Le motivazioni inconsce alla pratica meditativa

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Le motivazione inconsce alla pratica meditativa

di Jack Lengler

Traduzione dall’inglese di Roberto Mander

(Jack Engler ha studiato psicologia buddhista e meditazione vipassana
con Mahasi Sayadaw. È direttore del servizio psichiatrico presso il
Cambridge Hospital e supervisore in psicologia clinica alla Harvard
Medical School. In italiano ricordiamo il libro “Le trasformazioni
della coscienza”, scritto insieme a K. Wilber e D. Brown, Ubaldini
Editore.

Questo breve articolo è stato ripreso dal sito internet dell’IMS
www.dharma.org/insight.htm

Credo che nella prima generazione di praticanti di vipassana in
America ci fosse la tendenza a guardare la meditazione nello stesso
modo in cui un cattolico tradizionale guarda i sacramenti. Nella
teologia dei sacramenti c’è un principio – ex opere operato – in base
al quale i sacramenti hanno efficacia in sé e per sé,
indipendentemente dalla persona che li amministra o da chi li riceve.

All’Insight Meditation Society nei primi tempi tendevamo ad adottare
lo stesso atteggiamento nei confronti della pratica: “Ecco, queste
sono le istruzioni: le capite, le applicate e funzionerà”. La mia
esperienza nel corso degli anni si è rivelata ben più complicata. Ho
compreso che la pratica meditativa, come qualsiasi altro tipo di
comportamento, può essere usata a fin di bene o a fin di male. Può
andare in direzione della liberazione, ma possiamo anche impiegarla al
servizio delle nostre nevrosi.

Buddhaghosa definì la pratica ‘un sentiero di purificazione’. È come
allontanare le impurità dall’oro finché non rimane il metallo puro. La
pratica, come un vero e proprio processo di raffinamento, spesso
procede per tentativi ed errori. Attraverso gli errori ci accorgiamo
ogni volta di come abbiamo smarrito il nostro equilibrio. Piano piano
impariamo a distinguere il retto sforzo dalla spinta compulsiva,
quando stiamo compiendo uno sforzo e quando invece vogliamo solo
evitare qualcosa.

Gran parte della pratica consiste proprio in quel processo che ci
porta a scoprire che cosa non è il sentiero. Da una certa prospettiva
certamente tutto fa parte del sentiero e proprio questo processo è il
sentiero.

Ma ponendo sulla pratica spirituale le stesse domande che un
terapeuta, ad esempio, potrebbe rivolgere a proposito di qualsiasi
altra esperienza, si scoprirebbero una dozzina di motivazioni inconsce
dietro la pratica. Vale la pena di guardarle per un momento perché la
pratica meditativa – come qualsiasi altro comportamento – è
determinata da molteplici fattori. Potrebbero esservi molti
significati diversi e noi potremmo essere spinti da un gran numero di
motivazioni diverse. È proprio ciò che dice l’insegnamento buddhista
sulla realtà condizionata e cioè che non esiste una semplice causa ed
effetto, ma molti modi in base ai quali anche una singola seduta è
condizionata da molti fattori.

Ad esempio, durante certe fasi del ciclo della vita il compito dello
sviluppo è arrivare alla formazione dell’identità, ossia a scoprire
chi sono come persona e su quali valori indirizzerò la mia vita, chi
sarò insomma. Se si incontreranno delle difficoltà o sorgerà un
atteggiamento ambivalente o conflittuale, si potrà adottare la
prospettiva della mancanza di un sé e di un io in modo da non
affrontare realmente questo compito.

Oppure la pratica potrà assumere la forma di un desiderio
narcisistico: grazie alla pratica diventerò autosufficiente e
invulnerabile, non soffrirò più, non sentirò più alcun dolore o
contrarietà. Credo che un desiderio di questo genere si annidi da
qualche parte nella psiche della maggior parte di noi, anche se spesso
in modo molto sottile. Potrebbe esserci un tipo di ideale narcisistico
che ci portiamo dietro da tempo intorno alla nozione di perfezione. La
pratica può essere alimentata da un pensiero nascosto del tipo: “Sarò
libero da tutte gli aspetti sgradevoli di me stesso che non mi
piacciono”. È importante essere consapevoli di questo impulso che può
essere più o meno presente.

Non è difficile vedere come tutto ciò possa distorcere perfino il modo
in cui si fa attenzione e ciò a cui si fa attenzione. L’attenzione
stessa a sua volta è molto condizionata.

Il giorno in cui ci si potrà sedere e rimanere consapevoli
probabilmente sarà il giorno in cui non si avrà più bisogno di
praticare. Come dice il vecchio principio della psicoanalisi: “Il
giorno in cui, una volta entrati, sul lettino si faranno solo
associazioni libere, sarà il giorno in cui non ci sarà più bisogno
dell’analisi”. In altre parole, la consapevolezza e le associazioni
libere si devono imparare e ripulire da tutte le potenziali
distorsioni. Ma è proprio questa la parte più straordinaria della
pratica: scoprire tutto ciò, metterlo in ordine e raffinarlo.

Spesso un’altra motivazione inconscia è la paura dell’individuazione,
la paura di diventare indipendenti e far valere i propri diritti. Si
può manifestare con una certa passività che potrebbe aver radici nel
voler evitare l’impegno e il senso di responsabilità. La mia
esperienza con i praticanti occidentali è che siano troppo distaccati:
abbiamo bisogno di imparare come diventare attaccati, in modo
salutare. Quando le persone parlano di distacco e rinuncia, spesso
significa che c’è qualcosa che si vuole evitare in modo fobico. Il
vero distacco, o il vero non attaccamento, è un immergersi
profondamente e ha a che fare con il cuore nella sua interezza.
Significa darsi completamente a ciò che si sta facendo, alla persona o
alla situazione che si hanno davanti, senza riserve; è fare qualsiasi
cosa si stia facendo completamente e poi lasciare andare.

A volte la pratica può essere guidata dalla svalutazione della ragione
e dell’intelletto, specialmente in coloro per cui pensare è doloroso o
che non amano farlo. La situazione opposta di coloro che trovano i
sentimenti dolorosi. Anche l’atto di guardare dentro al proprio mondo
interiore può essere una fuga dal proprio mondo interiore. Posso
dirmi: “Bene, tutto è solo sensazione o solo pensare o solo sentire”.
Non sono queste le classiche istruzioni che vengono date? Il classico
modo di annotare, solo annotare, senza farsi coinvolgere dal
contenuto? A volte, però, questa modalità può costituire una
scappatoia: non voglio conoscere che cosa sto pensando, non voglio
vedere in modo chiaro il mio pensiero o che cosa sto provando.

Ci possono essere altre motivazioni nascoste nella pratica come la
paura dell’intimità o la paura dell’impegno sociale. La pratica a
volte può anche essere un sostituto per il senso di lutto. Il Dharma
pone la stessa domanda che farebbe un terapeuta: “Come lasciamo andare
le cose che ci legano? Come lasciamo andare gli attaccamenti non
salutari?”.

C’è un periodo di lutto necessario, bisogna attraversare il lutto, non
si può solo guardare e osservare o metterlo da una parte con quel tipo
di annotazioni che usiamo nella pratica della presenza mentale. Non è
possibile in nessun modo evitare il processo del lutto.

In terapia o in meditazione l’insight, la visione profonda, da solo
non basta perché non conduce necessariamente a nessun cambiamento.
Sappiamo tutti che ci può capitare di avere una comprensione
concettuale molto buona di qualcosa o un insight di noi stessi eppure
continuare a fare la solita dannata cosa che abbiamo sempre fatto.
Bisogna occuparsi della resistenza interna prima che arrivi il
cambiamento. Non c’è davvero modo di evitare il senso di lutto in
questo mondo transitorio.

A volte usiamo la pratica per immunizzarci dal sentire e la
pratica-del-dolore allora può essere usata per evitare di sentire. Ciò
può essere fatto in un modo intellettuale attraverso l’osservazione
ossessiva o scindendo affetto e sentimento dall’insight e dalla
comprensione; in questo modo l’osservatore rimane molto freddo e
distante. Questa freddezza distaccata è poco vitale. D’altro canto si
può anche usare la pratica per crogiolarsi nel sentimento.

Inoltre ci sono motivazioni di passività e dipendenza. La pratica può
diventare un’auto-punizione che nasce da un senso di colpa o da una
cattiva opinione di sé. L’ostinato rifiuto a non muoversi fino al
termine della seduta, ad esempio: “Sento un dolore molto forte, ma la
campana non suona ancora e le istruzioni sono di non muoversi fino
alla fine della seduta”. Questo tipo di situazione può rappresentare
un’opportunità per lavorare con il dolore ed essere un modo molto
potente di praticare in quel dato momento, ma possono esserci anche
altre radici. Ci può essere una qualità auto-punitiva nel rimanere con
il dolore quando farlo non è veramente produttivo o quando lo facciamo
in modo masochista.

L’arte della pratica è far venire fuori questa differenza e a poco a
poco essere in grado di riconoscere le motivazioni salutari e positive
da quelle dannose e negative. Ecco perché la pratica può essere tanto
creativa: per tutto il tempo richiede che ci sia questa costante
capacità di discriminare. Non si può agire in modo meccanico. C’è
sempre nella pratica tanto da imparare e tante straordinarie scelte e
questa è una di esse.

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