Di Gino Ditadi
INDUISMO
Un’esposizione ragionata delle credenze e pratiche relative delle centinaia di sette indù
richiederebbe più di un volume e almeno uno di cinquecento pagine riguardo al rapporto
religione-mondo animale. Poiché la delineazione di tale rapporto comporta problemi analoghi a quelli
che pone una foresta a un esperto naturalista, mi limiterò a fornire alcuni lineamenti fondamentali.
Oggi l’induismo è una fede abbracciata da oltre 700 milioni di persone, diffusa in 84 Paesi.
Seicento milioni sono cittadini indiani, ma comunità induiste importanti sono in Bangladesh, Sri
Lanka, Bhutan, Isole Mauritius (Africa), Guyana, Trinidad (America Latina), Isole Figi (Oceania). Si
contano inoltre 600 000 induisti negli Stati Uniti e 400 000 in Gran Bretagna.
L’induismo ha origini non chiaramente definite, ma in ogni caso molto antiche. Ci sono non poche
discordanze tra gli studiosi nello stabilire una cronologia attendibile; quasi tutti sono però
concordi nel ritenere che l’induismo è il risultato di un’evoluzione della religione
vedico-brahmanica, fortemente legato al culto della natura, e la cui formazione è databile intorno
al 1500-1200 a.C.
In questo periodo fu scritto infatti il Rig Veda, che è la nostra fonte più antica. Altra fonte
importante è la Bhagavad Gita, quotidianamente recitata a memoria da milioni di indù di ogni culto.
Al pari dei Germani descritti da Tacito, i primi indù non conoscevano né templi né immagini del
divino. Praticavano i loro riti in luoghi consacrati nelle foreste, nei boschi, presso fonti
d’acqua.
Il passaggio da una società libera alla divisione sociale e all’accaparramento delle risorse della
terra portarono presto alla nascita delle caste e quindi di divinità antropomorfe con caratteri
umani. Il Mahabharata ci mostra dèi e dee intossicati dalla brama del potere, dalla sete di dominio,
gelosi, sensuali, combattivi, eccetera, come del resto fa l’Iliade.
G. Dumézil, che ha studiato l’organizzazione sociale degli antichi indù ritenendo che essa sia stata
la manifestazione più sviluppata del modello originario indoeuropeo, afferma che la struttura di
quella società era tripartita: sacerdoti, guerrieri, popolo lavoratore. (La struttura della società
europea feudale era analogamente tripartita in oratores, bellatores, laboratores.)
A questa società tutta terrestre corrisponde un Pantheon, ovvero la società degli dèi, egualmente
divisa in tre classi: gli dèi sovrani che controllano il mondo con i loro poteri straordinari, gli
dèi guerrieri che combattono i demoni o gli uomini che non si sottomettono a loro e gli dèi
‘economisti’ che assicurano la continuità delle specie viventi e presiedono alle attività
economiche. Questo schema è facilmente rintracciabile in tutte le società indoeuropee a Oriente e ad
Occidente, con una esatta corrispondenza tra Pantheon e struttura sociale.
Un millennio fa il dottissimo musulmano Alberuni scriveva:
«La fede degli individui istruiti differisce sempre da quella degli individui non istruiti in ogni
nazione; la prima spinge a concepire idee astratte e a definire principi generali, mentre la seconda
non va oltre le percezioni sensibili. […]
Gli indù credono che Dio è uno, eterno, senza principio e senza fine, assolutamente libero
nell’agire, onnipotente, onnisciente, vivente, donatore della vita, reggitore, conservatore, unico
signore o sovrano, al di sopra di ogni similitudine o divergenza, che non rassomiglia a nulla e a
cui nulla può rassomigliare […] Questo è ciò che la gente istruita crede di Dio […]
Se però si passa dai concetti degli indù istruiti a quelli della gente comune, si è costretti ad
ammettere che essi presentano una grande varietà. Alcuni sono semplicemente abominevoli, ma errori
del genere si incontrano anche presso altre religioni».
La grande varietà del rapporto con il divino sottolineata da Alberuni era già presente nel I e III
secolo d.C. Il neopitagorico Apollonio di Tiana, uno dei grandi teosofi difensori del mondo animale,
volle incontrare nei suoi viaggi importanti Brahmini con i quali ebbe scambi di opinioni «circa gli
dèi, la natura e i viventi».
«La terra produce ogni cosa e chi vuole essere in pace con gli esseri viventi non ha bisogno di
nulla, poiché i suoi frutti si possono cogliere e altri coltivare secondo le stagioni, in quanto
essa è la nutrice dei suoi figli; ma la gente, come se non udisse le sue grida, affila le spade
contro gli animali per trame vestimento e cibo. I Brahmani dell’India invece non approvano tale
condotta.» (Filostrato Vita di Apollonio, VIII, 7.)
Anche il filosofo Porfirio di Tiro afferma che presso gli indù «quelli che abitano sulle montagne si
cibano di frutta e di latte coagulato con erbe, quelli che vivono lungo il fiume Gange di frutta e
di ciò che cresce in abbondanza presso il fiume. La terra produce quasi costantemente frutti e anzi
dà anche riso spontaneamente e in abbondanza, che viene usato quando mancano i frutti. Lassaggiare
qualcos’altro o il toccare cibo tratto da esseri animati è ritenuto presso di loro pari a un atto di
empietà e impurità estrema» (Porfirio De Abstinentia, IV, 17).
È probabile che le testimonianze di Apollonio di Tiana (I secolo d.C.) e Porfirio (III secolo d.C.)
siano da riferirsi a un induismo diverso da quella religione che era rigido specchio dell’ordine
sociale stratificato in caste. È probabile che gli indù di Apollonio e Porfirio fossero più vicini
al vecchio modello di vita indicato nelle Upanishad che a quella sorta di pratica giustificazione
dello statu quo che sembrava già essere l’induismo quale espressione diretta della divisione
sociale.
Latteggiamento dell’uomo, nei riguardi del mondo animale è sempre stato lo specchio del livello di
sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e così l’atteggiamento nei riguardi del divino. A ogni
filosofia della storia corrisponde non solo una filosofia, ma anche una teologia della natura e,
conseguentemente, parallele vie di liberazione. Ciò vale anche per l’induismo.
Un sommario esame della divisione sociale in caste ci conduce al rapporto con gli dèi e con le
bestie nella loro opposizione, ma in ogni caso utili entrambi alla salvezza dell’uomo.
La casta più elevata tra gli indù è quella dei Brahmani, dei Sacerdoti. La seconda, ma che in
origine era la prima, è quella dei Ksatriya, dei nobili, dei guerrieri (il braccio armato dei
Brahmani). La terza è quella dei Vaisya, costituita da quanti proprietari, si occupano di
agricoltura, commercio, allevamento del bestiame, di attività economiche in genere.
Al di sotto di queste tre articolazioni sociali e religiose (per l’indù non vi è separazione tra
religione e struttura socio-politica), vi sono le masse dei lavoratori comuni non proprietari: i
Sudra, divisi in centinaia di sottocaste fino ai cosiddetti intoccabili, i Parayar, i paria, i
fuoricasta, gli impuri che occupano il gradino più basso della scala sociale e religiosa.
Originariamente questi ultimi erano gli ‘addetti ai tamburi funerari’, preparavano i cadaveri per i
riti. Tutte le professioni che hanno a che fare con nascite e morti umane o animali, quindi
ostetriche, infermieri, veterinari, conciatori di pelli, giustizieri, crematori, macellai, eccetera,
occupano l’ultimo gradino (prima delle bestie) per ragioni, si crede, legate a colpe compiute nelle
vite precedenti. Lindù crede infatti nella trasmigrazione delle anime.
«I saggi vedono la stessa anima in un Brahmano dotato di sapienza e di umiltà, in una vacca, in un
elefante e un cane», si legge nella Bhagavad Gita. La trasmigrazione è un fatto reale che presuppone
un’azione etica. .
Mentre per Platone l’idea della trasmigrazione è un simbolo consolante quale stimolo religioso al
compimento di azioni etiche, per l’indù non è solo una realtà, è una tremenda realtà. Lanima
percorre un ciclo di innumerevoli esistenze e deve passare attraverso un enorme cumulo di sofferenze
e di esperienze della morte dei corpi dei quali è prigioniera. Lanima errante conosce tutte le
angosce di ogni nascita e il dilaniamento di ogni morte.
Per il credo indù una sola vita ci infligge abbastanza dolori per sentircene, alla fine, stanchi.
Come ci sentiremo dopo 1500 o 4000 vite? Dice un canto indù (raccolto da E. Gover nel 1884):
«Quante nascite sono passate non posso dire, quante ancora dovranno passare nessuno può sapere: solo
questo io so, e so purtroppo bene: che i dolori e le afflizioni rendono amara tutta la vita e ogni
vita».
Nella trasmigrazione lanima non si incarna a caso, ma in rapporto alla vita precedente. Qualora la
nostra condotta sa stata particolarmente riprovevole, il castigo per la nostra anima sarà quello di
ritrovarsi in corpi di animali.
Dopo i paria seguono le bestie, e anche tra queste vi sono caste e sottocaste.
Caste ascendenti e discendenti esistono anche tra dèi e perfino tra i demoni. Le caste umane (circa
3000) sono il crocevia paradigmatico di un ordine gerarchico alto-basso, ascendente-discendente, che
abbraccia tutto ciò che esiste di visibile e di invisibile.
Se un uomo che occupa i vertici della struttura religiosa e della società, un Brahmano, è avido di
denaro, rinascerà in un maiale o in un cane, insomma entro corpi impuri, destinati alla sofferenza.
In altri termini, tutti gli animali non sono cose o, come credeva il filosofo René Descartes, degli
automi privi di sentimento, d’intelligenza, di memoria, eccetera, ma esseri con una loro specifica
personalità. Tutto il dibattito oggi esistente in ambito cattolico sul concetto di persona e sulla
sua non estensibilità agli animali è per l’induista (e non solo per lui) un assurdo.
L’induista vede nella condizione animale una sorta di purgatorio o di inferno e, spesso, scorge in
molti uomini crudeli i contorni di figure demoniache che tormentano le anime. In ciò vi sono
singolari analogie con l’antico pitagorismo. Come le preghiere per i defunti costituiscono una
pratica religiosa importante per il cattolico, affinché l’anima del trapassato possa agevolmente
superare certe prove nell’aldilà, così le preghiere del fedele indù servono alla remissione di una
parte di quel tempo che le anime sarebbero costrette a consumare in forma animale.
Per un indù la distruzione dello spirito, dell’anima è impossibile quanto la distruzione della
materia per un fisico europeo. Tutto ciò che vive è dotato di anima e quindi di intelligenza. Ne
consegue una grande considerazione del mondo animale di cui in Occidente, soprattutto dopo la fine
del mondo antico, non esiste paragone.
Scrive l’antropologo M. Harris:
L’induismo immagina le creature come anime che si trovano a diversi stadi del percorso di
avvicinamento al nirvana. Occorrono 86 trasmigrazioni per passare da demone a vacca. Nella
successiva trasmigrazione l’anima assumerà sembianze umane.
Ma l’anima può sempre riprecipitare all’indietro. L’anima di una persona che uccide una vacca deve
aspettarsi di ritornare allo stadio più basso e di dover ricominciare tutto da capo. Gli dèi vivono
incarnati nelle vacche. I teologi indù ritengono che il numero di divinità presenti nel corpo di una
vacca ammonti a 330 milioni. Accudire e venerare le vacche ti porterà al nirvàna per ventun
generazioni venture.’
Per aiutare e assistere l’anima del caro estinto nel suo viaggio verso la salvezza, i parenti
offrono danaro per mantenere le mandrie di vacche che gravitano attorno ai templi. Credono infatti
che il morto debba attraversare una corrente molto impetuosa e che tali donazioni assicurino al caro
estinto il privilegio di potersi aggrappare saldamente alla coda di una vacca quando si troverà a
dover nuotare in questa corrente impetuosa. Per la stessa ragione un indù osservante chiederà una
coda di vacca cui tenersi saldamente nel corso dell’agonia
L’induismo ha le sue radici nel Rig Veda e nelle Upanishad, ma è anche il risultato di innesti e
incroci di culture e credenze molto varie.
L’induismo non è una religione nel senso ebraicocristiano-islamico, avente al centro una
Rivelazione unica annunciata da una figura divina o da un profeta, con dogmi unici difesi da una
Chiesa, la cui violazione costituisca eresia, bensì un amalgama di religioni probabilmente di
disparata origine che hanno in comune una particolare ‘visione del mondo’ e una prospettiva di
salvezza, alla cui formazione concorrono diversissime vie cultuali, mistiche e metafisiche.
In ogni caso il fondamento comune è la disperata ricerca di una via di liberazione dall’infinito
flusso, samsara, doloroso e non – significante attraverso una lunga serie di esistenze condizionate
dal frutto (phala) delle azioni compiute (karman) nelle precedenti vite.
La liberazione (moksa) è il distacco dellAtman, il Sé, l’anima individuale dal corpo e l’unione con
l’Assoluto (Brahman), superando totalmente ogni principium individuationis, ogni carcere per
l’anima.
Allora, come indicano le Upanishad, ciascuno sarà tutto in una sorta di fusione assoluta dove il
perdersi è un rigenerarsi in altra dimensione. L’anima non si distrugge, si distende, come una
piccola goccia d’acqua che raggiunga un immenso oceano di silenzio e di pace.
Tu sei la donna. Tu sei l’uomo. Sei l’ape blu e la verde farfalla dagli occhi rossi. Il lampo ti è
figlio. Sei le stagioni e i mari. Sei il Tutto. Sei l’Onnipresente.
In senso teistico il congiungimento con il Brahman è l’unione-fusione nell’Assoluto-Dio inteso come
Persona Assoluta; in senso filosofico è unione allo Spirito del Mondo o all’Anima del Mondo; in
senso ateistico è il ritorno alla materia dove avviene una sorta di metamorfosi empedoclea, un
rimpasto che prelude a nuove forme nel tempo, una migrazione di forme di vita (metensomatosi)
piuttosto che di anime (metempsicosi).
La divinità più alta dalla quale tutte le altre sono venute quali sue manifestazioni è Brahma,
personificazione del Sé Assoluto che si ‘individua’ poi in moltissime altre divinità come Savitri
(principio femminile), Sarasvati (principio femminile della creazione), Vishnù (principio che
attende alla conservazione del mondo, l’Essere Supremo per la corrente vishnuita, che si manifesta
nel mondo nei momenti di grave crisi e decadenza incarnandosi in importanti personalità per
ristabilire l’or- dine, cosa che ha fatto per nove volte; l’ultima, la decima, è imminente).
Il Settimo Avatara (reincarnato) di Vishnù fu l’Eroe Rama le cui gesta sono narrate nel poema epico
Ramayana nel quale Rama è aiutato nelle sue imprese da un esercito di uomini-scimmia guidati dalla
divinità uomo-scimmia Hanuman.
Rama, escluso Krishna, è la figura del Pantheon induista più venerato. Ottava incarnazione di Vishnù
è Krishna, divinità originariamente protettrice delle greggi. La Nona è l’incarnazione del Buddha.
La Decima sarà il ritorno di Vishnù come Cavaliere dell’Apocalisse (Kalkin) che annienterà il male e
instaurerà la giustizia e la pace. Altre importanti divinità sono Devi o Parvàti, divinità
femminile, Durga che combatte i demoni e i nemici degli dèi.
Se, come ho detto, tra gli Indù eredi dei Veda e delle Upanishad la considerazione del mondo animale
è alta (esistono da millenni in India ospedali per animali dove, una volta curati, vengono liberati,
ma non restituiti al proprietario perché li sfrutti e li macelli), non poche scuole induiste
ritengono utile alla conciliazione con il divino (o il demoniaco), il sacrificio di sangue.
La dea, ricevuto il sacrificio, elargirà i beni richiesti, libererà dalle malattie o da condizioni
penose. L’indù rinnoverà le offerte solo dopo aver ottenuto quanto richiesto. In questo l’induismo è
una sorta di contratto sociale tra due comunità, spiriti e uomini, in relazione d’affari. Molto
spesso la devozione religiosa indù aumenta o diminuisce in proporzione all’utile che il fedele si
attende (ciò che comunque non è proprio del solo induismo).
Non sappiamo quando si sia affermato tra le caste dei Brahmani il vegetarianesimo. Sappiamo solo che
il regime alimentare vegetariano divenne obbligatorio a partire dal XVIII secolo per tutte le alte
caste indù, eccetto che in Bengala, e lo è tuttora. Le caste più basse possono mangiare.
Nel Bengala tutte le caste, tutte le classi sociali si cibano, e si cibavano in passato, di animali,
compresi i pesci, benché molti se ne astengano per osservanza. Come è noto, la carne bovina
rappresenta il supremo divieto per tutti gli indù. La vacca è simbolo della Terra-Madre e la sua
uccisione è il più orribile dei delitti (Mahabharata, XII, 149, 5). Ma riguardo alle altre carni non
ci sono particolari restrizioni per le capre, le pecore, i daini, i piccioni, le anatre. I polli
invece, nel Bengala, sono tabù.
Gli indù tradizionalisti, se intendono mangiare carne, usano inviare una o due capre come offerta
sacrificale a Kali. Dopo il sacrificio, la testa viene trattenuta dalla dea, ossia dai sacerdoti, il
resto viene ritirato dall’officiante per essere cucinato e mangiato.
In Bengala quasi tutte le classi consumano soprattutto pesce il che, nell’India del Nord, è
addirittura aborrito perché Vishnù, nella sua incarnazione era stato un pesce (anche nell’antico
Egitto, Horo era associato al pesce).
In un’importante iscrizione monumentale, scoperta a Pataliputra, si legge che l’imperatore Asoka,
fondatore del primo grande regno indiano (272 a.C., convertitosi al buddhismo dopo essere stato
sconvolto dagli orrori della guerra per la conquista di Kalinga, 100.000 morti, 150.000 deportati),
proibì la macellazione degli animali. Asoka aveva compreso lo stretto nesso tra guerra (massacro di
uomini) e mattatoio (massacro di animali). È la comprensione di questo nesso e il conseguente
rifiuto di un ordine in cui si massacrano gli uomini e si mangiano gli animali che porta Asoka al
buddhismo, come altri, in altri contesti, erano stati condotti allo zoroastrismo
L’AUTORE
Gino Ditadi
Docente di Filosofia, è autore di numerosi saggi di carattere storico e filosofico.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo:
Tommaso Campanella, Apologia di Galileo. Tutte le Lettere di Campanella a Galileo e altri Documenti,
Isonomia Editrice 1992.
Lev Nikolavic Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne, Isonomia Editrice 1994.
AA.VV., I filosofi e gli animali, in due tomi, Isonomia Editrice 1994.
Giacomo Leopardi, Dissertazione sopra l’anima delle bestie e altri scritti selvaggi, Isonomia
Editrice 1999.
E’ altresì coautore del volume AA.VV., Zooantropologia, Red Edizioni, Como 1999, con un Saggio su Le
grandi religioni e gli animali;
Nei Quaderni di bioetica (Istituto Italiano di Bioetica) ha pubblicato il Saggio Oltre il sacrificio
di sangue.
Note sul Cristianesimo e mondo animale, Macro Edizioni 1998;
Recemente ha curato il volume AA.VV., Etica, biodiversità, biotecnologie, emergenze ambientali, Roma
2000.
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