Le parole che mancano
di Chandravimala Candiani
Forse – morirò,
Certo – risorgerò!
Curilin
Ho vissuto tre mesi in un posto che gli atlanti dicono sia in America.
Sono stata in un luogo dove puoi impazzire senza intaccare la fiducia che
gli altri hanno in te e tornare alla cosiddetta normalità senza che nessuno
se ne stupisca.
Per tre mesi sono morta di morti successive e ravvicinate e ho imparato a
risorgere senza anticiparlo neanche con la speranza.
Insomma, ho fatto il ritiro dei tre mesi all’Insight Meditation Society di
Barre, Massachusset.
Eppure, non ho affatto la sensazione di essere tornata da un ritiro, so solo
che per tre mesi ho vissuto al massimo delle mie possibilità, che ho messo
allo scoperto le radici della mia sofferenza, che sono andata in pezzi, che
ho pianto mille pianti diversi, che ho avvertito il sorriso del Buddha
passeggiare sulla mia faccia, che sono morta, che sto scrivendo alla mia
eterna scrivania, la stessa di tre mesi fa.
Vengo da una famiglia di pazzi, di alcolisti, di suicidi.
Ci ho messo quarantasei anni a dirmelo. A Barre sono bastati tre giorni.
Alcune notti con una compagna di camera che si muoveva nel letto mi hanno
gettato in un panico cellulare che non voleva più essere rimandato, o
consolato. Senza pensare, il semplice stare col corpo ha acceso degli enormi
fari su tutta la mia infanzia e i traumi del mio passato sono venuti a
galla, come pezzi di sughero sull’oceano.
Una sola cosa sapevo: io dalla sofferenza non voglio più scappare, so che,
se posso vedere i miei ricordi rimossi, questo significa che si stanno
staccando da me, e so che prima dovrò immergermi in loro come in un mare
infernale; e l’ho fatto. Dopo alcune notti insonni, sono arrivata disperata
alla stanza dei colloqui di Michèle Mac Donald, la mia insegnante personale
per la prima parte del ritiro. Piangendo, le ho sussurrato: “Si sta aprendo
tutta la mia infanzia, non so se è perché il tempo è maturo, o solo perché
non posso dormire”.
Lei mi ha ascoltato in silenzio, poi, come una fata delle fiabe, ha
sussurrato: “Guarda!”. Ho seguito il suo dito: c’era un letto, un letto per
me nella sua stanza dei colloqui. Ma non solo: c’era spazio, spazio per il
mio dolore nella stanza di Michèle, nel cuore di Michèle; per la prima
volta, una persona non aveva paura della mia disperazione, non mi chiedeva
di sorridere o di parlare d’altro, mi faceva spazio, mi dava rifugio.
E con Michèle è iniziato un delicatissimo viaggio interplanetario, un
viaggio tra le giuste distanze, non le ho mai chiesto la mano, non me l’ha
mai offerta. Con enorme rispetto, mi ha accolto a ogni colloquio sussurrando
appena: “Hello! È difficile metterlo in parole, vero?” Esattamente così,
ancora adesso: così difficile metterlo in parole. Manco le parole. Le parole
mi mancano.
Posso solo dire che tremando, soffocando gli urli nel cuscino, gelando di
paura, piangendo come non mi ero mai permessa di fare, stringendo al petto
la foto di Claude Thomas, che un anno fa mi aveva predetto: “Vuoi liberarti
dalla tua sofferenza? Sei pronta a vederla aumentare?” e aveva aggiunto:
“Quando soffri, chiamami, sarò lì con te”, ho lasciato che avvenisse il
contatto con tutti quelli che hanno fatto della mia infanzia un piccolo
lager, e li ho sentiti così innocenti, così soli, così disperati.
E ho visto la genesi del mio senso di estraneità da ogni gruppo, da
qualsiasi assembramento sociale, politico, religioso, ricreativo; non solo,
la paura che mi fanno gli esseri umani quando si riuniscono in nome di un
qualsiasi gusto comune o opinione comune. Immediatamente, la mia mente va a
quello o a quelli che ne restano esclusi, e immediatamente io sono con loro.
Una grande distanza ha cominciato a crearsi tra me e le cosiddette persone
spirituali. L’ho lasciata essere.
E ho ricordato quando in quinta elementare, dopo le notti insonni, passate
nell’inferno dell’alcool e della violenza, mi trovavo tra le belle bambine
col grembiule bianco di un collegio di suore, e sapevo di essere un mostro e
tremavo per la paura che gli insegnanti lo scoprissero e potessero
espellermi per sempre dalla scuola. All’Insight Meditation Society, è
riemersa la paura, ogni giorno ho atteso un biglietto degli insegnanti: “Vai
via di qui, perché sei impura”.
Ho cominciato a sentir salire dal mio corpo degli odori, odori di morte, di
disfacimento, i processi di morte che, vogliamo o no, ci sono nel nostro
corpo. Passeggiando nella natura, le foglie d’autunno, gialle, rosse, verdi,
che avevano fatto della terra un enorme Arlecchino, stavano tutte diventando
marroni o nere. Infiniti livelli di morte, personali passaggi dalla vita
alla morte. Ogni foglia cadeva in modo unico e personale, e in modo unico e
personale si restituiva alla terra. Alcuni raccoglievano le foglie più belle
e le lasciavano nei punti di frequente passaggio, per condividere la
bellezza.
Io notavo solo le foglie più anonime, cercavo disperata, come un barbone
nella spazzatura, la foglia abbastanza marrone, abbastanza brutta; non
troppo marrone, non troppo brutta: le meno uniche, le meno notabili.
Un giorno Michèle: “Adesso hai smesso di fingere di essere felice. Solo
adesso il tuo cuore è aperto, perché ti sei aperta alla tua sofferenza”.
E di colpo, durante una camminata, con i miei occhi di mostro che vedevano
appena il pavimento, perché di nuovo erano gonfi di lacrime, ho sentito nel
mio petto:
“Oh Chandravimala, senti, avverti, come in questo momento, in questo preciso
momento, milioni di esseri umani stanno soffrendo, di mille diverse
sofferenze, di mille diversi dolori”.
E ho sentito la mia faccia stravolgersi di ribellione e ho compreso più
profondamente una visione di alcune notti prima: gli esseri umani lasciavano
il corpo con l’ultima espirazione, come si lascia un guscio o un bozzolo,
come si sbarca senza conoscere la destinazione, e, invisibili, diventavano
uno. Col cuore che divorava i chilometri, ho sentito: “Siamo uno, c’è solo
un essere, c’è solo l’essere”.
Allora, il dolore e una sottile forma di malinconica gioia sono diventati
uno. Allora, la paura della morte è diventata la paura di una parola, su cui
gli esseri umani hanno costruito secoli di terrore e di potere. Allora,
aprire e chiudere una porta, camminare, lavarsi, inchinarsi, infilarsi in un
letto, sedersi, piangere, sorridere, respirare, urinare, quando sono abitati
dal sapere di essere vivi, sono figure di una danza d’amore.
Ho paura della morte e sono morta per migliaia di attimi al giorno? Ho paura
della morte e mangio come un automa? Lavo i piatti senza sentire che tocco
l’acqua, che l’acqua, miracolosamente, lava lo sporco, che lo sporco,
miracolosamente, si ricreerà tra poco?
Possiamo scegliere: continuamente vivi, mezzi vivi e mezzi morti, o
continuamente morti; e la paura della morte diventa, allora, la paura di
qualcosa che ci costringe a essere vivi, spalancati al presente.
Da quel momento ho incontrato molte esperienze in piena nudità. È andato
perso in lavanderia il mio asciugamano, ho visto tutti gli altri andarsene
con il loro e sono rimasta sola davanti a un tavolo vuoto, in un linguaggio
non mio, certa di non avere più di sei anni e di non sapere l’inglese. Nudi,
un asciugamano diventa una tenda, la capanna, il riparo; e meditando si è
nudi sotto le stelle, all’aperto nell’universo, ma di colpo la massima
esposizione, la massima nudità, è diventata la massima protezione, la
qualità umana senza più maschere, il tremito e la preghiera senza parole. Un
asciugamano perso in lavanderia.
In ogni nostra emozione c’è la nostra storia personale, la storia della
nostra famiglia, della nostra città o paese, della nostra nazione, del
pianeta terra, del condizionamento della nostra educazione e di quello
umano: sapere che non siamo immortali. E un’emozione così complessa, così
stratificata, sorge e passa, e dipende dalle condizioni in cui sorge e in
cui passa, e non dalla mia decisione di volerla sentire o sfuggire.
Allora, ho sentito che la sofferenza non è personale, né privata, che è la
cosa che più ci accomuna e che non è sofferenza per questo o per quello, ma
è la sofferenza di essere nati, separati dal tutto.
Guardando i pini dalla mia finestra, sono arrivate nuove lacrime: c’erano
ancora troppe parole tra me e gli alberi, troppo linguaggio, per consolare
tutte le creature dell’inganno della separazione.
Nel colloquio con Sharon Salzberg, così delicata e sensibile da non
guardarmi mai negli occhi nei miei giorni senza pelle e da accogliere in
piena faccia ogni mio sguardo quando tornavo di carne umana, ho chiesto a
Sharon: “Come posso liberarmi dal linguaggio?”. E lei: “Oh, ci sono parole
che vengono da un posto così profondo che non sono più parole”.
Che regalo! Ogni pensiero ha, dunque, una ragione d’essere, ogni parola ha
un motivo, ogni stato mentale, anche il più tormentoso, è degno di rispetto,
posso invitarlo a restare e interrogarlo, chiedergli il suo nome, la sua
storia, come fa un buon padrone di casa con un ospite gradito.
E una sera Sharon nel suo discorso: “Il Buddha ha detto che praticando, la
mente diventa come un laghetto tranquillo. Gli animali selvatici vi vengono
a bere, avidità, odio, invidia, ma il lago resta tranquillo. Questa è la
felicità di un Buddha”.
E la mia mente, che per tutto il ritiro aveva dato asilo a sempre nuove
fiere, gettandomi nel panico del confronto con gli altri, ogni mattina di
nuovi occhi gonfi, la mia mente si è calmata.
“Va bene così, piccola bambina ferita, so che sei lì, so che hai paura, e io
sono qui per questo” le ho sussurrato. Oh cara mente, sopravvissuta a tante
sofferenze, ora so che, anche se non ho ferito molta gente in questo mondo,
ho ferito e tradito me stessa, fingendo di essere felice, sorridendo,
chiacchierando, nascondendo traumi e paure, per essere normale, per essere
come gli altri, che a loro volta vogliono essere come gli altri.
Vorrei concludere questo scritto, troppo intenso come me, con migliaia di
ringraziamenti:
…….all’albero solitario che mi ha accolto ogni giorno e che ha pianto
con me nel giorno più difficile del ritiro; a chi lasciò al mio posto di
meditazione un piccolo Buddha dorato, dopo una notte passata a disperarmi,
perché sentivo di aver trattato il Buddha come un Nembo Kid o un aiutante
magico, e non come il luminoso sì che anche adesso, in questo preciso
momento, posso dire a tutto quello che, piacevole o mostruoso, sorge e passa
in me; alla donna americana che alla fine del ritiro, con la mia stessa
faccia segnata di bambina cattiva, mi ha detto:
“Era bello stare davanti a te a tavola, vederti piangere, e vederti
lavorare, senza volerlo mostrare”; alle oche selvatiche che parlavano
italiano; all’uccello che si è posato sulla mia testa, quando mi sentivo
indegna di restare ancora un solo minuto, impura tra i puri; allo stagno
ghiacciato; a Michèle, sempre ubriaca (di verità);
a Sharon, farfalla dalle sensibilissime antenne, in incognito in un corpo di
grande donna; al mio delicato fratello che, durante le mie morti simboliche,
ha visto rapire dalla morte fisica la sua amatissima moglie; a Carol Wilson,
toccata dalle parole che mancano; a Vivian, che appena tornata a Milano, mi
ha regalato questa frase di Victor Hugo: “La contemplazione è uno sguardo
che ha questa virtù: a forza di guardare l’ombra, ne fa scaturire la luce”;
ma soprattutto a me stessa, che ho saputo non ridere, quando non ne avevo
voglia, tra cento risate, che mi sono stretta tra le braccia, mentre mi
disfavo in lacrime, che ho conosciuto il mio mostro, che da bambina soffrivo
per il destino riservato al lupo nelle fiabe, che adesso non accetto un uso
volgare del concetto di karma, che continuerò a sorridere solo quando
corrisponde a un’esperienza interiore, a me stessa: grazie!
Lascia un commento