Le fondamenta del Buddhismo 15

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Le fondamenta del Buddhismo 15

di Peter Della Santina (parte quindicesima)

Tratto da: LE FONDAMENTA DEL BUDDHISMO> (INTRODUZIONE ALL’ABHIDHARMA)

METODOLOGIA

In questo capitolo discuterò i metodi attraverso i quali l’Abhidharma esamina la nostra
individualità e i nostri rapporti con il mondo esterno. Ci sono due modi per descrivere una data
persona e i suoi rapporti con il mondo intorno a lei: deduttivo e induttivo. Il metodo razionale o
deduttivo comincia con un’idea astratta e applica questa idea alla propria esperienza. Il metodo
empirico induttivo comincia con i fatti che incontriamo nell’esperienza; osservandoli e
analizzandoli, interpretandoli e comprendendoli, costruiamo una immagine di noi e del mondo intorno.
In altre parole il metodo razionale comincia con l’astratto e cerca di applicarlo al concreto,
mentre il metodo induttivo parte dal concreto e costruisce un’immagine della realtà in modo graduale
e progressivo.

Il metodo induttivo, che è quello usato nell’Abhidharma è molto vicino al metodo scientifico, ma
mentre nella scienza il punto da cui parte il processo induttivo è esterno, nell’Abhidharma questo è
interno, nella mente. E’ per questo che talvolta il metodo abhidharmico è chiamato anche
introspezione o, per usare un termine tradizionale, meditazione.

Quando diciamo che il metodo abhidharmico è empirico e induttivo, significa che ha a che fare
soprattutto con le esperienze mentali. Si dice che la meditazione sia come un microscopio interno o
mentale: è un modo per indagare da vicino i fatti dell’esperienza. E’ un metodo che porta risultati
perché riesce, attraverso la meditazione a rallentare i processi mentali fino a che riusciamo a
vederli e a osservarli.

A questo proposito c’è un evidente parallelismo tra il metodo abhidharmico e quello scientifico.
Nella scienza, quando vogliamo scoprire come ha luogo una certa trasformazione, rallentiamo o
acceleriamo il processo. Anche nella meditazione abhidharmica possiamo rallentare i processi mentali
sino a che siamo in grado di vedere veramente cosa sta accadendo, o possiamo anche accelerarli. Se
potessimo vedere la nostra vita dalla nascita alla morte nel giro di cinque minuti, ci darebbe una
grande comprensione penetrativa nella natura della vita. Però, siccome questo in genere non è
possibile, rallentiamo tutto. Questa è la base della meditazione abhidharmica.

Di primo acchito le liste di fattori mentali e altre cose, nei vari libri dell’Abhidharma, possono
sembrare tediose e astratte, ma in effetti non sono che il risvolto scritto dei fatti reali
dell’esperienza, che si ricavano da questa accurata indagine. Ben lontano dall’essere astratto,
l’Abhidharma è il risultato di una accurata analisi introspettiva dell’esperienza. Detto questo, uno
può domandarsi quale sia lo scopo dello studio dell’Abhidharma, ritenendo che è senz’altro meglio
sedersi in meditazione e vivere l’esperienza abhidharmica della realtà in prima persona, meditando.
Questo in un certo senso è vero, ma in tutti gli aspetti dell’insegnamento buddhista, ci vuole sia
la conoscenza diretta che indiretta. Il quadro che ricaviamo, analizzando l’esperienza attraverso la
prospettiva abhidharmica dei quattro elementi, è certamente più efficace e più chiaro di quello che
potremmo avere con la sola meditazione. Ma anche se è un quadro indiretto ottenuto con lo studio, ci
è tuttavia molto utile, perché quando ci sediamo a meditare abbiamo già una certa conoscenza
intellettuale dei tratti essenziali del quadro, su cui cerchiamo di fissare l’attenzione. In questo
senso lo studio dell’Abhidharma è utile nel darci una indiretta conoscenza di noi stessi e del mondo
intorno a noi, in termini abhidharmici.

L’indagine abhidharmica funziona in due modi: attraverso l’analisi e attraverso la sintesi o
relazione. La struttura di base di questi due metodi viene esposta rispettivamente nel primo e
nell’ultimo dei libri dell’Abhidharma Pitaka, il Dhammasangani (classificazione dei fattori) e il
Patthana (libro delle relazioni causali). Sono i due libri più importanti dell’Abhidharma, poiché è
attraverso il metodo analitico e sintetico o relazionale che l’Abhidharma arriva alla comprensione
fondamentale del non sé e vacuità.

Consideriamo prima il metodo analitico e poi quello relazionale; e infine combiniamo i due in modo
da raccogliere tutti i risultati a cui arriva il metodo di indagine abhidharmico. Nel libro “Le
domande del Re Milinda” (Milinda panha) Nagasena, in risposta alle domande del re Milinda dice che
il Buddha ha compiuto un’opera molto difficile: “Se un uomo andasse in alto mare con una barca e
prendesse un po’ d’acqua e fosse in grado di dire che quelle gocce provengono dal Gange, queste
dallo Yamuna e queste altre da altri grandi fiumi dell’India, avrebbe compiuto un’opera veramente
difficile. Allo stesso modo il Buddha ha analizzato ogni singolo momento di esperienza cosciente
(per esempio, l’esperienza del vedere una forma), nelle sue varie componenti: materia, sensazione,
percezione, volizione e coscienza”. L’analisi è la dissezione di un tutto apparentemente unitario e
omogeneo nelle sue componenti. Questa analisi si può applicare non solo al sé (come nell’analisi
dell’esperienza personale), ma anche agli oggetti esterni: come scomponiamo la persona in cinque
aggregati, così possiamo suddividere i fenomeni esterni nelle sue componenti. Per esempio possiamo
suddividere un tavolo in gambe, ripiano, ecc. e addirittura nelle molecole e atomi dei vari elementi
che compongono il tavolo.

Lo scopo di dissezionare un insieme apparente è di sradicare l’attaccamento ai fenomeni esterni ed
interni. Quando riconosciamo che questo sé, apparentemente omogeneo, non è che una massa di
componenti, si indebolisce l’attaccamento all’idea del sé. Allo stesso modo, quando capiamo che
anche i fenomeni esterni non sono che raggruppamenti di componenti singole più piccole, si
indebolisce l’attaccamento agli oggetti esterni. Cosa otteniamo alla fine di questo processo
analitico? Internamente abbiamo solo momenti di coscienza; esternamente solo atomi. Se li
consideriamo insieme, abbiamo solo elementi o fattori di esperienza.

Gli elementi mentali e materiali dell’esperienza non ci portano, di per sé, alla comprensione della
realtà ultima, perché abbiamo solo momenti di coscienza e atomi di materia, cioè gli elementi
dell’esperienza, che rimangono irriducibili per quanto uno li scomponga. Come risultato di questa
dissezione, arriviamo a vedere particelle sempre più piccole e il quadro della realtà spezzettato in
particelle sempre più minute. E di per sé questo non è un quadro preciso e completo della realtà.
Per arrivare ad avere un quadro completo dobbiamo usare l’approccio analitico insieme a quello
sintetico e relazionale. Per questo il grande maestro e santo buddhista Nagarjuna espresse la sua
stima reverenziale verso il Buddha, chiamandolo il “maestro dell’Origine interdipendente”. La verità
dell’Origine interdipendente pacifica e calma l’agitazione delle costruzioni mentali. Ciò indica
quanto sia importante vedere la relazione, l’interdipendenza o condizionalità delle cose, per
poterne capire la vera natura. E’ per questo che gli studiosi ritengono che il “Libro delle
Relazioni Causali” costituisca l’altra metà del metodo abhidharmico di indagine. Come, attraverso
l’analisi, arriviamo all’insostanzialità delle persone e fenomeni (perché vediamo che sono fatti
solo di componenti), così attraverso il processo di indagine relazionale, arriviamo alla vacuità
delle persone e dei fenomeni (perché vediamo che le loro parti costituenti sono condizionate e in
relazione una con l’altra). Arriviamo quindi all’insostanzialità e alla vacuità concentrando
l’attenzione sugli insegnamenti dell’origine interdipendente.

Possiamo vedere come le parti componenti una certa cosa (che sia l’individualità o un oggetto
esterno) dipendano le une dalle altre per la loro stessa esistenza. Per esempio, in un certo
fenomeno come un tavolo, apparentemente unitario, ci sono molte componenti (gambe, ripiano, ecc.)
che dipendono le une dalle altre per esistere come parti di un tavolo. Anche il tavolo dipende da
cause precedenti (il legno, il ferro, l’opera dell’artigiano che li ha messi insieme, ecc.) e da
condizioni prossime (come il pavimento che lo sostiene).

Possiamo esplorare ulteriormente l’idea di interdipendenza in rapporto alle tre dimensioni di tempo,
spazio e karma. Per esempio, in termine di tempo, il tavolo dipende da una serie di eventi che
avvennero prima che il tavolo esistesse: il taglio del legno, la costruzione del tavolo, ecc. In
termini di spazio il tavolo dipende dal pavimento che lo sostiene, ecc. La terza dimensione della
condizionalità opera al di là dello spazio e del tempo. La si spiega con il karma, perché gli
effetti del karma si manifestano nel tempo e nello spazio, ma non lo si vede in essi. A causa del
karma, un’azione compiuta lontano nel tempo e nello spazio può avere effetto qui e ora. Quindi
possiamo dire che la condizionalità non ha solo una dimensione temporale e spaziale, ma anche
karmica. Vorrei fare due esempi per rendere meglio ciò che intendo per approccio analitico e
relazionale. Prendiamo un carro, che è un fenomeno, un’entità identificabile. Applicando il metodo
analitico, dividiamo il carro nelle sue componenti: ruote, asse, carrozzeria, stanga, ecc.
Applicando invece il metodo sintetico vedremo il carro in termini di legname, di opera dei
costruttori, ecc. Oppure possiamo prendere il classico esempio della fiamma in una lampada ad olio,
che dipende dall’olio e dallo stoppino; oppure quello del germoglio che dipende dal seme, dalla
terra, dal sole, ecc.

Il metodo analitico insieme a quello relazionale dà un quadro finale delle cose così come sono.
Questa descrizione ultima è il prodotto di un’accurata indagine. Usiamo il metodo analitico per
dividere nelle loro componenti le cose che sembrano un tutto unico; poi usiamo il metodo relazionale
per mostrare che queste parti non esistono indipendenti e separate, ma dipendono, per la loro
esistenza, da altri fattori.

In molti insegnamenti del Buddha questi due metodi sono usati singolarmente e poi combinati insieme.
Per esempio applichiamo la coscienza prima ai fenomeni interni, poi a quelli esterni, e infine sia a
quelli interni che esterni. In tal modo, usando analisi e relazione insieme, risolviamo molti
problemi. Non solo superiamo l’idea di un sé, di una sostanza o individualità, ma anche i problemi
sorti dal credere nell’esistenza indipendente di fattori e idee distinte, come esistenza e non
esistenza, identità e differenza.

Possiamo vedere che anche la chimica del cervello riflette i due approcci, analitico e sintetico. I
neurologi hanno scoperto che il cervello è diviso in due emisferi, uno che ha funzione analitica e
l’altro sintetica. Se queste due funzioni non sono in equilibrio armonico, vi sono disturbi di
personalità. Una persona troppo analitica tende a trascurare gli aspetti della vita più fluidi,
intuitivi, dinamici, mentre quella troppo relazionale può mancare di precisione, di chiarezza, di
concentrazione.

Ciò dimostra che è bene combinare insieme il pensiero analitico e sintetico, anche nella nostra vita
personale. La dimensione psicologica e quella neurologica di questi due approcci sono evidenti anche
nello sviluppo della filosofia e della scienza occidentali.

Quelle filosofie in cui l’approccio analitico è predominante risultano in sistemi positivisti,
pluralisti e atomistici come la filosofia di Bertrand Russell. Mentre invece nello sviluppo
scientifico più recente, come nella teoria dei quanta, vediamo che sta imponendosi una visuale della
realtà più relazionale. Se diamo una scorsa alla storia della filosofia e della scienza in
Occidente, vediamo che uno di questi due approcci è stato sempre alternativamente dominante.

Forse è arrivato il momento in cui possiamo combinare i due approcci anche nella scienza e filosofia
occidentali. Forse potremo arrivare a una visuale della realtà non molto diversa da quella a cui
giunge l’Abhidharma, attraverso l’esperienza della meditazione introspettiva, una visione della
realtà che è sia analitica (in quanto respinge l’idea di un tutto omogeneo) che relazionale (in
quanto respinge l’idea di frammenti di realtà indipendenti e separati). Avremmo allora una visuale
ampia e fluida della realtà, in cui le esperienze sature di sofferenza possono venire dinamicamente
trasformate in esperienze libere dalla sofferenza.

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