Le esperienze in punto di morte

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Le esperienze in punto di morte

di Paola Giovetti

In questo articolo pubblicato su Luce e Ombra (n. 3/2004) la nota giornalista e scrittrice Paola
Giovetti offre un quadro sintetico ed esauriente della storia della ricerca nel campo delle NDE,
ponendo a confronto i risultati delle sue indagini con quelli presentati da altri ricercatori.

Sull’argomento Paola ha anche scritto un libro, Qualcuno è tornato (Armenia Editore, 1989), brani
del quale saranno riportati in questo sito

Prima parte

Da qualche decennio veniamo confrontati con frequenza crescente con esperienze molto particolari
definite esperienze in punto di morte (in sigla NDE, dal termine inglese near death experiences):
cioè le visioni, le sensazioni, i vissuti di chi si è trovato vicinissimo alla morte. Capita infatti
che qualcuno si riprenda per qualche attimo dal coma e racconti di aver visto o sentito qualcosa;
oppure che persone che sono state in serio pericolo di vita, o hanno addirittura avuto qualche
attimo di morte clinica per arresto cardiaco, vengano rianimate e raccontino cose del tutto
particolari.

Esperienze di questo tipo sono state vissute un po’ dappertutto in tutti i tempi, ma sono numerose
soprattutto oggi in quanto i progressi della medicina consentono di riportare alla vita persone che
un tempo sarebbero certamente decedute. Si tratta di esperienze che i protago¬nisti concordemente
definiscono “di paradiso” e che risultano difficilmente esprimibili con le parole umane: avventure
mistiche e irripetibili.

Anche se irripetibili, e quindi uniche, queste esperienze sono indagabili attraverso alcuni elementi
comuni: il loro presentarsi secondo “modelli” sostanzialmente simili e l’effetto che producono in
chi le vive. In questo senso si può quindi, con qualche diritto, parlare di scienza.

Pur presentando caratteri di autentica originalità, ognuna di queste esperienze sembra infatti
rifarsi a un modello di base i cui elementi fondamentali sono questi: perdita della coscienza
quotidiana e al tempo stesso recupero di una coscienza diversa e superiore, visione autoscopica,
incontro con persone care precedentemente defunte o con angeli e figure religiose, percezione di
paesaggi, musiche, colori fantastici, visione di una luce intensissima ma non abbagliante vissuta
come “divina”, film panoramico della vita con capacità di darne un giudizio rispondente a criteri
assai diversi da quelli umani, ritorno alla vita percepito come doloroso e sgradevole, sensazione –
condivisa da tutti i protagonisti – di essere stati nell’aldilà, perdita della paura di morire
avendo constatato che la morte è, per usare le parole di uno di questi protagonisti, “la più bella
esperienza della vita”. Ma andiamo con ordine e ripercorriamo la storia della ricerca in questo
campo.

Le ricerche sistematiche sono proprie soprattutto degli ultimi anni; tuttavia anche precedentemente
queste vicende erano note ed erano state oggetto di alcune raccolte: ricordo in particolare quella
di Ernesto Bozzano, pubblicata prima sulla rivista Luce e Ombra e in seguito in un volume dal titolo
Le visioni dei morenti. Fondatrice della moderna tanatologia deve essere però considerata la
dottoressa Elizabeth Kubler Ross, una psichiatra svizzera residente negli Stati Uniti, che è
divenuta famosa come la “dottoressa dei moribondi”: e in effetti in questi ultimi anni ella ha fatto
per la comprensione umana della morte più di quanto sia mai stato fatto da altri. Fin dagli inizi
della sua carriera di medico, la Kubler Ross, che ha prestato la sua attività presso la clinica
universitaria di Chicago, si rese conto con stupore e sdegno che il dolore e la morte sono gli
ultimi tabù della nostra società.

Si rese conto anche del fatto che oggi non siamo più capaci di prestare vero aiuto a un malato
grave: un tempo, quando la gente veniva curata in famiglia, questo aiuto veniva prestato
naturalmente e con spontaneità. Oggi negli ospedali il malato viene assistito con grande efficienza
dal punto di vista clinico: medici e infermieri si occupano del suo cuore, delle sue pulsazioni, del
suo elettro–encefalogramma, eccetera, ma non di lui come persona. Oggi, in altre parole, si soffre
molto meno dal punto di vista fisico ma si soffre di più a livello di sentimenti: le necessità
interiori dell’ammalato non sono mutate. Nel corso del tempo è mutata invece la nostra capacità di
esaudirle.

Elizabeth Kubler Ross si mise allora ad assistere e a studiare i pazienti allo stadio terminale,
scoprendo che anche chi è ormai in situazione disperata può essere grandemente aiutato da
un’assistenza umana e psicologica. L’occuparsi dei morenti ha dato alla Kubler Ross una vasta
conoscenza dell’uomo, un senso religioso della vita e anche ferree convinzioni circa quello che
avviene dopo la morte: cominciò infatti ad analizzare i racconti dei pazienti che erano morti
clinicamente ed erano stati riportati in vita, e si accorse che queste persone che erano state
“sulla soglia” avevano spesso qualcosa da raccontare, anche se in genere esitavano a farlo per paura
di essere derise o non credute.

Queste persone avevano molte esperienze comuni: perdevano per esempio totalmente la paura di morire
e affermavano che l’esperienza era stata tanto bella che avrebbero preferito non interromperla;
raccontavano di essersi trovate in ambienti sereni e pieni di pace e di essere state accolte da
persone care morte precedentemente; in più concordemente affermavano che la loro esperienza di morte
era stata il momento più bello e intenso di tutta la loro vita.

Elizabeth Kubler Ross cominciò a parlare apertamente di queste cose negli anni Sessanta, quando il
tema era ancora relativamente poco conosciuto; in seguito le sue scoperte sono state confermate da
altri ricercatori che, uno indipendentemente dall’altro, sono arrivati alle stesse conclusioni. Le
inchieste più importanti in questo campo sono state pubblicate in vari volumi, tra i quali cito
quello del dottor Raymond Moody, La vita oltre la vita, che è diventato un best seller e ha portato
questo tema all’attenzione del grande pubblico. Moody ha analizzato esperienze vissute in tempi e
ambienti diversi, constatando la loro fondamentale analogia.

Ma l’indagine più rigorosa che sia stata compiuta in questo campo è quella di Karlis Osis ed
Erlendur Haraldsson, pubblicata col titolo Nel momento della morte. Osis e Haraldsson hanno
analizzato un migliaio di esperienze vissute in ambienti totalmente diversi dal punto di vista
religioso, sociale e culturale come Stati Uniti e India, constatando nei racconti dei morenti
elementi che hanno definito “transculturali”, ovvero indipendenti dalle aspettative e dalla forma
mentis delle persone. Anche i pazienti allo stadio terminale, intervistati in questa inchiesta,
parlano di particolari “incontri”, di sensazioni di pace e benessere, di ambienti sereni e
rasserenanti.

Un’altra validissima inchiesta è quella del dottor Kenneth Ring, dell’Università del Connecticut,
che ha intervistato centinaia di persone che avevano avuto un arresto cardiaco ed erano state
riportate in vita dai medici. Ring stesso ha riassunto con queste parole i risultati delle sue
indagini: «Nel momento della morte sembra che si attraversino sostanzialmente, in successione
progressiva, queste fasi: sensazione soggettiva di esser morti, accompagnata da un gran senso di
pace; separazione dal corpo; ingresso in una regione buia ma serena; incontro con voci o presenze;
esame della propria vita; visioni di colori; percezione di suoni e musica; ingresso in un mondo di
luce e di amore; rientro nel corpo. Fin dalle prime interviste che ho fatto ai rianimati mi sono
reso conto che le prime fasi sono le più comuni: meno frequenti invece le ultime, il che dipende, a
mio parere, dalla maggiore o minore durata e profondità dell’esperienza di morte».

Molto importanti gli effetti che queste esperienze hanno su chi le vive: queste persone infatti non
temono più la morte, perché in essa si sono sentiti in pace, accettati, amati, hanno avuto la
sensazione di essere arrivati “in porto”, di essere finalmente “salvi”. Il che non toglie
l’interesse per la vita, anzi la fa maggiormente apprezzare in quanto interpretano il loro ritorno
come una rinascita, un risveglio, una seconda possibilità: si potrebbe quasi dire una sorta di
missione. In effetti tutte queste persone escono trasformate dall’esperienza, cambiano totalmente il
voltaggio interiore.

Tra le varie altre inchieste che si potrebbero citare ricordo ancora quella del dottor Michael B.
Sabom (pubblicata col titolo Dai confini della vita), un medico americano che, partito da posizioni
scettiche, si è convinto della realtà di queste esperienze dopo averne analizzate a centinaia. Io
stessa ho compiuto qualche anno fa un’inchiesta in Italia (Qualcuno è tornato), nel corso della
quale ho analizzato oltre cento casi, constatando che i risultati coincidono pienamente con quelli
ottenuti da altri ricercatori. Questa concordanza di dati forniti da persone diversissime per fede,
cultura e nazionalità è l’elemento che più parla a favore dell’ipotesi che le esperienze in
questione non siano sogni o allucinazioni, ma qualcosa di più. Per dare un’idea di questa casistica,
che è ormai vastissima, riporterò ora alcuni casi tratti sia dalla mia inchiesta che dalle altre
sopra citate.

Cominciamo con un caso capitato parecchio tempo fa, prima della guerra, allo scrittore austriaco
Paul Anton Keller, allora trentenne, che lo descrisse nel suo libro Im Schattenreich (Nel regno
d’ombra) del 1948. Mentre Keller aiutava alcuni ragazzi del paese ad alzare l’albe¬ro della
cuccagna, qualcuno perse l’equilibrio e il pesante palo piombò sullo scrittore:

«Un colpo spaventoso mi scaraventò a terra. Dolore lancinante in tutto il corpo. Poi ogni rumore
svanì. E tuttavia io sentivo ancora, percepivo, vedevo, comprendevo l’evento con una chiarezza e una
limpidezza che non avevo mai sperimentato prima in vita mia… Vedevo me stesso, vedevo il mio corpo
giacere sul prato calpestato e lo osservavo senza alcuna partecipazione, quasi con ripugnanza…
Arrivò in bicicletta il dottore. Il mio corpo fu sollevato. Ora vedevo le larghe spalle del dottore
che si chinava sul mio corpo. Accorsero anche alcuni curiosi e io mi misi in mezzo a loro, non
incontrando alcuna resistenza. Che gli altri non mi vedessero mentre io ero vivo come non mai era
cosa che mi stupiva e meravigliava.

Poi tutto quello che mi circondava svanì e io mi ritrovai solo. Indescrivibile è la sensazione di
pace e felicità che provavo: tutto ciò che mi aveva turbato era lontanissimo, non riuscivo neppure a
richiamarlo alla memoria. Avevo ancora la capacità di pensare? Mi sembrava che tutto si fosse
dissolto in un sentimento, in una limpida percezione che mi si rivelava come una realtà potenziata e
trasfigurata. Avevo già sperimentato svenimenti e anestesie, ma il mondo sensibile in cui mi trovavo
era infinitamente più chiaro e tuttavia indipendente da organi e nervi.

«Improvvisamente udii della musica: suoni armoniosi che non assomigliavano in nulla a una musica
come la intendiamo noi. Da qualche parte, al di là di quella divina melodia, doveva essere il regno
dell’eterna pace e dell’eterna chiarezza, verso il quale io mi stavo muovendo con assoluta fiducia e
confidenza… Improvvisamente mi ritrovai accanto al dottore. La copia di cera del mio io gli
giaceva immobile davanti. Ero enormemente stupito che quella figura fosse appartenuta a me, che in
qualche modo quel corpo pallido fosse il mio. Quel viso cadaverico che aveva i miei lineamenti
suscitava in me soltanto repulsione. Il medico riempì una siringa: non senza curiosità lo stetti a
guardare mentre con abilità e attenzione conficcava l’ago nel mio braccio. Un’oscura paura mi
invase: in essa persi il mio senso di pace assoluta.

Mi sembrava che una forza priva d’amore trascinasse il mio io in quella profondità in cui sapevo che
si trovava il mio corpo, di cui ricordavo senza alcuna gioia l’esistenza. Sì, non c’era dubbio,
sprofondavo, venivo risucchiato e non potevo resistere a quella forza anche se mi opponevo a essa
con tutto me stesso. Di nuovo un’ondata di violento dolore mi pervase. Fui strappato da quella luce
come da un pugno brutale e ora mi sembrava di sentire odore di medicine, tabacco e animali. E
c’erano anche delle persone. Ora anche la luce del giorno colpiva le mie palpebre, ed era ben misera
in confronto al mondo di luce che avevo conosciuto. Chino su di me vedevo il dottore, che alzò il
viso e con voce che mi parve di non riconoscere disse: “E vivo”».

La vicenda che segue, anch’essa narrata dalla viva voce del protagonista, fu vissuta anni fa
dall’architetto Stephan von Jankovich di Zurigo: a quell’epoca Jankovich aveva una quarantina d’anni
ed era un uomo dedito prevalentemente alla vita sportiva, di relazione, di affari. Non si era mai
troppo occupato di problemi filosofici e religiosi e non aveva mai sentito parlare delle cosiddette
esperienze in punto di morte.

Quel giorno di vent’anni fa, mentre viaggiava su una macchina scoperta, Jankovich ebbe uno scontro
frontale con un camion: finì fuori dalla vettura con diciotto fratture e una grave commozione
cerebrale, che gli procurò cinque minuti di morte clinica accertati dal medico.

«Dopo l’impatto», racconta Jankovich, «la mia coscienza rimase naturalmente offuscata, tuttavia a un
certo punto mi ritrovai cosciente con questa consapevolezza: muoio! Ero stupito di non trovare
sgradevole la morte, non avevo paura. Era tutto così naturale, così ovvio! Mi rendevo conto che
morivo e che lasciavo questo mondo. Durante la mia vita non avevo mai immaginato che ci si potesse
separare dal mondo così bene e così semplicemente. Ero felice di morire senza paura, ero solo
curioso di vedere come sarebbe continuato quel processo di morte. E difficile dire dove mi trovassi:
mi stavo librando, non so dove. Sentivo suoni meravigliosi, distinguevo colori, movimenti, forme
armoniche.

Avevo in qualche modo l’impressione che qualcuno mi chiamasse, mi consolasse, mi guidasse sempre più
in alto nell’altro mondo, quello in cui stavo per entrare. Una pace assoluta e un’armonia mai prima
percepita mi pervadevano, ero felice, non ero oppresso da nessun pensiero. Ero solo, ma in perfetta
armonia e avevo la sensazione che la mia solitudine fosse solo apparente: mi sentivo protetto, in
una dimensione piena d’amore e di comprensione. Poi questa fase meravigliosa si interruppe e mi
ritrovai sul luogo dell’incidente, proprio al di sopra della macchina fracassata e del mio corpo
martoriato che giaceva per terra con la gente intorno e un medico che tentava di rianimarmi e che
dopo un po’ disse:

«”Non posso fare il massaggio cardiaco: ha le costole spezzate”. Tutto questo mi fu confermato in
seguito. Ritennero allora che non ci fosse più niente da fare per me e cercarono una coperta per
coprire il mio corpo. A questo punto vidi una persona, un altro medico, correre verso di me con una
valigetta in mano, inginocchiarsi accanto a me e cominciare a fare qualcosa».

«A me», continua Jankovich, «tutto quel daffare faceva venire da ridere perché mi sentivo benissimo,
più vivo che mai, per niente morto! Intanto avevo ripreso contatto con la dimensione che prima ho
descritto: i giochi di luce e di colore divennero più ampi, più pieni, fino a sommergermi. Da
qualche parte, a destra in alto, vedevo il sole che diventava sempre più radioso, luminoso,
pulsante. Sapevo che questo sole era il principio divino, la fonte di ogni energia. La mia anima
priva di corpo cominciava ad armonizzarsi con le vibrazioni di questo sole, mi sentivo sempre più
felice e a mio agio. Poi di nuovo tutto si interruppe e io persi di nuovo conoscenza. Quel medico
che avevo visto correre verso il mio corpo mi aveva fatto un’iniezione di adrenalina che mi aveva
strappato alla mia bella esperienza».

Vediamo ora qualche caso italiano. Un signore di Como, Romeo N. racconta:

«Nel 1977 ebbi un collasso, persi i sensi e di colpo mi trovai in un’altra dimensione: con grande
stupore vidi i miei genitori defunti, mamma e papà che mi sorridevano. Non parlavano, eppure capii
che mi dicevano di non aver paura, che non era giunto il momento di stare con loro, di continuare a
comportarmi così, che loro erano contenti del mio modo di vivere. Era una gioia capirsi senza aprir
bocca. Dietro di loro c’era una grande pianura, piena di luce viva, una luce di pace, di gioia, una
luce che si intuisce eterna, in cui è dolce vivere, una luce cui ci si assoggetta interamente senza
esserne obbligati, una luce che nessun vocabolario umano può contenere le parole adatte a
descriverla.

Poi gradatamente cominciai a tornare alla realtà terrena, a distinguere i contorni della stanza, la
luce del sole. Ero disorientato, spaurito, mi accorgevo con rammarico di aver lasciato quel mondo
così bello. Ma quello che mi stupiva era il fatto che tutto ciò che era terreno l’avevo dimenticato:
avevo dimenticato, e non mi dispiaceva, tutto ciò che mi era più caro, la moglie, i figli, tutto ciò
che fa felici gli esseri umani qui sulla Terra. Questa esperienza ha cambiato totalmente il mio modo
di pensare, di agire, di vivere. Ora la morte non mi fa più paura, perché là c’è la beatitudine, la
vera pace, immersi in quella luce che è vita».

Prati verdi, fiori e tanta pace caratterizzano l’esperienza della signora Adriana Tassinari di Roma,
che racconta:

«Quando avevo 30 anni, in seguito a un’operazione al fegato, mi resi conto che me ne stavo andando
per collasso cardiocircolatorio. Feci appena in tempo a suonare il campanello, accorse la suora, poi
il medico che mi fece un’iniezione per sostenere il cuore che non aveva quasi più battiti. Ma io
restavo cosciente di tutto, ero tranquilla, per nulla impaurita: una pace immensa entrò in me,
mentre il mio spirito vagava in un mondo fantastico che sembrava colorato e disegnato da Walt
Disney. Prati verdissimi di un tenero color smeraldo, grandi alberi frondosi, fiori enormi e
coloratissimi. Ma quello che maggiormente mi colpiva era l’assoluta serenità, la pace immensa e
riposante. Notavo che ero sola, nessuno era intorno a me, neanche ombre lontane. Ma questo non mi
interessava perché quella splendida solitudine mi appagava in pieno. Poi tutto finì e mi ritrovai
nel mio letto, debolissima e sofferente».

Ho chiesto alla signora Adriana se sia sicura che non si sia trattato di un sogno, e questa è stata
la risposta:

«Assolutamente no. Quello che ho vissuto era diverso dai sogni, che fra l’altro non ricordo mai. E
non era neppure uno svenimento come avevo avuto altre volte: sentivo veramente che la vita se ne
andava. Poi ho avuto l’esatta impressione di essere in un’altra dimensione. Stavo benissimo, non
avrei voluto tornare più e fui dispiaciuta di ritrovarmi in vita. In seguito fui contenta di essere
ritornata, avendo marito e una bimba piccola, però in quei momenti felici non avevo pensato a niente
e a nessuno. La sensazione più precisa che ricordo della mia esperienza è quella luce solare calda,
quella beatitudine, quella pace, quella serenità. Il prato, i fiori, io stessa, tutto era irradiato
da quella luce che avvolgeva e dava una sorta di santificazione. È difficile descriverlo con le
nostre parole. Di certo era un luogo incantevole dove avrei voluto restare per sempre. Quando morirò
spero di ritrovare quello che ho visto allora. Se è così, è stupendo e io non ho affatto paura di
morire».

Ancora un prato verde dalle tonalità brillanti e luminose per questa anziana signora che sopravvisse
al grave incidente nel quale era stata coinvolta, mentre avrebbe preferito morire veramente per
potersi ricongiungere all’unico figlio morto in età ancora giovane:

«Nel giugno del 1977 fui investita da un furgone senza che me ne accorgessi e che sentissi
assolutamente niente: svenni o morii? Mi ritrovai in un immenso e splendido prato verde dove ero
completamente sola. Poi sentii vicino a me delle persone e chiesi dov’ero e loro mi dissero che mi
trovavo in ospedale: avevo subito una contusione cranica, ero in stato commotivo, ferite
dappertutto, fratture a quattro costole, blocco allo stomaco, al fegato e a tutto l’intestino.

«Nonostante le preghiere rivolte ai medici perché mi lasciassero morire, sono tuttora al mondo (vivo
sola e ho 80 anni) e spesso mi ritorna alla mente il magnifico prato verde, che dopo la morte di mio
figlio, avvenuta l’anno scorso a soli 50 anni, desidererei raggiungere per l’eternità».

Seconda parte

Un altro grave incidente, un’altra bella esperienza di confine che comprende questa volta anche un
simbolo chiarissimo: il grande muro che impedisce l’accesso all’altra dimensione fatta di musica e
luce. L’esperienza è della signora F. D. di Brescia.

«Nel 1980 ho avuto un caso di premorte in seguito a un tremendo incidente stradale: è stata
un’esperienza meravigliosa e davvero non si vorrebbe assolutamente ritornare sulla Terra nel corpo
fisico.

«Ero all’altezza di tre metri e vedevo tutto da sopra: vedevo la macchina capovolta, il mio corpo
morto, la gente che si radunava sul ciglio della strada. Sentivo tutto quello che dicevano in ogni
dettaglio e con estrema chiarezza. Ma poi alzando lo sguardo più in alto vedevo una enorme piazza
tutta di marmo lucidissimo, grande come il mondo. In fondo, a mo’ di orizzonte, vedevo una grande
muraglia e capivo che per andare al di là bisognava attraversare questa muraglia. Sentivo dei cori
angelici e cercavo di unirmici, ma non mi vollero dicendo che dovevo tornare sulla Terra nuovamente.
Percepivo però che di là si conserva tutto, che il pensiero continua ed è anzi più limpido. So che
mi sentivo felice, felicissima, ero beata, per non dire radiosa. Poi mi sono sentita rimpicciolire e
rientrare nel corpo dalla parte delle narici e della bocca. Quando rinvenni ero piena di ematomi,
dolori e gonfiori, ma la gioia era ancora così forte in me che non sentivo male: fu dopo in ospedale
che gradatamente sentii un male fisico enorme.

«La cosa più importante è che ero felice di vedere il mio corpo morto. Ero felice, era una cosa
stupenda. La morte ora non mi fa più paura e capisco san Francesco che la chiamava “sorella morte”».

È naturalmente molto difficile valutare esperienze di questo genere, che sono totalmente soggettive.
Si può tuttavia notare che il mondo visto dal signor Domenico F. ricorda molto da vicino certe
descrizioni giunte per via medianica: un ambiente non totalmente dissimile da quello terreno, anche
se più bello e più sereno, incontri coi propri cari precedentemente defunti coi quali ci si intende
senza bisogno di pronunciare parole, un’atmosfera tranquilla e beatificante. Vorrei a questo
proposito ricordare che la lettura di “alcune” esperienze di questo tipo potrà forse non dire molto;
ma quando le vicende vissute diventano decine e centinaia, tutte caratterizzate da elementi
ricorrenti analoghi, l’impressione di “realtà” si fa molto più intensa.

Un Aldilà fatto di luce e di amore per questa ragazza americana diciassettenne.

«Nel 1967, quando avevo 17 anni, ebbi una grave forma allergica che a un certo punto mi procurò
un’improvvisa difficoltà di respirazione. Rapidamente le cose peggiorarono al punto che i miei
chiamarono un’ambulanza: non essendocene nessuna disponibile, vennero i vigili del fuoco. lo intanto
ero quasi fuori conoscenza, pur continuando a fare uno sforzo tremendo per continuare a respirare. A
un certo punto smisi di farlo e provai un gran sollievo per aver potuto smettere di lottare per
vivere. Scivolai nel buio di una regione inconsapevole ma piena di pace. Di colpo mi trovai fuori
dal corpo, a pochi passi di distanza da esso, guardando con grande curiosità i pompieri che mi
facevano la respirazione bocca a bocca e mi massaggiavano. Mia madre mi spruzzava acqua sul viso. Mi
resi conto anche che il pompiere che mi praticava la respirazione bocca a bocca mentalmente mi
parlava e mi sollecitava a non cedere: gli ricordavo moltissimo sua figlia. Un attimo dopo mi trovai
a guardare questa scena un po’ comica dall’altezza dei fili del telefono.

Vidi un bambino correre verso casa nostra e cercai di gridargli di non farlo, ma non mi udì. Intanto
un vigile commentava tristemente che da tre minuti ero senza polso. Mia madre era fuori di sé, ma io
volevo gridar loro che tutto era come doveva essere e che stavo benissimo. Mi sentivo infatti
felice, a mio perfetto agio, addirittura esilarata per la nuova situazione: un’autentica fenice
risorta, libera dai limiti del corpo e del mondo fisico. Tutto intorno a me era musica: l’etere del
mio nuovo universo era amore, un amore così puro e generoso che non desideravo altro che rimanere
lì. Mi resi conto della presenza di uno zio trapassato, ci riconoscemmo e restammo insieme. Ci
muovevamo in un mare di luce, con la quale mi identificavo sempre più. Poi di colpo tutto finì: fui
spinta in un tunnel luminoso e catapultata di nuovo nel mondo fisico. Mi ritrovai a pochi passi dal
mio corpo: era arrivata l’ambulanza e anche il nostro medico di casa che mi stava riempiendo di
adrenalina e mi faceva il massaggio cardiaco. Il mio polso aveva ripreso e batteva debolmente e a
questo punto fui come risucchiata dal corpo… mi sentivo confusa, con un senso di imprigionamento e
di degradazione quale non avevo mai provato».

Ancora luce e beatitudine in quest’altra esperienza, capitata a una signora di Roma.

«Ero molto legata a mio padre e quando quindici anni fa lui mancò, io, che avevo allora 40 anni,
dopo pochi minuti ebbi un collasso: ricordo perfettamente che girai le pupille in su, chiusi gli
occhi e vidi mio padre allontanarsi verso una immensa distesa bianca, luminosa, di un infinito
bagliore in cui si perse, mentre io mi fermai, incerta. Era successo che ero caduta in coma per un
arresto cardiaco e mentre i medici si affannavano con iniezioni e il massaggio cardiaco io mi
sentivo serena, leggera e contenta, in uno stato di vera beatitudine.

Un’esperienza analoga a quelle finora narrate è stata riferita da un testimone superiore a ogni
sospetto: il medico e psicologo svizzero Carl Gustav Jung. Si tratta di un fatto capitato a una sua
paziente e Jung lo riporta nel suo libro La sincronicità.

«La signora in questione aveva avuto un parto molto difficile, seguito da una violenta emorragia che
le aveva provocato un collasso. A un certo punto la paziente ebbe la sensazione di stare
sprofondando attraverso il letto in un vuoto senza fondo; ma non aveva paura… La consapevolezza
successiva fu che, senza alcuna sensazione del proprio corpo, guardava in giù da un punto posto
proprio sul soffitto della stanza e percepiva tutto quello che accadeva sotto di lei: vedeva se
stessa pallida come un cadavere, stesa sul letto con gli occhi chiusi.

«Accanto al letto c’era l’infermiera, il medico correva agitato su e giù per la stanza, le pareva
che avesse perso la testa e non sapesse bene cosa fare. Sua madre e suo marito entrarono e la
guardarono spaventati. Ma lei pensava: è proprio sciocco che pensino che io stia morendo, è chiaro
che tornerò in me. Intanto sapeva che dietro di lei si trovava uno splendido paesaggio, una sorta di
parco dai colori smaglianti, e in particolare un prato verde smeraldo con l’erba corta, che si
stendeva su un pendio e al quale si accedeva attraverso una porta a grata che dava sul parco.

Era primavera e il prato era pieno di piccoli fiori variopinti che non aveva mai veduto prima. Un
sole intensissimo illuminava la zona e tutti i colori erano di uno splendore indescrivibile; il
prato faceva l’impressione di una radura nel bosco, dove l’uomo non aveva mai messo piede. Sapeva
che era l’ingresso di un altro mondo e che se si fosse voltata per guardare direttamente la scena
sarebbe stata tentata di varcare la porta e quindi di abbandonare la vita. Sentiva che niente le
avrebbe impedito di varcare la soglia, ma sapeva anche che sarebbe tornata nel proprio corpo e non
sarebbe morta».

La signora infatti si riprese e fu in grado di narrare nei particolari tutto quanto era avvenuto
durante il suo svenimento, compreso il comportamento “isterico e incompetente” del medico.

A commento di questo caso Jung osserva: «Non è facile spiegare come possano verificarsi, in una
condizione di grave collasso, processi di rimemorizzazione di straordinaria intensità psichica, e
come si possano osservare a occhi chiusi eventi reali nei loro dettagli concreti. Dovremmo
aspettarci che un’anemia cerebrale così evidente pregiudicasse notevolmente, o addirittura
impedisse, proprio il verificarsi di processi psichici assai complessi».

Commento che si attaglia perfettamente anche a tutti i casi riportati.

Jung peraltro aveva un’esperienza personale e diretta di questo genere: l’aveva vissuta a 69 anni,
quando era stato colpito da infarto e l’aveva poi descritta nel capitolo “Visioni” del suo libro
autobiografico Ricordi, sogni, riflessioni raccolti ed editi dalla sua allieva e collaboratrice
Aniela Jaffé. Ecco dunque la sua esperienza, che è di particolare intensità e significato, anche dal
punto di vista delle conseguenze.

«Al principio del 1944 mi fratturai una gamba, e a questa disavventura seguì un infarto miocardico.
In stato di incoscienza ebbi deliri e visioni che dovettero cominciare quando ero in pericolo di
morte e mi curavano con ossigeno e iniezioni di canfora… Mi pareva di essere sospeso in alto nello
spazio, e sotto di me, lontano, vedevo il globo terrestre avvolto in una splendida luce azzurrina, e
distinguevo i continenti e l’azzurro scuro del mare. Proprio ai miei piedi c’era Ceylon e dinanzi a
me, a distanza, l’India. La mia visuale comprendeva tutta la Terra, ma la sua forma sferica era
chiaramente visibile e i suoi contorni splendevano di un bagliore argenteo, in quella meravigliosa
luce azzurra. In molti punti il globo sembrava colorato o macchiato di verde scuro, come argento
ossidato.

Sulla sinistra, in fondo, c’era una vasta distesa, il deserto giallo rossastro dell’Arabia: come se
l’argento della Terra in quel punto avesse preso una sfumatura di oro massiccio. Poi seguiva il Mar
Rosso, e lontano – come a sinistra in alto su una carta – potevo scorgere anche un lembo del
Mediterraneo, oggetto particolare della mia attenzione. Tutto il resto appariva indistinto. Vedevo
anche i nevai dell’Himalaya coperti di neve, ma in quella distanza c’era nebbia e nuvole. Non
guardai per nulla verso destra.

«Sapevo di essere sul punto di lasciare la Terra. Più tardi mi informai dell’altezza a cui si
dovrebbe stare nello spazio per avere una vista così ampia: circa 1500 km! La vista della Terra a
tale altezza era la cosa più meravigliosa che avessi mai visto».

Oggi che le fotografie scattate dagli astronauti nello spazio ci hanno reso familiare l’immagine del
nostro globo azzurro avvolto di nubi bianche, la visione di Jung acquista un realismo eccezionale:
nel 1944 però, quando Jung ebbe la sua esperienza, di voli spaziali non si parlava e dovevano
passare parecchi anni prima che la famosa immagine facesse il giro del mondo.

Ma l’avventura continua: sospeso nello spazio cosmico, Jung vede una pietra, una specie di
meteorite, grande come una casa, simile a certi blocchi di granito che aveva visto a Ceylon, nei
quali viene talora scavato un tempio. E anche nel “meteorite” è scavato un tempio: la porta è
incorniciata di lampade accese e a destra di essa siede, in attesa, un indù nella posizione del
loto. E qui avviene un processo interiore di liberazione e contemporaneamente di immedesimazione col
proprio bagaglio terreno: «Quando mi avvicinai ai gradini che portavano all’entrata accadde una cosa
strana: ebbi la sensazione che tutto il passato mi fosse all’improvviso tolto violentemente.

Tutto ciò che mi proponevo, o che avevo desiderato o pensato, tutta la fantasmagoria dell’esistenza
terrena, svanì, o mi fu sottratta: un processo estremamente doloroso. Nondimeno qualcosa rimase: era
come se adesso avessi con me tutto ciò che avevo vissuto e fatto, tutto ciò che mi era accaduto
intorno. Potrei anche dire: era tutto con me e io ero tutto ciò. Consistevo di tutte queste cose,
per così dire: consistevo della mia storia personale e avvertivo con sicurezza: “Questo è ciò che
sono. Sono questo fascio di cose che sono state e che si sono compiute”.

Questa esperienza mi dava la sensazione di estrema miseria e al tempo stesso di grande appagamento.
Non vi era più nulla che volessi o desiderassi. Esistevo, per così dire, oggettivamente: ero ciò che
ero stato e che avevo vissuto».

A questo punto però il processo si blocca, avviene qualcosa per cui bisogna tornare indietro:
«Mentre mi avvicinavo al tempio avevo la certezza di essere sul punto di entrare in una stanza
illuminata e di incontrarvi tutte quelle persone alle quali in realtà appartengo. Là finalmente
avrei capito – anche questo era certezza – da quale nesso storico dipendessero il mio io e la mia
vita, e avrei conosciuto ciò che era stato prima di me, il perché della mia venuta al mondo e verso
che cosa dovesse continuare a fluire la mia vita… Mentre così meditavo accadde qualcosa che
richiamò la mia attenzione. Dal basso, dalla direzione dell’Europa, fluiva verso l’alto un’immagine:
era il mio medico…

Quando quell’immagine mi fu innanzi, ebbe luogo tra noi un muto scambio di pensieri. Il mio medico
era stato delegato dalla Terra a consegnarmi un messaggio, a dirmi che c’era una protesta contro la
mia decisione di andarmene. Non avevo diritto di lasciare la Terra, dovevo ritornare. Non appena
ebbi sentito queste parole, la visione finì».

Se si considera con attenzione il racconto di Jung, non avremo difficoltà a individuare in esso
elementi che abbiamo già incontrato in vari altri casi: un’esperienza fuori dal corpo, il luogo
sacro, la dimensione diversa nella quale il protagonista agisce, una situazione di confine,
simbolizzata dal medico che fa capire che non è tempo di morire, che occorre tornare indietro; oltre
naturalmente a sensazioni di bellezza e di gioia.

Ma l’esperienza non finisce qui: durante le tre settimane che segui¬rono l’infarto, Jung ebbe
ancora, praticamente ogni notte, echi e riflessi di questa prima esperienza cosmica. Ricordando
quanto gli era stato consentito di vivere, egli scrisse di essersi sentito «come sospeso nello
spazio al sicuro nel grembo dell’ universo, in un vuoto smisurato, ma colmo di un intenso sentimento
di felicità… E impossibile farsi un’idea della bellezza e dell’intensità dei sentimenti durante
quelle visioni». E aggiunge: «Sebbene in seguito abbia ritrovato la mia fede in questo mondo, pure
da allora in poi non mi sono mai liberato completamente dall’impressione che questa vita sia solo un
frammento dell’esistenza, che si svolge in un universo tridimensionale, disposto a tale scopo…
Posso descrivere la mia esperienza solo come la beatitudine di una condizione non temporale nella
quale presente, passato e futuro siano una sola cosa».

La realtà terrena era apparsa a Jung come «una sorta di prigione, fatta per scopi ignoti, che aveva
una specie di potere ipnotico, che costringeva a credere che essa fosse la realtà, nonostante si
fosse conosciuta con evidenza la sua nullità».

Jung affermò anche che solo dopo la malattia aveva scritto le sue opere principali: le intuizioni e
le conoscenze derivate da quella esperienza gli avevano infuso «il coraggio di intraprendere nuove
formulazioni». Dopo la malattia però era avvenuta anche un’altra cosa: «Un dir di “sì”
all’esistenza, un “sì” incondizionato a ciò che essa è, senza pretese soggettive; l’accettazione
delle condizioni dell’esistenza cosi come le vedo e le intendo.

«L’accettazione della mia esistenza, proprio come essa è».

Per concludere riporto l’esperienza vissuta durante un coma dalla psicologa romana Laura Boggio
Gilot, che oltre a narrare le proprie visioni e sensazioni ha anche voluto commentare la propria
“avventura” nell’altra dimensione.

«L’esperienza di morte riguarda uno stato di coscienza “transpersonale” ovvero oltre i confini
dell’ordinaria personalità, in cui l’identità trascende il senso dell’io incapsulato nel corpo e il
contesto empirico della coscienza razionale. Nell’esperienza di morte si accede a un reame non
percepibile sensorialmente, che è essenzialmente un reame di bontà, verità e bellezza. Lo stato di
coscienza transpersonale non comporta identificazioni con limiti spaziali e temporali, in quanto
l’ambito della realtà oggettiva è sperimentato come arbitrario e la discontinuità della materia è
sperimentata come un’illusione. Nel caso personale, l’esperienza della morte è cominciata con
l’attutimento della percezione sensoriale e con la conseguente consapevolezza di morire vissuta
senza paure o emozioni particolari.

Alla consapevolezza di morire ha fatto seguito l’uscita dal corpo fisico e la visione di
quest’ultimo come un involucro distante e separato dalla coscienza. Successivamente ho sperimentato
il distacco dalle emozioni e dai pensieri, che sono apparsi come diversi “corpi” indipendenti dalla
mia coscienza. A questa esperienza ancora descrivibile è seguita un’immersione in una dimensione
ineffabile che è al di là di qualsiasi concettualizzazione e verbalizzazione. In questa fase si
sperimenta l’ingresso illimitato in una realtà trascendente che è unitaria, eterna e infinita,
essenza di bene e di conoscenza. La coscienza cosmica che ne deriva rientra nella visione unitaria,
ordinata e armonica dell’ universo e nella consapevolezza della propria appartenenza a questa
perfezione».

Quanto alle conseguenze di questo tipo di esperienza, Laura Boggio Gilot così si esprime:

«Il ritorno alla vita dopo un’esperienza di morte comporta una rivoluzione nel contesto della
conoscenza della realtà e delle motivazioni individuali. Le implicazioni del ” viaggio” oltre il
sensibile e oltre i confini dell’io sono cognitive ed etiche. Dal punto di vista cognitivo il senso
della propria identità si dilata fino a includere la realtà trascendente: questo vanifica la paura
della morte e conferisce al senso della vita il colore dell’eternità. La visione dell’esistenza
quale realtà che trascende i confini del corpo e della mente concreta porta a una modificazione dei
propri bisogni e delle proprie mete, che si indirizzano nel senso della conoscenza e del bene. A mio
giudizio, dal punto di vista di una valutazione scientifica dell’esperienza di morte, questo tipo di
consapevolezza in assenza di ordinario funzionamento cerebrale dimostra che esiste un’attività della
mente al di là dei confini organici del cervello.

Anche se le coordinate sensoriali e razionali sono cadute, la coscienza continua a esistere e si
espande a possibilità transrazionali che hanno un voltaggio assai superiore a queste ultime.

«Quello che mi sembra importante è la coincidenza, nell’esperienza di morte, tra ingresso in un
reame trans -sensibile e cognizione di perfezione e ineffabile gioia, che rende chiaro il senso
dell’interpretazione mistica dell’incontro con Dio. Credo che sia proprio questo tipo di “divino
contatto” che non permette più a una persona che “ritorna” di vivere come prima, e ineluttabilmente
fa slittare le motivazioni individuali da una posizione egocentrica a una cosmocentrica».

fonte:www.neardeath.it

Paola Giovetti

Paola Giovetti, nata a Firenze, risiede a Modena. E’ laureata in l ettere ed ha svolto attività di
insegnamento coltivando al tempo stesso l’interesse per le tematiche di confine. Da alcuni anni si
dedica esclusivamente alla ricerca e alla divulgazione in questo campo. E’ redattrice di “Luce e
Ombra”, la più antica rivista italiana di parapsicologia, e svolge anche su riviste a larga
diffusione la sua attività giornalistica. Ha partecipato a programmi radiofonici e televisivi e a
numerosi congressi, sia in Italia che all’estero.

fonte:www.macrolibrarsi.it

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