Le 8 Strofe che addestrano la mente alla compassione

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Le 8 Strofe che addestrano la mente alla compassione

di Daniela Muggia

Le 8 Strofe che addestrano la mente alla compassione, di Geshe Langri
Thangpa, uno dei testi meditativi che hanno fatto del Dalai Lama
quello che è, viste con gli occhi dell’accompagnamento della
sofferenza.

In occasione della visita italiana del Dalai Lama mi è stato chiesto
di scrivere qualcosa che esulasse, ma non troppo, dal tema della mia
rubrica abituale, riguardante il modo di affrontare la morte, il
lutto, la diagnosi infausta.

Con un personaggio come il Dalai Lama è quasi una passeggiata, perché
ogni suo gesto, ogni sua parola ci rimanda alla compassione, il valore
che maggiormente ispira l’accompagnamento della fine di una vita.

Così ho pensato che sarebbe stata una buona idea raccontarvi del testo
che per 35 anni ha ispirato quotidianamente la sua compassione,
facendola crescere a un livello tale da soverchiare il concetto stesso
di nemico e amico.

Le Otto strofe per addestrare la mente – questo il titolo del breve
testo di cui parlo – è opera del maestro tibetano Geshe Langri
Thangpa, ed è contenuto in un libro dello stesso Dalai Lama, Le chiavi
della meditazione quotidiana, del quale ho curato l’edizione italiana
e la traduzione per i tipi di Amrita, in uscita a fine novembre. Come
è uso del Dalai Lama, al testo in questione fa seguito un eccellente
suo commentario.

Il maestro kadampa Geshe Langri Thangpa, precisa il Dalai Lama,
considerava la pratica dello spirito dell’Illuminazione come la cosa
più importante della sua vita, e queste sue otto strofe hanno lo scopo
dichiarato di addestrare la nostra mente a sviluppare quel tipo di
saggia, equanime, altruistica, incommensurabile compassione che
contraddistingue i buddha e i bodhisattva, ossia coloro che hanno
raggiunto o si stanno avvicinando alla completa Illuminazione,
coltivandone, appunto, lo spirito.

Per i buddhisti tibetani non vi è dubbio che il Dalai Lama sia un
esempio straordinario di tale realizzazione, e, a giudicare dal plauso
che l’Occidente gli riserva (premio Nobel per la Pace, Medaglia d’oro
del Congresso americano…) malgrado gli ostacoli politici, sembra che
buona parte del mondo sia d’accordissimo.

Proprio come chi ama il pallone vorrebbe conoscere tutti i segreti
dell’addestramento calcistico che fece di Pelé il Pelè che tutti
ricordano, mi è venuto in mente che chiunque ami la pace e abbia una
percezione della portata della compassione del Dalai Lama potrebbe
volere, con altrettanta impazienza, conoscere i segreti del suo
addestramento mentale, grazie al quale è diventato quello che è.

Se vi aspettate una ricetta complicata, siete in errore: per 35 anni
ha meditato ogni giorno su otto, piccole strofe, alla portata di
ciascuno di noi; e naturalmente, le ha messe in pratica.

Rassicuratevi, non intendo riassumere in questa sede il commentario
del Dalai Lama per non rovinarvi il piacere di andarvelo a leggere, e
ancor meno propinarvene una mia versione, perché ubi major minor
cessat.

Mi limiterò a percorrere questi versi insieme a voi, leggendoli
attraverso la mia specifica lente, quella della sofferenza da
accompagnare quando essa diventa acuta, come spesso accade alla fine
della vita; ma con la convinzione profonda che, se riusciremo a
contemplarli ogni giorno, in contatto con la morte o con la
sofferenza, ne usciremo trasformati, più vivi, più veri, e forse ci
avvicineremo un poco di più al modello compassionevole che il Dalai
Lama rappresenta per il mondo.
1. Con la determinazione di compiere il massimo bene di tutti gli
esseri senzienti, persino migliori della gemma che esaudisce tutti i
desideri, ch’io possa in ogni tempo averli a cuore.

Crescere non per noi stessi, ma crescere per aiutare gli altri. Non vi
è maggior sprone alla crescita personale che lo scoprire che più
maturiamo più si affina la qualità dell’aiuto che possiamo offrire al
prossimo: è un aiuto che pian piano si spoglia delle nostre proiezioni
personali, perché parte dall’ascolto dell’altro. Non lo sminuisce più,
credendo di sapere cos’è bene per lui, ma ne onora la saggezza anche
quando è nascosta, sapendo che quella saggezza è la vera natura di chi
abbiamo davanti… All’inizio, e per molto tempo, si procede a tentoni,
e si dicono parole sbagliate, o si fanno cose sbagliate. Ma la cosa
straordinaria è che se nutriamo in noi questa motivazione pura, “ch’io
possa crescere per aiutarti meglio”, la quale implica il riconoscere
che abbiamo ancora tanta strada davanti, l’altro la percepisce, sente
più quello che abbiamo nel cuore che quello che diciamo, ci sa
autentici, presenti accanto a lui con tutta la nostra fragilità.
Riconosce il nostro amore anche quando amiamo maldestramente. Avviene
ogni volta, nell’accompagnare un morente. È come se l’avvicinarsi
della morte gli fornisse una marcia in più: dopo aver passato la vita,
come la maggior parte di noi, a sentirsi non amato, scopre che esiste
un altro amore maldestro, quello dell’accompagnatore; ma scopre anche
che, per quanto maldestro sia, è amore. È come se spostasse
l’attenzione dall’avverbio al sostantivo, e in retrospettiva può
accadere che si renda conto d’essere stato amato, e tanto, dalle
persone importanti della sua vita, sebbene non proprio nel modo in cui
avrebbe voluto. In questa scoperta c’è un immenso sollievo, ne
converrete. Nell’accompagnamento c’è come una doppia dinamica: l’altro
mi permette di esercitare ed affinare il mio amore, e per questo è
prezioso per me quanto la mitica gemma che realizza tutti i desideri.
E il mio amore maldestro diventa prezioso per lui, perché gli
dischiude una visione diversa dei rapporti conflittuali della sua
vita, lontana dalle recriminazioni, dal vittimismo, dall’odio.
Insomma, gli dischiude una via di quiete.

2. Ogni volta che sto con gli altri, ch’io mi veda come il più umile
fra tutti, e dal profondo del cuore, ch’io consideri gli altri
supremi.

Nell’accompagnamento di un malato non c’è posto per la condiscendenza
e per il compatimento. Anzi, la compassione è l’opposto del
compatimento: è il desiderare che l’altro possa conseguire nel momento
della morte quella pace profonda che non gli è riuscito di conseguire
in vita, è fare di tutto perché ci riesca davvero, ma senza
l’arroganza di crederci sapienti rispetto alle vie – aspre o lisce,
consone o no al nostro modo di vedere le cose – che la sua saggezza
sceglierà di percorrere, e decidendo di tenergli la mano comunque. Con
questa motivazione interiore, come ho detto, ci si accorge ben presto
che si riceve più di quanto si dà. Può accadere di essere sopraffatti
dalla gratitudine, per questo. Frank Ostasesky dice che bussare alla
porta di un morente è come bussare alla porta del Maestro, e ha
ragione. Qualcuno s’immagina, qui, che io stia parlando della morte di
un grande saggio o di una santa donna, ma non è così: sto parlando
della morte della vecchina bizzosa, del manager depresso, della
casalinga aggressiva e soprattutto della morte dei bambini. In ogni
incontro vi è l’occasione per entrambi di trascendere la mera
apparenza del ruolo, della personalità, e di trasformare il dolore.
Per esempio, non puoi stare accanto a un morente nascondendoti dietro
una maschera, perché la farà cadere. Sei costretto ad essere te
stesso: la morte non ha tempo per i fronzoli, rende tutto più urgente,
e, paradossalmente, più vivo.
3. In ogni mia azione ch’io esamini la mente, e appena sorgono le
illusioni che mettono in pericolo me e gli altri, ch’io le affronti
con fermezza e le allontani.

Nell’accompagnare chi è alla fine di una vita è più facile cadere
nella tentazione delle proiezioni, del pensiero condizionato dalle
esperienze precedenti, o dall’idea che io so e l’altro non sa, che io
sono forte l’altro debole, che io sono intero e lui spezzato… Noi
percepiamo, d’altronde, la realtà in modo distorto, come da dietro le
spesse lenti colorate e deformanti dei nostri condizionamenti: un
grande maestro dzogchen ha detto «il samsara è la mente volta
all’esterno smarrita nelle sue proiezioni; il nirvana è la mente volta
all’interno, a contemplare la sua vera natura». Le “illusioni” di cui
parla il buddhismo sono essenzialmente questo: distorsioni percettive,
condizionamenti di vario genere, insomma l’ignoranza di come le cose
stanno davvero. Ed è da questo percepire distorto che ha inizio, ogni
sofferenza, la quale paradossalmente produrrà ulteriori distorsioni
percettive, e ulteriore sofferenza in un ciclo infinito, il samsara,
appunto, dal quale si esce soltanto recidendo tali illusioni alla
radice. Da esse nasce un rapporto non autentico con il reale, e dalle
proiezioni nasce, nell’accompagnamento di un morente come nella vita,
una relazione viziata dall’incomprensione. La proiezione è il
contrario dell’ascolto empatico e profondo, lucido e aperto, su cui si
regge ogni vero accompagnamento spirituale.

4. Quando vedo esseri dal carattere spiacevole, oppressi da violenti
misfatti e afflizioni, che essi siano cari al mio cuore come se avessi
trovato un tesoro prezioso e raro.

Beh, i morenti – come i viventi – non sono per niente facili. Non
sempre, almeno. Sono, almeno all’inizio di un accompagnamento, un
groviglio di sofferenze, faccende in sospeso, rapporti irrisolti,
paure, attaccamento, disperazione… Ma se, per un attimo, memori della
nostra aggressività (che è solo dietro l’angolo), cogliamo la loro
aggressività come dolore soltanto, come sofferenza che ha da scoppiare
in qualche modo, come una serie di distorsioni percettive con cui
anche loro, come noi, devono fare i conti, veniamo investiti da una
compassione coraggiosa, che ci permette di restare, di continuare ad
amare invece di girare i tacchi.

5. Quando gli altri, per invidia, mi trattano male con la calunnia,
l’inganno e così via, ch’io mi assuma la sconfitta e offra loro la
vittoria.

L’invidia per chi è vivo, per chi domani stringerà ancora al petto il
suo bambino, vedrà un altro tramonto sul mare, un’altra alba sulla
collina… Quante volte ho incontrato quest’altra sofferenza, in chi è
vicino alla morte! E, nell’accompagnamento del lutto, a volte l’ho
sentita presente nei genitori che hanno perso i figli, quando scoprono
che io sono madre, e una madre felice. È come se dicessero “tu non
puoi capire”, come se si chiudessero in un’eburnea e turrita
aristocrazia del dolore, quasi arrogante, che disconosce la vostra
parte di sofferenza; creano essi stessi, spinti dal dolore soltanto,
questa separazione dagli altri; allora vi sembra impossibile
raggiungerli. È a questo punto che avete voglia di mollarli, di
abbassare le braccia. O, peggio, vi si insinua dentro un serpentino
pensiero ancor più separativo, del tipo “con tutto quello che sto
facendo per te”. Dare all’altro la vittoria, qui, è non sentirsi
offesi, è consentirgli di manifestare anche questa sua sofferenza
senza per ciò abbandonarlo; è ricordarsi la motivazione per cui lo si
accompagna, che da un lato prevede accoglienza totale e dall’altro il
tentativo di farlo uscire dalla sua torre, non perché essa ci fa
soffrire, ma perché l’altro resta bloccato nella sua sofferenza.

Se reagiamo, allontanandoci per esempio con aria sdegnata, ci sembrerà
di aver vinto (“arrangiati, stai nella tua bagna”, si dice in
Piemonte). Ma in realtà avremo perso, perché il condizionamento di cui
l’altro è prigioniero avrà dettato anche il nostro comportamento, non
solo il suo. Diversamente dall’agire, il reagire non è un atto di
libertà, è il prodotto di un condizionamento, come una molla che,
premuta dall’esterno, scatta.

6. Quando qualcuno che ho aiutato e a cui ho fatto del bene con grandi
speranze, mi fa del male molto giustamente, ch’io possa considerarlo
come il mio supremo maestro.

Più le leggo, e più mi pare che queste strofe siano fatte apposta per
chi accompagna la sofferenza… Ma forse è solo perché ciascuno di noi,
per il solo fatto d’essere al mondo, è continuamente chiamato ad
accompagnarla… se non fa orecchie da mercante.

Mia nonna, per esempio, non fu facile da accompagnare per niente.
Aveva una forma perniciosa di demenza senile, e non lanciava male
parole, lanciava coltelli. Quelli veri, da cucina. Io ero una
ragazzina, ma quello fu il mio primo addestramento in materia: non
confondere la nonna con la sua malattia. La nonna, quando era in sé,
mi voleva davvero bene. La sua malattia invece no. Fu, in questo, una
suprema maestra: è grazie a lei che oggi, quando mi capita di
incontrare persone aggressive (nella vita quotidiana, intendo) ne
soffro molto meno di altri. Vedo infatti soprattutto la loro
sofferenza, e il mio rapporto con loro resta aperto.

7. In breve, ch’io possa offrire direttamente e indirettamente ogni
bene e felicità a tutte le mie madri, e in segreto assumermi le loro
azioni dannose e la loro sofferenza.

“Tutte le mie madri”, nella terminologia del Dharma, vuol dire “tutti
gli esseri senzienti”; si ritiene cioè che, nelle pregresse esistenze,
tutti possano esser stati per noi madri o padri o fratelli o sorelle o
figli, e che siccome anche una fiera è premurosa con i suoi cuccioli,
tutti quanti devono essere stati altrettanto premurosi con noi. Si
mette in evidenza la nostra dipendenza dagli altri non solo per
sopravvivere (senza gli altri non esisteremmo), ma anche per crescere
dentro (senza l’altro non c’è altruismo). È una strofa a vocazione
eroica, perché allora questi innumerevoli altri contano più di me, che
sono una soltanto; e mi ricorda un medico indiano che incontrai tanti
anni fa. Fermarsi in un ashram, in India, prevede che si presti un
servizio in

cambio dell’ospitalità, e a me era toccato in sorte di aiutare il
medico, in quel piccolo dispensario col tetto di paglia. Mi disse di
lavare le piaghe infette dei bambini. Io dissi “ok, dove sono i
guanti?” e lui sorrise con quei sorrisi che sono come quando si
accende una luce nel buio, e mimò il gesto di infilarsi dei guanti
inesistenti. Mi disse “gloves of love”, “guanti d’amore”. Perché non
c’era altro. Era il dispensario più sguarnito del mondo, e forse il
più ricco…

8. Che tutto ciò non sia mai oscurato dalle macchie dei concetti delle
otto preoccupazioni mondane. Ch’io possa, nel percepire tutti i
fenomeni come illusori, privo di attaccamento, essere libero dalle
catene del samsara.

Se ci si dedica ad accompagnare la sofferenza sospinti da aspettative
(come quella d’essere considerati virtuosi) o da paure (per esempio
quella di venire mal giudicati dalla società), non cresceremo e non
accompagneremo.

Allo stesso modo, se crederemo l’altro davvero separato da noi, non
cresceremo e non accompagneremo. Aspettative e paure sono il cemento
che tiene insieme la grande distorsione percettiva, quella che ci fa
credere d’esser dotati di un sé inerente e solido, magari anche
permanente, sicché quando poi l’impermanenza si mostrerà con la
malattia e la morte, verremo soverchiati dal terrore. Per forza! Ci
saremo identificati (o avremo identificato l’altro) con ciò che muore,
con ciò che non siamo: il corpo, la mente, il ruolo… dimentichi del
fatto che la nostra vera natura è la vasta apertura di tutti i
possibili, luminosa, cognitiva, dinamica, onnipervadente… e che è
nella morte, che abbiamo la massima probabilità di trovarla.

Daniela Muggia

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