Le fondamenta del dharma: le 4 Nobili Verità 2f
La mente custodita
di Corrado Pensa
(seconda parte e fine)
Pertanto non si tratta solo di riconoscere e vedere, si tratta
altresì di vedere pienamente e affettuosamente, di comprendere,
di non alimentare e di lasciare andare la nostra contrazione.
Tutto questo non è facile, perché l.abitudine al disappunto
e al giudizio per il disappunto è molto forte, a tal segno
che – se non abbiamo sviluppato l’ottica della pratica -. essi
appaiono come un corpo unico, e non due momenti distinti e
separati.
Attraverso la pratica abbiamo invece l’opportunità di
imparare a distinguere questi due momenti : il disappunto e il
giudizio per il disappunto – e di lavorare ciò che è lavorabile,
ossia in particolare la reazione giudicante al disappunto. Poco,
infatti, possiamo fare sul moto di disappunto una volta arrivato,
mentre di più, molto di più, possiamo fare sulla reazione
ad esso. Proprio questa infatti costituisce il dukkha più insidioso,
giacché ,pensandolo come un tutt’.uno con l’accadimento,
ossia con il disappunto, non lo vediamo, bensì, semplicemente,
lo subiamo.
È questo un processo molto potente, soprattutto perché
molto veloce e abitudinario; ed è per questo che occorre un
tirocinio continuo per potersi porre davanti a tutto ciò nel
modo giusto. Come dice il Buddha:
“Ciò che è coperto marcisce, ciò che è svelato non marcisce,
perciò scoprite ciò che è coperto affinché esso non marcisca.
Udána, 5,5. 7″
Inoltre il riconoscimento e la comprensione di dukkha,
del disagio, ci rendono più forti. Il che è esattamente l’opposto
di ciò che insinua il nostro orgoglio, ossia che il riconoscimento
delle nostre debolezze, delle sofferenze, delle ottusità ci
rende più deboli, non solo davanti agli altri ma anche davanti a
noi stessi. Donde la diffusa strategia di far finta di niente, di
negare. Strategia che, in apparenza, sembra la cosa migliore,
mentre, invece, lavora attivamente alla nostra debilitazione
interiore.
Tra l’altro non vediamo molti dei disagi coperti anche
perché essi sono comuni e condivisi: e , secondo una famosa
immagine di R. Laing , se è un.intera formazione di aerei a
sbagliare rotta chi se ne accorge? È dunque una sorta di cecità
comune. E proprio in quanto comune e condivisa, anche
tranquillizzante. sotto certi punti di vista. Perché se nessuno
cambia . anche se non cambiare significa rimanere nel disagio
e nella sofferenza . nessuno in qualche modo metterà in
discussione la strada comune e condivisa e quindi nessuno ci
chiederà di cambiare.
Cambiare, infatti, fa paura così come
veder cambiare: in ultima analisi ciò che fa paura è abbandonare
un.abitudine. Perché l’abitudine . appunto in quanto abituale!
è tranquillizzante, e ad essa (anche per questo) attribuiamo
generalmente un gran valore.
Da questo comune non vedere, da questa cecità collettiva
e condivisa deriva forse quello che si legge nei Vangeli:
“Quanto è stretta la porta e angusta la via che porta alla vita, e
quanto pochi sono quelli che la trovano.
Matteo 7,13-14″
Proprio perché bisogna fare i conti con l’opinione comune
che si annida anche dentro di noi. Di questa opinionececità
comune fanno parte tra l’altro le nostre reazioni a brani
di questo genere, reazioni che possono prendere forme opposte
tra loro, come ad esempio:”..figurati se io appartengo a quei
pochi che prendono la via!., oppure, al contrario: .”…io, abituato
a stare sempre nel drappello dei primi, ci starò sicuramente!..”
Eppure non possiamo saperne assolutamente nulla. La cosa
che conta è lavorare, il resto è speculazione.
RICONOSCERE LA SOFFERENZA, OVVERO L’IMPORTANZA DEL VEDERE
Metterci in contatto con ciò che è vero, scoprire ciò che è
coperto, non solo costituiscono un passo fondamentale ma
sono anche un elemento di sollievo, perché rappresentano la
garanzia di un lavoro buono, non ingannevole; sono pertanto
una promessa di ciò che è contrario al disagio, di ciò che è
opposto alla sofferenza, e sono una promessa molto realistica,
molto concreta. Si tratta però di .fare pulizia.: cittabhávaná, il
nome in lingua páli di meditazione, significa proprio coltivazione
della mente-cuore, purificazione della mente-cuore perchè
al posto del disagio ci sia agio. Il lavoro di riconoscimento
della sofferenza si compie in virtù della quarta nobile verità,
ossia in virtù degli strumenti a disposizione, a cominciare dalla
meditazione, intesa sia come meditazione formale sia come
consapevolezza e osservazione affettuosa nella vita di tutti i
giorni.
Attraverso questo lavoro, abbiamo la possibilità di
cominciare a riconoscere la sofferenza e le sue cause (attaccamento,
avversione, paura, ignoranza), fino a quando ad un
certo punto comincia a prendere corpo uno spostamento, una
virata: ossia cresce l’interesse per lo strumento, per la lente,
per la consapevolezza, cresce l’interesse per il vedere e decresce,
invece, l’abituale e ipnotico interesse per i contenuti del
vedere.
Quando, all.inizio, in virtù della consapevolezza e del’attenzione,
cominciamo a cogliere i nostri contenuti mentali,
visivi e uditivi, essi tendono a catturare completamente il
nostro interesse.
Ma tale interesse rischia di trasformarsi in una
sorta di .coinvolgimento ruminante.; infatti, dopo il lampo di
consapevolezza che ci permette di vedere, per esempio, un
nodo di paura, l’attenzione spesso decade, la consapevolezza
scompare e cominciamo a essere coinvolti (impigliati, si direbbe)
nella proliferazione mentale intorno a quel nodo di paura,
proliferazione che semplicemente ingrossa il nodo stesso. Se,
a questo punto, si conclude che la cosa più importante è ciò
che vediamo e non la capacità di vedere, ciò significa che
siamo completamente usciti fuori dai binari della pratica. Ma
quando il lampo di consapevolezza non si spegne immediatamente,
allora cominciamo a renderci conto meglio di questa
presenza, di questa dimensione consapevole che placa e schiarisce
la mente.
Cosicché l.interesse, gradualmente, si sposta da
quello che vediamo e sentiamo alla possibilità (straordinaria,
ma data per scontata) di vedere e di sentire. Questo trasferimento
di interesse avviene anche in virtù di una salutare stanchezza
rispetto alla ripetitività dei nostri contenuti mentali e
della nostra abitudine a girarci intorno, raccontandoci le stesse
vecchie storie di sempre. Ed è proprio grazie allo strumento
della consapevolezza, alla possibilità cioè di vedere, che la
stanchezza non si tramuta in amarezza.
Vedere senza giudicare, osservare affettuosamente e tranquillamente
i contenuti della nostra mente, sentire quanto la
proliferazione intorno ad essi non porti alcun giovamento:
questi sono tutti elementi fondamentali perché diminuiscano
il desiderio e l’interesse ad alimentare e ingrossare i contenuti
del vedere, a vantaggio di un apprezzamento sempre più concreto
e reale della capacità stessa di vedere.
.LA MENTE CUSTODITA PORTA GIOIA.
Si tratta di una grande crescita, una crescita fondamentale
che, al contrario delle abitudini che sono automatiche e
velocissime, si realizza lentamente e gradualmente. Esiste
pertanto una disparità: Mára è fulmineo, la crescita è lenta e
graduale. Nonostante ciò, la lentezza smette di essere un fardello
nel momento in cui ci si rende conto che, di fatto, la
crescita avviene. E da ciò deriva e si rinsalda la motivazione
che è, per universale consenso, la chiave di volta del lavoro
interiore.
In una delle scritture più antiche, il Dhammapada, si
legge:
“La mente tremante, in continuo movimento, difficile da proteggere,
difficile da tenere a freno, il saggio mette in linea come
l.’arciere un dardo”
ossia in linea con la massima salutarità, salvezza, liberazione.
E ancora:
“È difficilmente visibile, è estremamente sottile la mente, vola
via a suo piacimento; il saggio, il praticante, la praticante,
deve proteggere la mente. La mente custodita porta gioia.”
La buona notizia è che c’è la possibilità di una mente
custodita, protetta, curata. Perseguire la gioia lasciando la
mente allo stato brado è un.illusione, perseguirla con la mente
custodita e curata grazie alla pratica è una realtà. La pratica
infatti ci aiuta e ci insegna, in particolare e specificamente, a
custodire e proteggere la mente-cuore per permetterle di
manifestarsi in tutta la sua capacità.
E, a proposito di .capacità.interiore, viene in mente quella
affermazione propria della spiritualità cristiana:
“homo capax Dei.”
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