani,
nocivi a noi e agli altri. A causa di un momento di reazione cieca, ci procuriamo dolore e
sofferenza, ora e in futuro.

Ma se siamo consapevoli del punto in cui il processo di reazione inizia — se siamo cioè consapevoli
della sensazione — possiamo scegliere di non permettere alle reazioni di aver luogo o di
intensificarsi. Osserviamo la sensazione senza reagire, senza provare né piacere né dispiacere per
essa. Così essa non ha alcuna possibilità di svilupparsi in bramosia o avversione, in un’emozione
forte che possa sopraffarci: semplicemente sorge e svanisce. La mente rimane in equilibrio, in pace.
Siamo felici ora e non possiamo aspettarci altro che felicità in futuro, poiché non abbiamo reagito.

Questa capacità di non reagire è di grande valore. Se siamo consapevoli della sensazione all’interno
del corpo e nello stesso tempo manteniamo l’equanimità, in quegli istanti la mente è libera. Forse
all’inizio questi istanti possono essere brevissimi, mentre per il resto del tempo, durante il
periodo di meditazione, la mente resta sommersa dalle vecchie abitudini di reazione alle sensazioni,
al vecchio circolo vizioso di bramosia, avversione e infelicità. Ma con una pratica ripetuta, quei
brevi attimi diventeranno secondi, e poi minuti, finché cesserà la vecchia abitudine alla reazione e
la mente sarà costantemente in pace. Ecco come la sofferenza può essere fermata. Ecco come possiamo
smettere di procurarci infelicità.

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