secondo S.N.Goenka – di William Hart (parte ottava e fine)
CAPITOLO DECIMO
L’ARTE DI VIVERE
Fra tutti i pregiudizi che abbiamo su noi stessi, il più radicato è quello secondo cui esiste un sé. Sulla base di questa presunzione ognuno di noi da la più grande importanza al sé, considerandolo il centro del proprio universo, e questo anche se possiamo facilmente constatare che fra tutti gli innumerevoli mondi esistenti, il nostro è solo uno, e che fra tutti gli innumerevoli esseri del nostro mondo, ancora una volta questo sé è solo uno. Per quanto possiamo dilatarlo, il sé rimane trascurabile se paragonato all’immensità del tempo e dello spazio. La nostra idea del sé è ovviamente un errore. Nonostante ciò, dedichiamo la vita a cercare di autorealizzarci, ritenendo che sia questa la via per la felicità. Il pensiero di vivere in un modo diverso ci sembra innaturale, se non addirittura spaventoso.
Chiunque può sperimentare quanto si soffra a rimanere sempre chiusi in se stessi. Finché saremo sempre preoccupati dei nostri desideri e timori, delle nostre identità, saremo confinati dentro la stretta prigione del sé, tagliati fuori dal mondo, dalla vita. Uscire da questa ossessione del sé è davvero una liberazione, che ci rende capaci di entrare nel mondo, di essere aperti alla vita e agli altri, di cercare una vera realizzazione. Non è necessario negare il sé, o reprimerlo, ma liberarsi dalla errata idea del sé. E per raggiungere questa liberazione dobbiamo comprendere che ciò che noi chiamiamo sé è in realtà una cosa effimera, un fenomeno in costante mutamento.
La meditazione Vipassana è una via per raggiungere questa comprensione profonda. Finché non si consegue un’esperienza personale della natura transitoria del corpo e della mente, si è costretti a rimanere intrappolati nell’egoismo, e quindi a soffrire. Ma una volta che l’illusione della permanenza viene frantumata, l’illusione dell’Io scompare automaticamente e la sofferenza svanisce. Per il meditatore Vipassana, anicca, la realizzazione della natura effimera del sé e del mondo, è la chiave che apre la porta della liberazione.
L’importanza di comprendere l’impermanenza è un tema che attraversa tutto l’insegnamento del Buddha come un filo conduttore. Egli ha detto:
Meglio un sol giorno di vita
vedendo la realtà del nascere e dello svanire
che cent’anni di esistenza
rimanendo ciechi di fronte a questo.
Il Buddha ha paragonato la consapevolezza dell’’impermanenza a un vomere che estirpa tutte le radici; al culmine di un tetto, più alto di tutte le travi che lo sorreggono; a un potente governatore che esercita il potere sui suoi vassalli; alla luna, il cui splendore oscura le stelle; al sorgere del sole, che disperde tutta l’oscurità del ciclo. Le sue ultime parole prima di morire sono state: « Tutti i sankhàra — tutte le cose create — sono soggetti al decadimento. Esercitatevi con diligenza per comprendere questa verità. »
La verità di anicca non deve essere solo accettata intellettualmente, né per emozione o devozione. Ognuno di noi deve sperimentare la realtà di anicca dentro di sé. La comprensione diretta dell’impermanenza e, con essa, della natura illusoria dell’ego e della sofferenza, costituisce la vera visione che conduce alla liberazione. È questa la giusta comprensione.
Il meditatore sperimenta questa saggezza liberatoria al culmine della pratica di sìla, samàdhi e panna. Senza impegnarsi in queste tre pratiche, senza procedere un passo dopo l’altro lungo il sentiero, non si può arrivare alla vera comprensione profonda della realtà e alla liberazione dalla sofferenza. Ma persino prima di iniziare la pratica occorre possedere una qualche saggezza,
forse solo una sorta di riconoscimento intellettuale della verità della sofferenza. Senza tale comprensione, anche se superficiale, il pensiero di lavorare per liberarsi dalla sofferenza non si affaccerebbe mai alla niente. «La giusta comprensione viene per prima », ha detto il Buddha.
I primi passi sul Nobile Ottuplice Sentiero sono infatti la giusta comprensione e il giusto pensiero. Dobbiamo vedere il problema e decidere di affrontarlo. Solo allora è possibile impegnarsi nella pratica effettiva di Dhamma. Iniziamo a intraprendere il sentiero praticando la moralità, seguendo i precetti per regolare le nostre azioni. Con la pratica della concentrazione, iniziamo a occuparci della mente, sviluppando samàdhi con la consapevolezza del respiro; e osservando le sensazioni in tutto il corpo, sviluppiamo la saggezza basata sull’esperienza che libera la mente dal condizionamento.
E quando la vera comprensione nasce dalla propria esperienza, di nuovo la giusta comprensione diviene il primo passo lungo il sentiero. Avendo compreso, attraverso la pratica di Vipassana, che la propria natura è in continuo mutamento, il meditatore libera la mente dalla bramosia, dall’avversione e dall’ignoranza. Con una mente così pura è impossibile persine pensare di far del male agli altri. Al contrario, i pensieri sono colmi unicamente di benevolenza e compassione per tutti. Nel parlare, nell’agire, nel procurarsi i mezzi di sussistenza, si vive una vita degna, serena e pacifica. E con la tranquillità che deriva dalla pratica della moralità, diviene più facile sviluppare la concentrazione. E più forte è la concentrazione, più penetrante sarà la propria saggezza. Il cammino è dunque una spirale ascendente verso la liberazione. Ognuna di queste tre pratiche sostiene l’altra, come le tre gambe di un tripode. Devono esserci tutte le gambe, ed essere tutte di eguale lunghezza, perché il tripode stia in piedi. Similmente, per sviluppare equamente tutte le sfaccettature del sentiero, il meditatore deve praticare insieme
sila, samàdhi e panna.
Il Buddha ha detto:
Dalla giusta comprensione proviene il giusto pensiero;
dal giusto pensiero proviene il giusto parlare;
dal giusto parlare proviene la giusta azione;
dalla giusta azione provengono i giusti mezzi di sussistenza;
dai giusti mezzi di sussistenza proviene il giusto sforzo;
dal giusto sforzo proviene la giusta consapevolezza;
dalla giusta consapevolezza proviene la giusta concentrazione;
dalla giusta concentrazione proviene la giusta saggezza;
dalla giusta saggezza proviene la giusta liberazione.
La meditazione Vipassana ha anche un profondo valore pratico, qui e ora. Nella vita quotidiana si presentano innumerevoli situazioni che minacciano l’equanimità della mente. Sorgono difficoltà inaspettate, e inaspettatamente altri ci contrastano. Dopo tutto limitarsi ad apprendere la tecnica Vipassana non ci garantisce che non avremo altri problemi, come imparare a governare una barca non significa che si faranno solo viaggi tranquilli. Le burrasche sono destinate a venire, i problemi sono destinati a nascere. Cercare di sfuggire ad essi è futile e autodistruttivo. Al contrario, la linea giusta è di utilizzare tutto ciò che si è appreso allo scopo di uscire illesi dalla burrasca.
Per giungere a questo, per prima cosa dobbiamo comprendere la vera natura del problema. L’ignoranza ci porta ad incolpare gli eventi esterni o le persone, a considerarli fonte delle difficoltà e quindi a impiegare tutte le nostre energie per modificare la situazione esterna. Ma con la pratica di Vipassana ci accorgeremo che nessun altro oltre a noi stessi è responsabile della nostra felicità o infelicità.
Il problema sta nell’abitudine a reagire ciecamente. Quindi dobbiamo fare attenzione alla burrasca interna delle reazioni condizionate della mente. Non basta decidere di non reagire. Finché i condizionamenti rimangono nell’inconscio, prima o poi sono destinati a emergere e a dominare la mente, nonostante tutte le decisioni contrarie.
La sola, vera soluzione è quella di imparare a osservare e a cambiare noi stessi.
Se questo è abbastanza facile da comprendere, renderlo effettivo è più difficile. Innanzitutto, come fare ad osservarsi? Nella mente è iniziata una reazione negativa: ira, paura, odio. Prima che ci si possa ricordare di osservarla, già ne siamo sopraffatti e ci esprimiamo o agiamo a nostra volta negativamente. In seguito, dopo che il danno è stato fatto, riconosciamo l’errore e ci pentiamo, ma la volta successiva ripetiamo lo stesso comportamento.
Oppure, supponiamo che — accorgendoci di avere innescato una reazione di ira — si cerchi realmente di osservarla. Non appena ci si prova, ci si rammenta della persona o della situazione che ci ha fatto adirare. Insistere su questo intensifica l’ira. Come si vede, osservare l’emozione dissociata dalla causa o dalle circostanze va ben oltre le capacità della maggior parte di noi.
Ma indagando la realtà ultima della mente e della materia, il Buddha ha scoperto che ogni volta che nella mente sorge una reazione, a livello fisico avvengono due tipi di cambiamenti. Uno di essi è facilmente riconoscibile — il respiro diventa leggermente irregolare — l’altro è di natura più sottile: nel corpo ha luogo una reazione biochimica, una sensazione. Attraverso un apposito allenamento, una persona di media intelligenza può facilmente sviluppare la capacità di osservare sia la respirazione che le sensazioni. Questo ci permette di utilizzare i cambiamenti intervenuti nella respirazione e le sensazioni come segnali che ci avvertono di una reazione negativa molto prima che essa possa gradatamente acquistare una forza pericolosa. E se poi continueremo ad osservare la respirazione e la sensazione, ci sarà facile uscire dalla negatività.
L’abitudine alla reazione è comunque profondamente radicata e non può essere rimossa subito del tutto. Nella vita quotidiana però, non appena avremo perfezionato la nostra pratica della meditazione Vipassana, noteremo almeno alcune occasioni in cui, invece di reagire involontariamente, ci limitiamo ad osservarci. Con gradualità i momenti di osservazione aumentano, mentre i momenti di reazione diventano meno frequenti. Anche se reagiamo negativamente, il periodo e l’intensità della reazione diminuiscono. Alla fine, anche nelle situazioni più provocatorie saremo in grado di osservare la respirazione e la sensazione e di rimanere calmi ed equilibrati.
Con questo equilibrio, questa equanimità ai livelli mentali più profondi, si diviene capaci per la prima volta di un’azione reale: e l’azione reale è sempre positiva e creativa. Per esempio, invece di rispondere automaticamente nello stesso modo alla negatività degli altri, possiamo scegliere una risposta che sia la più benefica possibile. Quando viene affrontata da qualcuno in preda all’ira, una persona ignorante si adira anch’essa, e il risultato è una lite che causa infelicità a entrambi. Ma restando calmi ed equilibrati si possono aiutare gli altri a superare l’ira e ad affrontare costruttivamente i problemi.
Osservare le nostre sensazioni ci insegna che ogniqualvolta veniamo sopraffatti dalla negatività, soffriamo. Quindi, ogniqualvolta vediamo gli altri reagire negativamente, comprendiamo che stanno soffrendo, e questa comprensione ci porta a provare compassione per loro e a fare in modo di aiutarli a liberarsi dall’infelicità, non certo a renderli più infelici. Rimanendo in pace e sereni, aiutiamo gli altri a essere in pace e sereni.
Sviluppare consapevolezza ed equanimità non ci rende passivi e inerti come dei vegetali, permettendo al mondo di fare di noi quel che gli aggrada. Né, assorti nel conseguimento della pace interiore, diveniamo indifferenti alle sofferenze degli altri. Il Dhamma ci insegna a prenderci la responsabilità non solo del nostro benessere, ma altresì di quello degli altri. Facciamo tutto ciò che è necessario per aiutare gli altri, conservando però sempre la mente equilibrata. Vedendo un bambino affondare nelle sabbie mobili, una persona stolta perde la testa e segue il bambino, facendo anch’essa una brutta fine. Una persona saggia, che non perde la calma e l’equilibrio, cerca un ramo con cui può raggiungere il bambino e trarlo in salvo. Seguire gli altri nelle sabbie mobili della bramosia e dell’avversione non aiuterà nessuno. Dobbiamo portare gli altri sul terreno solido dell’equilibrio mentale.
Spesso nella vita è necessaria un’azione di forza. Per esempio, è capitato a tutti di cercare di spiegare a qualcuno, con un linguaggio educato e gentile, che sta facendo un errore, ma l’interessato ignora l’avvertimento, essendo in grado di capire soltanto parole e azioni dure. A questo punto, per farsi intendere, bisogna necessariamente passare ad azioni più energiche. Tuttavia, prima di agire, dobbiamo esaminarci per stabilire se la mente è equilibrata e se nutriamo solo amore e compassione per la persona che si sta comportando male. Se è così, l’azione sarà utile, altrimenti non aiuteremo realmente nessuno. Se il nostro intervento è dettato dall’amore e dalla compassione, non possiamo sbagliare.
Quando vediamo una persona forte attaccarne una più debole, abbiamo la responsabilità di cercare di fermare quest’azione dannosa: del resto, è ciò che farebbe qualsiasi individuo ragionevole, anche se probabilmente mosso da pietà per la vittima e da collera per l’aggressore. I meditatori di Vipassana, da parte loro, proveranno compassione per entrambi in uguale misura, ben sapendo che la vittima deve essere protetta dal danno e l’aggressore dal danneggiarsi con il suo comportamento nocivo.
Esaminare la propria mente prima di passare alle maniere forti è estremamente importante; non basta limitarsi a giustificare in retrospettiva l’azione. Se non sperimentiamo di persona la pace e l’armonia interiori, non possiamo promuovere la pace e l’armonia in nessun altro. Come meditatori di Vipassana impariamo a praticare un distacco impegnato, ad essere sia compassionevoli che spassionati. Lavorando per sviluppare consapevolezza ed equanimità, lavoriamo per il bene di tutti. Se il nostro contributo non fosse che quello di evitare di accrescere le tensioni esistenti nel mondo, avremmo comunque compiuto un’azione benefica. In verità l’azione equanime ha risonanza perché è silenziosa, ricca di ripercussioni a largo raggio e destinata a incidere positivamente su molti.
Dopotutto, la negatività mentale — nostra o altrui — è la causa principale delle sofferenze del mondo. Quando la mente ha raggiunto la purezza, l’infinita varietà della vita si spalanca ai nostri occhi e ci concede di godere e dividere con gli altri la vera felicità.
Domande e risposte
DOMANDA: Possiamo parlare ad altri della meditazione?
SATYA NARAYAN GOENKA: Certamente. Non ci sono segreti in Dhamma. Potete parlare a chiunque di ciò che avete fatto qui. Ma guidare la gente nella pratica è una cosa totalmente diversa, che non dovrebbe essere fatta a questo livello. Aspettate finché vi sarete saldamente impadroniti della pratica ed educati a guidare gli altri. Se qualcuno a cui parlate di Vipassana è interessato a praticarla, consigliategli di seguire un corso. Almeno la prima esperienza di Vipassana deve essere fatta durante un vero e proprio corso di dieci giorni, sotto la guida di un maestro qualificato. Dopo questa esperienza di può andare avanti da soli.
Io pratico lo yoga. Come posso integrarlo con Vipassana?
Qui, durante il corso, lo yoga non è permesso perché disturberebbe gli altri, attirandone l’attenzione. Ma quando sarete di nuovo a casa, potrete praticare sia Vipassana che yoga — cioè gli esercizi fisici delle posizioni yoga e il
controllo del respiro. Lo yoga è molto benefico per la salute fisica, e può essere senz’altro combinato con Vipassana. Per esempio, assumere una posizione e poi osservare le sensazioni fisiche sarà senz’altro più benefico che la sola pratica dello yoga. Ma le tecniche di meditazione yoga che utilizzano i mantra e le visualizzazioni sono completa mente l’opposto di Vipassana. Non mescolatele con questa tecnica.
E circa i diversi esercizi respiratori dello yoga?
Sono utili come esercizi fisici, ma non mescolate queste tecniche con l’ànàpàna. Nell’ànàpàna dovete osservare il respiro naturale così com’è, senza controllarlo. Praticate il controllo del respiro come esercizio fisico e ànàpàna per la meditazione.
E se mi stessi attaccando troppo all’ illuminazione?
Se è così, state dirigendovi di gran carriera proprio nella direzione opposta. Non potrete mai sperimentare l’illuminazione finché avrete degli attaccamenti. Dovete solo comprendere che cos’è l’illuminazione. Poi continuate a osservare la realtà del momento, e lasciate che l’illuminazione venga. Se non viene, non ve ne preoccupate. Continuate a esercitarvi e lasciate fare a Dhamma. In questo modo non c’è attaccamento, e l’illuminazione verrà certamente.
Dunque io medito solo per praticare?
Sì. Avete il dovere di purificare la vostra mente. Consideratela una responsabilità, ma senza attaccamento.
Non per ottenere qualcosa?
No. Qualsiasi cosa venga, verrà da sola. Lasciate che accada naturalmente.
Qual’è la vostra opinione circa l’insegnamento di Dhamma ai bambini?
Il momento migliore per farlo è prima della nascita. Durante la gravidanza la madre dovrebbe praticare Vipassana, così che anche il bambino lo riceva e nasca un bambino di Dhamma. Ma se avete già dei figli, siete ancora in tempo a condividere con loro Dhamma. Per esempio, a conclusione del corso, avete appreso la tecnica di mettà-bhàvàna, che consiste nel condividere la propria pace ed armonia con gli altri. Se i bambini sono ancora piccoli, indirizzate loro métta quando vanno a dormire e dopo ogni meditazione, così che anch’essi si avvantaggino della pratica di Dhamma; quando saranno più grandi, sarà bene spiegar loro qualcosa su Dhamma, perché lo comprendano e lo accettino. Se sono già in grado di capire qualcosa di più, insegnate ai bambini a praticare anàpàna per pochi minuti. Non fate nessun tipo di pressione su di loro, limitatevi a farli sedere con voi perché osservino il proprio respiro per pochi minuti, poi lasciateli andare a giocare. La meditazione sarà come un gioco per loro, saranno contenti di farla. Ma la cosa più importante è vivere una vita sana in Dhamma, essere un buon esempio per i bambini. In casa l’atmosfera deve essere tranquilla e armoniosa; è questo che li aiuterà a crescere in modo sano e felice. E la cosa migliore che potete fare per i vostri figli.
Grazie per questo meraviglioso Dhamma!
Ringraziate Dhamma, piuttosto. Dhamma è grande. Io sono solo un veicolo. E ringraziate voi stessi, per aver saputo lavorare duramente per imparare la tecnica. Un maestro continua a parlare, parlare, ma se voi non lavorate, non potete ottenere niente. Siate felici, e continuate a lavorare sodo.
APPENDICE A
L’IMPORTANZA DI VEDANÀ
NELL’INSEGNAMENTO DEL BUDDHA
L’insegnamento del Buddha è un sistema per sviluppare la conoscenza di sé come un mezzo per l’autotrasformazione. Se comprendiamo la realtà della nostra natura basandoci sull’esperienza, possiamo eliminare gli equivoci che ci inducono ad agire in modo sbagliato e ci rendono infelici. Impariamo ad agire conformemente alla realtà e quindi a vivere in modo produttivo, utile e felice.
Nel Satipatthàna Sutta, il «Discorso sui fondamenti della consapevolezza », il Buddha ha descritto un metodo pratico per sviluppare la conoscenza di sé attraverso l’auto-osservazione. Questa tecnica è la meditazione Vipassana.
Ogni tentativo di osservare la verità su noi stessi rivela immediatamente che quel che chiamiamo «sé» ha due aspetti: fisico e psichico, corpo e mente. Dobbiamo imparare ad osservarli entrambi. Ma come possiamo realmente sperimentare la realtà del corpo e della mente? Accettare le spiegazioni degli altri non è sufficiente, né dipende da una mera comprensione intellettuale. Entrambe possono guidarci nel lavoro di autoesplorazione, ma ognuno di noi deve esplorare e sperimentare la realtà direttamente dentro di sé. Sperimentiamo la realtà del corpo sentendolo per mezzo delle sensazioni fisiche che nascono all’interno di esso. Anche ad occhi chiusi sappiamo di avere le mani e tutte le altre parti del corpo, perché le possiamo sentire. Come un libro ha una forma esterna e un contenuto interno, la struttura fisica ha una realtà oggettiva esterna, il corpo (kàya), e una realtà interna, soggettiva, di sensazioni (vedanā). Assimiliamo un libro leggendo tutte le parole che contiene, sperimentiamo il corpo provando le sensazioni. Senza la consapevolezza delle sensazioni non ci può essere una diretta conoscenza della struttura fisica. Le due cose sono inseparabili.
Similmente, la struttura psichica può essere analizzata in forma e contenuto: la mente (citta) e qualsiasi cosa sorga nella mente (dhamma) — ogni pensiero, emozione, ricordo, speranza, paura, ogni avvenimento mentale. Così come corpo e sensazione non possono essere sperimentati separatamente, non si può osservare la mente prescindendo dai contenuti mentali. Ma anche mente e materia sono strettamente collegate fra loro. Qualsiasi cosa accada in una, è riflessa nell’altra. È questa la scoperta chiave del Buddha, il significato cruciale del suo insegnamento. Egli ha detto: «Qualsiasi cosa nasca nella mente è accompagnata dalla sensazione». L’osservazione delle sensazioni offre il mezzo di esaminare la totalità del proprio essere fisico e mentale.
Queste quattro dimensioni della realtà sono comuni ad ogni essere umano: gli aspetti fisici del corpo e della sensazione, gli aspetti psichici della mente e dei suoi contenuti. Essi costituiscono le quattro divisioni del Satipatthàna Sutta, le quattro strade per la fondazione della consapevolezza, i quattro avamposti per osservare il fenomeno umano. Se l’indagine è completa, ogni sfaccettatura deve essere sperimentata. E tutte e quattro possono essere sperimentate osservando vedanā. Per questa ragione il Buddha ha sottolineato in particolar modo l’importanza della consapevolezza di vedanā. Nel Brahmajala Sutta, uno dei suoi discorsi più importanti, ha detto: « L’illuminato si è affrancato e liberato da tutti gli attaccamenti perché ha veduto come sono realmente il nascere e lo svanire delle sensazioni, il godere di esse, il pericolo di esse, la liberazione da esse ». La consapevolezza di vedanā, egli ha affermato, è un prerequisito per la comprensione delle Quattro Nobili Verità: « Alla persona che prova la sensazione, io mostro la via per comprendere cosa sia la sofferenza, la sua origine, la sua cessazione e il sentiero che conduce alla cessazione». Cos’è esattamente vedanā? II Buddha lo ha descritto in vari modi, comprendendolo fra i quattro processi che compongono la mente (v. Capitolo secondo). Tuttavia, definendolo più precisamente, diceva che vedanā ha due aspetti, uno fisico e uno mentale. Da sola, la materia non può sentire nulla se la mente non è presente; in un corpo morto, per esempio, non ci sono sensazioni. È la mente che sente, ma ciò che sente è inscindibile dall’elemento fisico.
Questo elemento fisico è di importanza centrale nella pratica dell’insegnamento del Buddha, che ha lo scopo di sviluppare in noi la capacità di affrontare tutte le vicissitudini della vita in modo equilibrato. È ciò che si apprende durante la meditazione, osservando con equanimità tutto quanto avviene in noi stessi. Con questa equanimità possiamo liberarci dall’abitudine alla reazione cieca e scegliere di agire nel modo più benefico in ogni situazione.
Tutto ciò che sperimentiamo nella vita passa attraverso i sei cancelli della percezione, i cinque sensi fisici e la mente: secondo la Catena del Sorgere Condizionato, non appena ad una di queste sei porte avviene il contatto, non appena incontriamo un fenomeno, fisico o mentale, si produce una sensazione (v. p. 67). Se non osserviamo attentamente ciò che accade nel corpo, a livello conscio restiamo inconsapevoli della sensazione. Inizia allora, nel buio dell’ignoranza, una reazione inconscia nei confronti della sensazione, un piacere o un’antipatia momentanea che si sviluppa in bramosia o avversione. Questa situazione si ripete e si intensifica innumerevoli volte prima di ripercuotersi sulla mente conscia. Se i meditatori danno importanza solo a ciò che accade nella mente conscia, divengono consapevoli del processo dopo che la reazione è avvenuta ed ha acquistato una forza pericolosa, sufficiente a sopraffarli. Permettono alla scintilla della sensazione di accendere un grande fuoco prima di cercare di estinguerlo, creandosi inutili difficoltà. Ma se imparano ad osservare le sensazioni dentro il corpo, oggettivamente, permettono ad ogni scintilla di esaurirsi da sola senza innescare un incendio. Dando importanza alla manifestazione fisica, diventano consapevoli di vedanà non appena nasce e possono prevenire qualsiasi reazione.
L’aspetto fisico di vedanà è particolarmente importante perché offre un’esperienza vivida e tangibile della realtà dell’impermanenza dentro ciascuno di noi. Ad ogni momento dentro di noi avvengono dei cambiamenti che si manifestano nel gioco delle sensazioni. È a questo livello che l’impermanenza deve essere sperimentata. L’osservazione del mutamento costante delle sensazioni ci permette di comprendere la nostra natura effimera e, di conseguenza, la futilità dell’attaccamento a qualcosa che è così transitorio. Per cui l’esperienza diretta di anicca da automaticamente origine al distacco, per mezzo del quale non solo si possono avvertire le nuove reazioni di bramosia e avversione, ma anche eliminare l’abitudine stessa a reagire. In questo modo si libera gradualmente la mente dalla sofferenza. Se separata dal suo aspetto fisico, la consapevolezza di vedanà resta parziale e incompleta. Per questo il Buddha ha ripetutamente sottolineato l’importanza dell’esperienza dell’impermanenza attraverso le sensazioni fisiche:
Quelli che continuamente fanno sforzi
per dirigere la loro consapevolezza verso il corpo,
che si astengono dal compiere azioni nocive
e cercano di fare ciò che deve essere fatto,
tali persone, consapevoli, piene di comprensione,
sono liberate da tutte le loro negatività.
La causa della sofferenza è tanhà, bramosia e avversione. Di solito ci sembra di generare reazioni di bramosia e avversione nei confronti dei vari oggetti in cui ci imbattiamo attraverso i sensi fisici e la mente. Il Buddha, però, ha scoperto che tra oggetto e reazione c’è un anello mancante: vedanà. Reagiamo non alla realtà esteriore, ma alla sensazione interna. Quando impariamo a osservare la sensazione senza reagire con bramosia o avversione, la causa della sofferenza non nasce e la sofferenza cessa. Quindi l’osservazione di vedanà è essenziale per mettere in pratica l’insegnamento del Buddha. E l’osservazione deve essere a livello della sensazione fisica perché la consapevolezza di vedanà sia completa. Con la consapevolezza della sensazione fisica possiamo penetrare alla radice del problema e risolverlo. Possiamo osservare la nostra natura in profondità e liberarci dalla sofferenza.
Attraverso la comprensione dell’importanza centrale che l’insegnamento del Buddha assegna all’osservazione della sensazione, è possibile pervenire a una comprensione nuova del Satipatthàna Sutta. Il discorso inizia con lo stabilire gli scopi del satipatthàna, il metodo della fondazione della consapevolezza: «Purificazione degli esseri, trascendenza del dolore e dei dispiaceri, estinzione della sofferenza fisica e mentale, pratica di una via di verità, esperienza diretta della realtà ultima, nibbàna». Passa poi a spiegare brevemente come conseguire questi scopi: «Qui il meditatore si sofferma, ardente, colmo di comprensione e di consapevolezza, osservando il corpo nel corpo, osservando la sensazione nella sensazione, osservando la mente nella mente, osservando i contenuti mentali nei contenuti mentali, avendo abbandonato bramosia e avversione nei confronti del mondo ».
Che cosa significano le parole «osservando il corpo nel corpo, le sensazioni nelle sensazioni» e così via? Per un meditatore di Vipassana, l’espressione è chiarissima. Corpo, sensazioni, mente e contenuti mentali sono le quattro dimensioni dell’essere umano. Per comprendere correttamente questo fenomeno umano, ognuno di noi deve sperimeritare la propria realtà in modo diretto. Per conseguire questa esperienza diretta, il meditatore deve sviluppare due qualità: consapevolezza (sati) e piena comprensione (sampajannd). Il discorso si intitola « I fondamenti della consapevolezza », ma la consapevolezza è incompleta senza comprensione, senza una visione penetrante delle profondità della propria natura, della impermanenza di questo fenomeno che si chiama Io. La pratica del satipatthàna fa sì che i meditatori comprendano la propria natura essenzialmente effimera. Quando hanno conseguito questa comprensione personale acquistano una consapevolezza stabile e ferma: la giusta consapevolezza che conduce alla liberazione. Quindi, automaticamente bramosia e avversione scompaiono, non solo nei confronti del mondo esteriore, ma anche del mondo intcriore, in cui bramosia e avversione sono maggiormente radicate, anche se molto spesso non ce ne accorgiamo, per l’attaccamento irriflessivo e viscerale al corpo e alla mente. Finché questo attaccamento profondo permane, non è possibile liberarsi dalla sofferenza.
Il discorso su «I fondamenti della consapevolezza» tratta all’inizio dell’osservazione del corpo. Trattandosi dell’aspetto più appariscente della struttura fisico-mentale, è il punto adatto da cui iniziare il lavoro di auto-osser-vazione, ed è da qui che si sviluppa l’osservazione delle sensazioni, della mente e dei contenuti mentali. Il discorso illustra diversi modi per iniziare ad osservare il corpo. Il primo, e il più comune, è la consapevolezza del respiro. Un altro modo per cominciare è quello di prestare attenzione ai movimenti del corpo. Ma comunque si inizi il viaggio, per arrivare alla meta finale è obbligatorio passare per determinati stadi, che sono descritti in un paragrafo di importanza cruciale:
In questo modo [il meditatore] si sofferma ad osservare il corpo nel corpo, internamente o esternamente oppure sia internamente che esternamente. Si sofferma ad osservare il fenomeno del nascere nel corpo. Si sofferma ad osservare il fenomeno dello svanire nel corpo. Si sofferma ad osservare il fenomeno del nascere e dello svanire nel corpo. Ora la consapevolezza gli si presenta, «Questo è il corpo». Questa consapevolezza si sviluppa a un tal grado che rimangono solo comprensione e osservazione ed egli rimane distaccato, senza aggrapparsi a nulla nel mondo.
La grande importanza di questo passo è dimostrata dal fatto che è ripetuto non solo alla fine di ogni sezione del discorso sull’osservazione del corpo, ma anche nelle successive suddivisioni del discorso, che trattano dell’osservazione delle sensazioni, della mente e dei contenuti mentali. (In queste tre successive suddivisioni, la parola « corpo» è sostituita rispettivamente da « sensazioni », « mente » e «contenuti mentali».) Il brano descrive così il terreno comune della
pratica del satipatthàna. Per le difficoltà che presenta, è stato oggetto di varie interpretazioni; tuttavia le difficoltà scompaiono quando si comprende che il passo si riferisce alla consapevolezza delle sensazioni. Con la pratica di satipatthàna i meditatori devono raggiungere una visione completa della loro natura. Il mezzo per conseguire questa visione penetrante consiste nell’osservazione delle sensazioni, che include anche l’osservazione delle altre tre dimensioni del fenomeno umano. Quindi, sebbene i primi passi possano differire, da un certo punto in poi la pratica deve comportare la consapevolezza della sensazione.
Quindi, prosegue il brano, i meditatori iniziano a osservare le sensazioni che nascono all’interno del corpo, o esternamente, sulla superficie di esso, o entrambe insieme: dalla consapevolezza delle sensazioni in alcune parti e non in altre, essi sviluppano gradualmente la capacità di sentire le sensazioni in tutto il corpo. Quando iniziano la pratica, possono dapprima sperimentare le sensazioni di natura intensa che nascono e sembrano persistere per qualche tempo. I meditatori sono consapevoli del loro sorgere e, dopo un certo tempo, del loro svanire. A questo livello essi stanno ancora sperimentando la realtà apparente del corpo e della mente, la loro natura integrata; apparentemente solida e duratura. Ma proseguendo nella pratica, si raggiunge uno stadio in cui la solidità si dissolve spontaneamente e la mente e il corpo vengono sperimentati nella loro vera natura, come una massa di vibrazioni che sorgono e svaniscono ad ogni istante. Sulla base di questa esperienza si comprende infine che cosa sono il corpo, le sensazioni, la mente e i contenuti mentali: un flusso di fenomeni impersonali, in costante cambiamento.
Questa comprensione diretta della realtà ultima della mente e della materia frantuma progressivamente le proprie illusioni, i propri fraintendimenti e pregiudizi. Anche le idee giuste, che erano state accettate solo per fede o per deduzione intellettuale, ora, venendo sperimentate, acquistano un nuovo significato. Gradualmente, con l’osservazione della realtà interiore, tutti i condizionamenti che distorcono la percezione vengono eliminati. Rimangono solo la pura consapevolezza e la saggezza,
Appena l’ignoranza scompare, le tendenze sotterranee di bramosia e avversione vengono sradicate e i meditatori si liberano da ogni attaccamento, compreso l’attaccamento più profondo di tutti: quello al mondo interiore del proprio corpo e della propria mente. Quando questo attaccamento viene eliminato, la sofferenza scompare e si perviene alla liberazione. Il Buddha ha spesso ripetuto: «Tutto ciò che viene percepito come sensazione è in relazione con la sofferenza». Quindi vedanà è un mezzo ideale per esplorare la verità della sofferenza. Le sensazioni spiacevoli sono ovviamente sofferenza, ma anche la sensazione più piacevole è una forma di agitazione molto sottile. Ogni sensazione è impermanente. Perciò, se si è attaccati alle sensazioni piacevoli, quando esse svaniscono, rimane la sofferenza. Di fatto, ogni sensazione contiene un seme di infelicità. Per questa ragione, parlando del sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza, il Buddha ha parlato di sentiero che conduce al sorgere di vedanà e alla sua estinzione. Finché si rimane dentro il campo condizionato della mente e della materia, sensazioni e sofferenza persistono. Cessano solo quando si trascende quel campo per sperimentare la realtà ultima del nibbàna. Il Buddha ha detto:
Un uomo non applica realmente Dhamma nella vita
solo perché ne parla molto.
Ma chi ne avesse sentito parlare anche solo un poco,
sperimenta la Legge di Natura per mezzo del proprio corpo,
allora vivrà conformemente ad essa
e avrà sempre presente Dhamma.
I nostri corpi testimoniano la verità. Quando i meditatori scoprono la verità dentro se stessi, per loro essa diviene reale e vivono conformemente ad essa. Ognuno di noi può comprendere quella stessa verità imparando a osservare le sensazioni che sorgono in noi stessi, e così facendo possiamo conseguire la liberazione dalla sofferenza.
APPENDICE B
PASSI SU VEDANÀ TRATTI DA VARI SUTTA
Nei suoi discorsi, il Buddha si è spesso riferito all’importanza della consapevolezza della sensazione. Eccone alcuni esempi.
Nel cielo soffiano diversi venti, da est e da ovest, da nord e da sud, carichi di polvere o privi di polvere, freddi o caldi, tempeste selvagge o brezze delicate: molti sono i venti che soffiano. Allo stesso modo, nel corpo nascono delle sensazioni: piacevoli, spiacevoli o neutre. Quando un meditatore, esercitandosi con entusiasmo, non trascura la facoltà della piena comprensione [sam-pajanna], allora quest’uomo saggio comprende appieno le sensazioni. Avendole comprese totalmente, diventa libero da tutte le impurità già in questa vita. Alla fine della vita, tale persona, essendo ben salda in Dhamma e comprendendo perfettamente le sensazioni, consegue lo stadio indescrivibile al di là del mondo condizionato.
S. XXXVI (II). li. 12 (2), Pathama Àkàsa Sutta
E come si sofferma il meditatore ad osservare il corpo nel corpo? Per far questo, il meditatore va nella foresta, ai piedi di un albe-ro, in un luogo solitario. Là si siede a gambe incrociate, con il busto eretto e fissa la sua attenzione sull’area intorno alla sua bocca. Con consapevolezza inspira ed espira. Inspirando un respiro lungo, egli riconosce giustamente: « Sto inspirando un re-spiro lungo». Espirando un respiro lungo, egli riconosce giustamente: « Sto espirando un respiro lungo ». Inspirando un respiro corto, egli riconosce giustamente: «Sto inspirando un respiro corto». Espirando un respiro corto, riconosce giustamente: «Sto espirando un respiro corto ». « Sentendo l’intero corpo inspirerò », così egli si educa. « Sentendo l’intero corpo, espirerò », così egli si educa. «Con le attività corporee calmate, io inspirerò», così egli si educa. «Con le attività corporee calmate, io espirerò», così egli si educa. D. 22/M. 10, Satipatthàna Sutta, Ànàpàna-pabbam.
Quando una sensazione piacevole, spiacevole o neutra, sorge nel meditatore, egli comprende: « Una sensazione piacevole, spiace-vole o neutra è sorta in me. È basata su qualcosa, non è senza una base. Su cosa è basata? Proprio su questo corpo». Così egli dimora, osservando la natura impermanente della sensazione dentro il corpo.
S. XXXVI (II), i.7, Pathama Gelatina Sutta.
Il meditatore comprende: «Là è sorta in me questa esperienza piacevole, spiacevole o neutra. È composita, di natura grossola-na, dipendente da condizioni. Ma ciò che esiste realmente, ciò che è di gran lunga migliore, è l’equanimità ». Anche se in lui è sorta un’esperienza piacevole, o spiacevole, o neutra, essa finisce, ma l’equanimità rimane. M. 152, Indriya Bhàvanà Sutta.
Ci sono tre tipi di sensazione: piacevole, spiacevole e neutra. Tutte e tre sono impermanenti, composite, dipendenti da condi-zioni, soggette al decadimento, allo svanire, al cessare. Vedendo questa realtà, il seguace bene istruito del Nobile Sentiero diven-ta equanime verso le sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. Sviluppando l’equanimità, diviene distaccato, sviluppando il di-stacco, diviene libero. M. 74, Bfghanaka Sutta.
Se un meditatore dimora osservando l’impermanenza della sensazione piacevole dentro il corpo, i! suo declino, il suo svanire e cessare e altresì osserva il suo abbandono dell’attaccamento a tale sensazione, allora i condizionamenti nascosti di bramosia per una sensazione piacevole all’interno del corpo sono eliminati. Se dimora osservando l’impermanenza della sensazione spiacevole dentro il corpo, allora i condizionamenti nascosti di avversione verso una sensazione spiacevole all’interno del corpo sono eliminati. Se dimora osservando l’impermanenza della sensazione neutra all’interno del corpo, allora i condizionamenti nascosti di ignoranza nei confronti della sensazione neutra all’interno del corpo sono eliminati.
S. XXXVI (II), i. 7, Pathama Gelatìna Sutta.
Quando i condizionamenti nascosti di bramosia per una sensazione piacevole, di avversione per una sensazione spiacevole e di ignoranza per una sensazione neutra sono sradicati, si dice che il meditatore è totalmente libero dai condizionamenti sotterranei, è colui che ha visto la verità, ha eliminato tutte le bramosie e le avversioni, ha spezzato tutte le catene, ha pienamente compreso la natura illusoria dell’ego, ha messo fine alla sofferenza. S. XXXVI (II). i. 3, Pahàna Sutta.
La visione della realtà così com’è diventa la sua giusta visione. Il pensiero della realtà così com’è, diventa il suo giusto pensiero. Lo sforzo per la realtà così com’è, diventa il suo giusto sforzo. La consapevolezza della realtà così com’è, diventa la sua giusta consapevolezza. La concentrazione sulla realtà così com’è, diventa la sua giusta concentrazione. Le sue azioni del corpo e della parola, i suoi mezzi di sussistenza si purificano veramente. Così il Nobile Ottuplice Sentiero avanza in lui verso lo sviluppo e il compimento. M. 149, Mahà-Salàyatanika Sutta.
Il fedele seguace del Nobile Sentiero compie degli sforzi, e persistendo nei suoi sforzi diventa consapevole, e rimanendo consa-pevole diventa concentrato, e mantenendo la concentrazione sviluppa la giusta comprensione, e comprendendo correttamente sviluppa una fede vera, fiducioso del fatto che « Quelle verità di cui prima ho solo udito parlare, ora le ho sperimentate diretta-mente all’interno del corpo e le osservo con penetrante comprensione ».
S. XLVIII (IV). v. 10, Apana Sutta (detto da Sàriputta, il principale discepolo del Buddha).
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GLOSSARIO DEI TERMINI PÀLI
Qui di seguito sono riportati tutti i termini pàli citati nel testo, nonché altre parole di rilievo nell’insegnamento del Buddha.
ANÀPÀNA Respirazione. Ànàpàna-satì. Consapevolezza della respirazione.
ANATTÀ Non sé, privo di ego, senza essenza, senza sostanza. Una delle tre caratteristiche fondamentali dei fenomeni, con anicca e dukkha.
ANICCA Impermanente, effimero, in continuo cambiamento. Una delle tre caratteristiche fondamentali dei fenomeni, con anattà e dukkha.
ANUSÀYA La mente inconscia; i condizionamenti nascosti, sotterranei; le impurità mentali latenti (anche anusaya-kilesa).
ARAHANT/ARAHAT Essere liberato. Colui che ha eliminato tutte le impurità della mente.
ARIYA Nobile; persona santa. Colui che ha purificato la mente al punto da aver sperimentato la realtà ultima (nibbàna).
ARIYA ATTHANGIKA MAGGA II Nobile Ottuplice Sentiero
che conduce alla liberazione dalla sofferenza. È diviso in tre parti:
SILA Moralità, purezza delle azioni vocali e fisiche:
SAMMÀ-VÀCÀ Giusta parola;
SAMMÀ-KAMMANTA Giusta azione;
SAMMÀ-ÀJlVA Giusti mezzi di sussistenza.
SAMADHI Concentrazione, controllo della propria mente:
SAMMÀ-VÀYÀMA Giusto sforzo;
SAMMÀ-SATI Giusta consapevolezza;
SAMMÀ-SAHIMÀD Giusta concentrazione.
PANNA Saggezza, comprensione profonda che purifica totalmente la mente:
SAMMÀ-SANKAPPA Giusto pensiero;
SAMMÀ-DITTHI Giusta comprensione.
ARIYA SACCA Nobile verità. Le Quattro Nobili Verità sono:
1. La verità della sofferenza; 2.
2. La verità dell’origine della sofferenza;
3. La verità della cessazione della sofferenza;
4. La verità del cammino che conduce alla cessazione della sofferenza.
BHANGA Dissoluzione. Uno stadio importante nella pratica di Vipassana. L’esperienza della dissoluzione dell’apparente solidità del corpo in sottili vibrazioni che compaiono e scompaiono continuamente.
BHÀVANÀ Sviluppo, evoluzione mentale. Meditazione. Le due divisioni di bhàvanà sono lo sviluppo della tranquillità (samatha-bhàvanà), corrispondente alla concentrazione mentale (samadhi) e lo sviluppo della comprensione profonda (vipassanà-bhàvana), corrispondente alla saggezza (panna). Lo sviluppo di samatha porta a stadi avanzati di concentrazione mentale; lo sviluppo di vipassanà porta alla liberazione.
BHÀVANÀ-MAYÀ PANNA Saggezza a livello di esperienza. Vedi PANNA.
BHIKKHU Monaco (buddista); meditatore. Al femminile
bhikkhuni, monaca.
BUDDHA Persona illuminata. Colui che ha scoperto la via verso la liberazione, l’ha percorsa e ha raggiunto la meta finale con i suoi propri sforzi.
CINTÀ-MAYÀ PANNA Saggezza intellettuale. Vedi PANNA. CITTA Mente. Cittànupassanà: osservazione della mente.
Vedi SATIPATTHÀNA.
DHAMMA Fenomeno; oggetto della mente; natura; legge naturale; legge di liberazione, cioè insegnamento di una persona illuminata. Dhammànupassanà: osservazione dei contenuti mentali. Vedi SATIPATTHÀNA. (In sanscrito dharma).
DUKKHA Sofferenza, insoddisfazione. Una delle tre caratteristiche di base dei fenomeni, con anattà e anicca.
GOTAMA Nome di famiglia del Buddha storico (In sanscrito Gautama).
HINAYÀNA Letteralmente, «veicolo minore». Termine usato per indicare il Buddismo Theravàda da parte di coloro che appartengono ad altre scuole. Connotazione peggiorativa.
JHÀNA Stato di assorbimento mentale o trance. Ci sono otto stadi di tal genere che possono essere ottenuti con la pratica di samadhi, o samatha-bhàvanà. Dedicarsi a questa pratica porta tranquillità ed estasi, ma non elimina le negatività mentali radicate nel profondo.
KALÀPA La più piccola, indivisibile, unità della materia.
KAMMA Azione, e specificatamente un’azione che si compie e che avrà effetto sul proprio futuro. (In sanscrito karma).
KÀYA Corpo. Kàyànupassanà: osservazione del corpo.
Vedi SATIPATTHÀNA.
MAHÀYÀNA Letteralmente, « veicolo più grande ». Il tipo di buddismo che si è sviluppato in ìndia pochi secoli dopo il Buddha e che si è diffuso a Nord in Tibet, Mongolia, Cina, Vietnam, Corea e Giappone.
METTA Amore incondizionato e buona volontà. È una delle qualità di una mente pura. Mettà-bhàvanà: la pratica sistematica di metta per mezzo di una tecnica di meditazione.
NIBBÀNA Estinzione; libertà dalla sofferenza; la realtà ultima; stato incondizionato. (In sanscrito nirvana).
PÀLI Linea, testo. I testi in cui è registrato l’insegnamento del Buddha; quindi il linguaggio di questi testi. Prove linguistiche, storiche, archeologiche indicano che il pàli era una lingua effettivamente parlata nell’India settentrionale più o meno ai tempi del Buddha. Più tardi i testi furono tradotti in sanscrito, che era una lingua esclusivamente letteraria.
PANNA Saggezza. La terza delle tre parti attraverso le quali viene praticato il Nobile Ottuplice Sentiero (vedi ARIYA ATTHANGIKA MAGGA). Ci sono tre tipi di saggezza:
suta-mayà panna, che letteralmente significa « saggezza che si ottiene ascoltando gli altri », cioè saggezza ricevuta;
cintà-mayà panna, ovvero saggezza che si ottiene con l’analisi intellettuale; e
bhavanà-mayà panna, ovvero saggezza che si sviluppa dall’esperienza diretta e personale.
Di queste, soltanto l’ultima, che viene coltivata con la pratica di vipassanà-bhàvanà, può purificare del tutto la mente.
PATICCA-SAMUPPÀDA La Catena del Sorgere Condizionato; l’origine causale. Il processo, che inizia con l’ignoranza e attraverso il quale una persona, vita dopo vita, continua a produrre sofferenza per se stessa.
SAMÀDHI Concentrazione, controllo della propria mente. È la seconda delle tre parti con cui viene praticato il Nobile Ottuplice Sentiero (vedi ARIYA ATTHANGIKA MAGGA). Se la si coltiva come fine a se stessa, porta al conseguimento dell’assorbimento mentale (Jhàna), ma non alla totale liberazione della mente.
SAMMÀ-SATI La giusta consapevolezza. Vedi SATI.
SAMPAJANNA Comprensione della totalità del fenomeno umano ovvero comprensione profonda della sua natura impermanente a livello di sensazioni.
SAMSÀRA Ciclo della rinascita; mondo condizionato; mondo di sofferenza.
SANGHA Congregazione; comunità di ariya, cioè coloro che hanno sperimentato il nìbbàna; comunità di monaci e monache buddisti; membro di ariya-sangha, bhikkhu-sangha, o bhikkhum-sangha.
SANKHÀRA Formazione (mentale); attività della volizione; reazione mentale; condizionamento mentale. Uno dei quattro aggregati o processi mentali, con vinnàna, sauna, e vedana. (In sanscrito samskàra).
SANKHÀRA-UPEKKHÀ/SANKHÀRUPEKKHÀ Letteralmente, equanimità verso i sankhàra. Uno stadio nella pratica di Vipassana, che viene dopo l’esperienza di bhanga, nel quale vecchie impurità che giacciono addormentate nell’inconscio
emergono alla superficie della mente, manifestandosi come sensazioni fisiche. Conservando l’equanimità (upekkha) verso queste sensazioni, il meditatore non crea più nuovi sankhàra e consente che quelli vecchi siano eliminati. Perciò il processo conduce gradualmente all’eliminazione di tutti i sankhàra.
SANNA Percezione, riconoscimento, individuazione. Uno dei quattro aggregati o processi mentali, con vedana, vinnàna e sankhàra. Di solito è condizionata dai vecchi sankhàra che ciascuno porta in sé, e perciò una immagine distorta della realtà. Nella pratica Vipassana, sanna si trasforma in pannà, la comprensione della realtà così com’è. Diviene quindi anìcca-sannà, dukkha-sannà, anattà-sannà ed asubha-sannà, cioè la percezione dell’impermanenza, della sofferenza, dell’inesistenza di un io e della natura illusoria della bellezza.
SATI Consapevolezza. Ànàpàna-sati: consapevolezza della respirazione. Sammà sali: giusta consapevolezza, una delle componenti del Nobile Ottuplice Sentiero
(vedi ARIYA ATTHANGIKA MAGGA).
SATIPATTHÀNA L’instaurarsi della consapevolezza. Gli aspetti del satipatthàna, che si intrecciano fra loro, sono quattro:
1. osservazione del corpo (kàyànupassana);
2. osservazione delle sensazioni che sorgono all’interno del corpo (vedanànupassanà);
3. osservazione della mente (cittànupassanà}
4. osservazione dei contenuti della mente (dhammànupassanà).
Dal momento che le sensazioni sono direttamente collegate sia al corpo che alla mente, tutti e quattro gli aspetti sono compresi nell’osservazione delle sensazioni.
SIDDHATTHA Letteralmente «colui che ha realizzato il suo compito ». Il nome del Buddha storico. (In sanscrito Siddhàrtha).
SILA Moralità, astensione dalle azioni fisiche e vocali che danneggiano gli altri e se stessi. La prima delle tre parti attraverso le quali viene praticato il Nobile Ottuplice Sentiero (vedi ARIYA ATTHANGIKA MAGGA).
SUTA-MAYÀ PANNA Saggezza ricevuta. Vedi-PANNÀ.
SUTTA Discorso del Buddha o di uno dei suoi discepoli più autorevoli (in sanscrito sutra).
TANHÀ Letteralmente « sete ». Comprende sia la bramosia che il suo contrario, l’avversione. Il Buddha identificò in tanhà la causa della sofferenza nel suo primo sermone, il «Discorso sul mettere in movimento la ruota del Dhamma» (Dhamma-cakkappavattana Sutta). Nella Catena del Sorgere Condizionato, spiegò che tanhà si originava come reazione alla sensazione (v. p. 67).
TATHÀGATA Letteralmente, «così è andato» o «così è compiuto». Colui che camminando lungo il sentiero della realtà ha raggiunto la realtà ultima, una persona illuminata. È il termine con il quale il Buddha era solito riferirsi a se stesso.
THERAVÀDA Letteralmente, «insegnamento degli anziani». Gli insegnamenti del Buddha, nella forma in cui sono stati preservati nelle nazioni del sudest asiatico (Birmania, Sri Lanka, Tailandia, Laos, Cambogia). Sono generalmente riconosciuti come la forma più antica degli insegnamenti.
TIPITAKA Letteralmente, « i tre cesti » Le tre raccolte degli insegnamenti del Buddha:
1. Vinaya-pitaka: la raccolta della disciplina monastica;
2. Sutta-pitaka: la raccolta dei discorsi;
3. Abhidhamma-pitaka: la raccolta dell’insegnamento più alto, ossia l’esegesi filosofica sistematica di Dhamma.
(In sanscrito Tripitaka).
VEDANÀ Sensazione. Uno dei quattro aggregati mentali o processi, con vinnana, sanna, e sankhàra. Il Buddha lo descrive come avente sia aspetti fisici che mentali; perciò vedanà offre un mezzo per esaminare la totalità del corpo e della mente. Nella Catena del Sorgere Condizionato, il Buddha spiegò che tanhà, la causa della sofferenza, ha origine da una reazione a vedanà (v. p. 67). Imparando ad osservare oggettivamente vedanà, si può evitare qualsiasi nuova reazione di bramosia e avversione, e sperimentare direttamente all’interno di se stessi la realtà dell’impermanenza (anìcca). Questa esperienza è essenziale per lo sviluppo della condizione di distacco, che conduce alla liberazione della mente.
Vedanànupassanà’. osservazione delle sensazioni all’interno del corpo. Vedi SATIPATTHÀNA,
VINNÀNA Coscienza, cognizione. Uno dei quattro aggregati o processi mentali, con sannà, vedanà, e sankhàra.
VIPASSANÀ Introspezione, osservazione e comprensione profonda della realtà che purifica totalmente la mente. Specificatamente, è la comprensione profonda della natura impermanente della mente e del corpo.
Vipassanà-bhàvanà: lo sviluppo sistematico della comprensione profonda attraverso la tecnica di meditazione dell’os-servazione della propria realtà per mezzo dell’osservazione delle sensazioni all’interno del corpo.
YATHÀ-BHÙTA Letteralmente, « così com’è ». Realtà.
YATHÀ-BHÙTA – ŃẬNA -DASSANA Saggezza che sorge dal vedere la verita così com’è.
Da quando, nel 1969, S.N. Goenka ha lasciato la Birmania (oggi Myanmar) per iniziare ad insegnare la meditazione Vipassana in India e, qualche anno dopo, anche nei paesi occidentali, la meditazione Vipassana si è diffusa rapidamente in tutto il mondo. Ora in molti paesi esistono strutture e centri permanenti dove si tengono periodicamente corsi di meditazione .
Il primo corso di dieci giorni organizzato in Italia secondo questa tradizione si è svolto nel novembre 1986. Da allora ne vengono organizzati ogni anno. Nel 1991 alcuni meditatori hanno fondato un’associazione senza fini di lucro, l’Associazione Vipassana Italia, che si occupa dell’organizzazione dei corsi e di garantire l’assoluta correttezza nel seguire i principi che regolano l’insegnamento di Vipassana.
Questo insegnamento, che non ha alcuna connotazione religiosa, è aperto a tutti, senza distinzione di religione, professione o credo filosofico, in quanto, poiché la sofferenza e le sue cause sono universali, la via per uscirne deve ugualmente essere accessibile a tutti. Visto che l’associazione non è legata ad alcuna struttura organizzata, la realizzazione dei corsi è resa possibile da chi, avendo partecipato ad almeno un corso ed avendone tratto giovamento, sente il desiderio di far conoscere ad altri questa tecnica, offrendo una libera donazione per permettere l’organizzazione di altri corsi. L’Associazione Vipassana Italia ha l’obiettivo di far conoscere una tecnica di meditazione universale, accessibile ed accettabile da tutti, indipendentemente da razza, religione o opinione politica. Attraverso lo studio e la pratica della meditazione Vipassana, come insegnata da S.N. Goenka, si propone di favorire l’acquisizione della conoscenza di se stessi, sviluppando un alto standard di moralità, la concentrazione mentale, l’osservazione e la comprensione profonda della propria realtà mentale e fisica.
L’Associazione è di interesse generale poiché offre a tutti la possibilità di imparare questa tecnica di meditazione, fornendo così uno strumento pratico che permette di conoscersi e di lavorare su se stessi per condurre una vita più serena e socialmente responsabile.
Tutti i corsi, in tutto il mondo e in Italia, sono liberi da costi di partecipazione per evitare che gli aspetti commerciali interferiscano con la tecnica, e inoltre per dare a tutti, indipendentemente dalla situazione economica, la possibilità di beneficiare di questa arte di auto-conoscenza.
I corsi hanno un programma molto intenso e si svolgono, per i primi nove giorni, in completo silenzio. Prima del corso tutti i partecipanti ricevono informazioni sulle regole, la disciplina e l’orario giornaliero, che è stato strutturato per creare le condizioni migliori per l’apprendimento della tecnica.
I corsi di dieci giorni sono la base necessaria per essere in grado di praticare la meditazione quotidianamente e di integrarla nella propria vita. La tecnica è facile da comprendere e non implica alcun rituale; può essere praticata da persone di ogni età e non richiede conoscenze preliminari.
Ma, come è ben specificato negli opuscoli che gli interessati ricevono quando chiedono informazioni sui corsi, Vipassana è una tecnica molto seria, che implica impegno e duro lavoro e non ha nulla a che fare con «esperienze o viaggi strani», con particolari stati di piacere o d’estasi, con stati mentali alterati.
Vipassana offre la possibilità di conoscere i condizionamenti e le negatività della propria mente, permettendo, con il tempo, di eliminare le tensioni accumulate, di modificare i comportamenti e gli schemi di vita che procurano sofferenza.
Per questo è necessario che i partecipanti godano di salute mentale e fisica stabile e abbiano la ferma volontà di osservare le regole e la disciplina per intraprendere seriamente l’esperienza. Nonostante l’impegno rigoroso richiesto dal programma del corso e dall’assidua osservazione del proprio corpo e della propria mente, la maggior parte dei partecipanti scopre che questi ritiri permettono di recuperare nuova energia per affrontare la vita quotidiana.
Recentemente questa tecnica è stata introdotta con successo in settori sociali ed educativi, come, ad esempio, scuole, carceri, centri di riabilitazione per alcolisti o tossicodipendenti.
fine
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