Le fondamenta del Buddhismo 13

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Le fondamenta del Buddhismo 13

di Peter Della Santina (parte tredicesima)

Tratto da: LE FONDAMENTA DEL BUDDHISMO> (INTRODUZIONE ALL’ABHIDHARMA)

LE BASI DELLA PRATICA

Per concludere, vorrei fare qualche riflessione su ciò che abbiamo discusso nei capitoli precedenti
e riferirlo a ciò che possiamo farne nella nostra vita personale, sia ora che in futuro.

Gli insegnamenti del Buddha sono vastissimi e molto profondi. Fino ad ora abbiamo trattato solo
alcuni degli insegnamenti fondamentali del Buddha e solo superficialmente. Forse a voi sembrerà
invece che abbiamo toccato molti punti e che è impossibile praticare tutto ciò di cui si è discusso.
In effetti, si dice che praticare tutti gli insegnamenti fondamentali del Buddha sia difficile
persino per un monaco che vive da eremita.

Non c’è quindi da meravigliarsi che sia difficile per dei laici come noi, che abbiamo molte
responsabilità mondane da affrontare. Tuttavia se riusciamo a coltivare e praticare sinceramente
anche solo alcuni degli insegnamenti del Buddha, avremo dato un significato più profondo a questa
vita. Inoltre è certo che ci ritroveremo in circostanze favorevoli per poter praticare il Dharma e
realizzare infine la liberazione.

Tutti possono raggiungere il traguardo supremo del buddhismo, sia i laici che i religiosi. Tutto ciò
che bisogna fare è sforzarsi onestamente di seguire l’Ottuplice Nobile Sentiero. Si dice che coloro
che hanno realizzato la verità, come il Buddha Shakyamuni e i suoi principali discepoli, non ci
arrivarono per caso. Non cadde dal cielo come la pioggia né spuntò dalla terra come dei cereali. Il
Buddha e i suoi discepoli erano state persone normali come voi e me. Erano afflitti da impurità
mentali, quali attaccamento, avversione e ignoranza. Fu solo venendo in contatto col Dharma,
purificando le loro parole e azioni, sviluppando la mente e acquistando saggezza, che essi divennero
liberi, esseri eccelsi, capaci di insegnare e aiutare gli altri a realizzare la verità. Non c’è
quindi alcun dubbio che se seguiamo gli insegnamenti del Buddha, anche noi potremo raggiungere la
meta finale.

Anche noi potremo diventare come il Buddha e i suoi principali discepoli. Non è di alcuna utilità
ascoltare o leggere il Dharma solo per scrivere articoli sul Dharma o tenere conferenze, se poi non
lo mettiamo in pratica. Coloro che si chiamano buddhisti ogni tanto dovrebbero fare il punto della
situazione e vedere se con i mesi o gli anni, la pratica degli insegnamenti del Buddha ha portato
cambiamenti nella qualità della loro esperienza (anche se solo un piccolo cambiamento), e sapranno
allora che gli insegnamenti stanno avendo effetto.

Se tutti noi mettessimo in pratica gli insegnamenti del Buddha, non c’è dubbio che ne trarremo
grandi benefici. Se cerchiamo di non fare del male a nessuno, se facciamo del nostro meglio per
aiutare gli altri in ogni possibile occasione, se impariamo ad essere consapevoli e a sviluppare la
capacità di concentrare la mente, se coltiviamo la saggezza con lo studio, con un’attenta
riflessione e con la meditazione, non c’è dubbio che otterremo un gran beneficio dal Dharma. Prima
ci porterà alla prosperità e felicità in questa vita e nella prossima. Infine ci porterà allo scopo
finale della liberazione, alla suprema beatitudine del Nirvana.

INTRODUZIONE ALL’ABHIDHARMA

Nei prossimi due capitoli discuteremo gli aspetti filosofici e psicologici del buddhismo, come sono
esposti nei sette libri dell’Abhidharma Pitaka del canone pali. Non mi soffermerò dettagliatamente
sulla lista dei fattori, o dharma, che troverete in molti competenti libri sull’Abhidharma. I miei
obiettivi invece sono tre: 1) delineare e descrivere i metodi e le caratteristiche principali
dell’Abhidharma; 2) mettere in rapporto l’Abhidharma con ciò che generalmente sappiamo degli
insegnamenti del Buddha 3) collegare la filosofia dell’Abhidharma con la nostra situazione di
buddhisti laici.

Durante tutta la storia del buddhismo, l’Abhidharma è stato tenuto in gran conto. Per esempio nel
canone pali si parla dell’Abhidharma con parole di lode e di rispetto particolari, e si considera
che solo i monaci anziani ne siano degni; ai novizi viene addirittura proibito di interrompere gli
anziani quando stanno discutendo dell’Abhidharma.

E’ stato scritto anche che l’Abhidharma è raccomandato solo a quelli che si sforzano sinceramente di
realizzare lo scopo della pratica buddhista e la sua conoscenza è essenziale per i maestri del
Dharma. Questo rispetto per l’Abhidharma si trova non solo nella tradizione Theravada ma anche nelle
altre grandi tradizioni buddhiste.

Per esempio Kumarajiva, il grande traduttore centro-asiatico famoso per la traduzione degli scritti
Madhyamaka in cinese, affermava che se voleva insegnare la filosofia buddhista ai cinesi, avrebbe
dovuto cominciare con l’Abhidharma. Anche nella tradizione tibetana l’Abhidharma è una parte
importante della pratica monastica.

Come mai l’Abhidharma è tenuto in così alta considerazione? La ragione principale è che la
conoscenza dell’Abhidharma, nel senso generale di comprendere l’insegnamento ultimo, è assolutamente
necessaria per realizzare la saggezza, che a sua volta è necessaria per ottenere la liberazione. Per
quanto uno mediti e conduca una vita virtuosa, non può raggiungere la liberazione senza l’intuizione
profonda della vera natura delle cose.

La conoscenza dell’Abhidharma è necessaria per applicare ad ogni esperienza della vita quotidiana
l’intuizione sull’impermanenza, impersonalità e insostanzialità, acquisita dalla lettura del Sutra
Pitaka. Tutti possono avere un’idea dell’impermanenza, impersonalità e insostanzialità leggendo il
Sutra Pitaka, ma quante volte applichiamo alla nostra vita quotidiana questa momentanea verità
intellettuale? Il sistema di insegnamento dell’Abhidharma ci fornisce il meccanismo per farlo.
Quindi lo studio dell’Abhidharma è estremamente utile anche per la pratica.

Consideriamo ora l’origine e l’autenticità dell’Abhidharma. La scuola Theravada sostiene che la
fonte della filosofia dell’Abhidharma è il Buddha e fu lui il primo maestro di Abhidharma perché la
notte della sua illuminazione penetrò l’essenza dell’Abhidharma. Secondo la tradizione, il Buddha
passò le quattro settimane dopo la sua illuminazione a meditare sull’Abhidharma. E’ la settimana
chiamata la “Casa delle Gemme”. Più tardi si dice che il Buddha sia andato nel paradiso dei
Trentatré, dove stava sua madre e insegnò l’Abhidharma a lei e agli dei. Si dice ancora che quando
tornò in terra trasmise a Sariputta le basi dell’insegnamento, e questo non per caso, dato che
Sariputta era il suo discepolo principale, famoso per la sua saggezza.

Perciò in generale si sostiene che si deve far risalire al Buddha l’ispirazione per l’insegnamento
dell’Abhidharma. Questa ispirazione passò ai suoi discepoli che avevano propensione per la
filosofia, come Sariputta, e fu attraverso gli sforzi di questi discepoli intelligenti che furono
definite le linee generali e il contenuto della filosofia dell’Abhidharma.

Esaminiamo ora il significato del termine Abhidharma. Analizzando attentamente il Sutra Pitaka
troviamo che questo termine ricorre spesso, di solito nel senso generale di “meditazione sul
Dharma”, “Istruzioni sul Dharma” o “Discussione sul Dharma”. In senso più specifico, Abhidharma
significa “Dharma speciale”, “Dharma superiore” o “Dharma avanzato”. Naturalmente usiamo qui la
parola Dharma nel senso di dottrina o insegnamento e non nel senso di fenomeno o fattore di
esperienza (nel qual caso la D sarebbe minuscola).

C’è anche un senso più tecnico in cui Abhidharma è usato nel Sutra Pitaka e in questo contesto
dharma non ha più il significato di dottrina in generale, ma di fenomeno. Questo uso tecnico è
legato alla funzione di distinguere. L’uso tecnico del termine Abhidharma ha cinque aspetti o
significati: a) definire i dharma; b) stabilire i rapporti tra i dharma; c) analizzare i dharma; d)
classificare i dharma e e) sistemare i dharma in ordine numerico.

Il canone buddhista è diviso in tre raccolte (letteralmente “cesti”): il Sutra Pitaka, Vinaya Pitaka
e Abhidharma Pitaka. Ci si riferisce generalmente al Sutra Pitaka come al Cesto dei Discorsi, mentre
il Vinaya Pitaka contiene le regole della comunità monastica e l’Abhidharma Pitaka è ritenuto la
raccolta della filosofia e psicologia buddhiste.

Vorrei ora esaminare il rapporto tra l’Abhidharma Pitaka e il Sutra Pitaka. In quest’ultimo vi è
molto materiale abhidharmico. Tenendo presente la definizione tecnica di Abhidharma data
precedentemente, troviamo che il Sutra Pitaka contiene molti discorsi di carattere abhidharmico: per
esempio, l’Anguttara Nikaya presenta un’esposizione degli insegnamenti sistemati per ordine
numerico; il Sangiti Sutta e il Dasuttara Sutta contiene l’esposizione di Sariputta degli
insegnamenti messi in ordine numerico, e l’Anupada Sutta è un discorso in cui Sariputta analizza la
sua esperienza meditativa usando termini abhidharmici.

Come distinguiamo allora l’Abhidharma dai Sutra? Per far ciò dobbiamo considerare il secondo
significato del termine Abhidharma, cioè “dottrina superiore”. Nei sutra il Buddha parla da due
punti di vista. Nel primo parla di esseri, oggetti, qualità e proprietà degli esseri, del mondo,
spesso con affermazioni quali “Io stesso andrò a Uruvela”. Nel secondo, il Buddha proclama in chiari
termini che non esiste un “io” e che tutte le cose sono prive di individualità, di sostanza, ecc.

Ovviamente le due prospettive d’osservazione sono quella convenzionale (vohara) e quella ultima
(paramattha). Nel linguaggio quotidiano usiamo “tu”, “io” e poi abbiamo il linguaggio
tecnicofilosofico che non prevede un’individualità, degli oggetti, ecc. Questa è la differenza tra i
contenuti dei sutra e i contenuti dell’Abhidharma degli insegnamenti del Buddha. Generalmente i
sutra usano la prospettiva convenzionale mentre l’Abhidarma usa quella ultima. Tuttavia nei sutra ci
sono dei passaggi che descrivono l’impermanenza, l’impersonalità e l’insostanzialità, gli elementi e
gli aggregati, e quindi riflettono la visuale ultima.

In questo contesto vi è anche un’ulteriore divisione dei testi: quelli il cui significato è
esplicito e diretto e quelli il cui significato è implicito e indiretto. Perché il Buddha ricorse a
queste due prospettive, la convenzionale e l’ultima? Per avere una risposta, teniamo conto della sua
eccellenza come maestro e della sua abilità a scegliere i giusti metodi di insegnamento. Se il
Buddha avesse sempre parlato ai suoi ascoltatori in termini di impermanenza e insostanzialità, di
elementi ed aggregati, non credo che la comunità buddhista sarebbe cresciuta con la velocità che
ebbe nel VI secolo a.C..

Allo stesso tempo il Buddha sapeva che il punto di vista ultimo era indispensabile per comprendere
pienamente il Dharma e perciò il suo insegnamento contiene anche un linguaggio specifico per
esprimere la prospettiva ultima.

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