di swami Kriyananda
Tratto da:
SWAMI KRIYANANDA
IL SENTIERO
Autobiografia di uno yogi occidentale,
discepolo di Paramahansa Yogananda
Traduzione di MAURO MERCI
EDIZIONI MEDITERRANEE – ROMA
Un giorno qualcuno si recò a far visita ai suoi genitori con una copia
dell”Autobiografia di uno Yogi’, nella quale Yogananda descrive la visita
compiuta nel 1936 al Mahatma Gandhi nel suo ashram di Wardha. Non appena la
bambina vide la fotografia di Yogananda sulla copertina, esclamò con gioia: “Oh,
ma questo è Yogananda! Venne a Wardha. Era bellissimo!”.
Chi è convinto di vivere soltanto una volta è costretto a scendere a dei
compromessi con le proprie speranze di perfezione. I credenti ortodossi possono
cercare di vivere in modo tale da evitare il fuoco dell’inferno dopo la morte,
ma i più, ritengo, sono ugualmente tentati di chiedersi opportunisticamente:
“Quanto male posso commettere senza incorrere nella condanna eterna?”.
La fede nel principio della rinascita aiuta l’uomo a guardare con gioiosa
fiducia alla propria evoluzione, senza timore o scoraggiamento.
“L’evoluzione ha fine?”, chiese un giorno un visitatore a Paramahansa Yogananda.
“Non ha mai fine”, fu la risposta. “Il progresso continua finché l’uomo non ha
raggiunto l’infinito”.
A Mount Washington la reincarnazione era parte normale del nostro modo di
pensare e non ci stupivamo affatto quando il maestro, come succedeva a volte,
accennava alle nostre o alle altrui vite passate.
Guardando Jan Savage, un bambino di nove anni, un giorno esclamò ridendo: “Il
piccolo Jan non è un bambino. E’ ancora un vecchio!”.
Una volta gli confessai che avevo sempre desiderato vivere in solitudine. La sua
reazione fu: “E’ perché così vivevi una volta. La maggior parte di quelli che
sono con me hanno vissuto in solitudine parecchie vite passate.” Queste sue
osservazioni erano tanto casuali che di rado coglievo l’occasione di rivolgergli
delle domande più precise, alcuni però esprimevano un interesse più profondo e
le risposte del Maestro erano a volte del tutto esplicite.
Alcuni anni dopo che il dottor Lewis aveva perso la madre, Yogananda, conoscendo
la devozione che il dottore aveva nutrito per lei, lo informò: “E’ rinata. Se
vai a…” e menzionò una località del New England, “la potrai rivedere”. Il
dottor Lewis si mise in viaggio.
“Fu un’esperienza inquietante”, mi raccontò al suo ritorno. “La bambina aveva
soltanto tre anni, ma in molti dei suoi atteggiamenti ella assomigliava proprio
a mia madre. Notai anche che dal primo momento in cui mi vide mostrò per me una
immediata simpatia, quasi mi riconoscesse”.
La signora Vera Brown andò una sera a teatro col Maestro e alcuni discepoli. Una
ragazzina seduta nella fila davanti a loro richiamò la sua attenzione. “Non
riuscivo a staccarle gli occhi di dosso”, mi confessò più tardi. “C’era qualcosa
in lei che mi affascinava. Sembrava molto più vecchia e saggia della sua età,
traspariva da lei una profonda tristezza. Finita la rappresentazione, il Maestro
mi chiese: “Eri affascinata da quella ragazzina, vero?”. “Si, signore”, risposi.
“Non so perché, ma non ho potuto fare a meno di guardarla per tutto il tempo che
siamo rimasti nella sala”.
“Nella sua vita precedente”, disse il Maestro, “ella morì in Germania in un
campo di concentramento. Ecco perché ha un’espressione tanto triste. La sua
tragica esperienza, però, e la compassione che sviluppò conseguentemente l’hanno
resa santa. E’ stata la saggezza che hai intuito in lei ad attrarre tanto la tua
attenzione”.
Un giorno gli fu dato da reggere un neonato. “Stavo quasi per lasciarlo cadere”,
raccontò in seguito agli amici. “Tutt’a un tratto avevo visto, latente in quella
piccola forma dall’aspetto innocente, la coscienza reincarnata di un assassino”.
Le discussioni sulla reincarnazione in sua presenza acquistavano un profondo
interesse. Un giorno chiesi al Maestro: “Giuda aveva conseguito in qualche
misura una realizzazione spirituale?”.
“Naturalmente il suo karma non doveva essere tanto buono”, rispose il Maestro,
“ma, ciononostante, egli era un profeta”.
“Davvero?”. Questa variazione sul tema comune della scelleratezza di Giuda mi
lasciò esterrefatto.
“Ma certo”, confermò enfaticamente il Maestro. “Fu a buon diritto uno dei dodici
apostoli. Ma dovette poi passare attraverso duemila anni di sofferenze per il
suo tradimento. Fu liberato in questo secolo, in India. Gesù apparve a un
maestro di laggiù e gli chiese di liberarlo. Conobbi Giuda in questa vita”,
soggiunse.
“Voi!”. Continuai avidamente a indagare. “Che aspetto aveva?”.
“Sempre molto tranquillo e sulle sue. Manifestava ancora un certo attaccamento
per il denaro. Un giorno un altro discepolo cominciò a beffarsi di lui per
questo difetto, ma il Maestro scosse il capo. “No”, lo ammonì, “lascialo in
pace”.
Nel 1936 Yogananda visitò Stonehenge in Inghilterra e in quella occasione
osservò, rivolto al suo segretario, Richard Wright (il fratello di Daya Mata):
“Anch’io ho vissuto qui tremilacinquecento anni fa”.
A volte ci affascinava con accenni, sempre casuali, alle vite passate di famosi
personaggi storici. “Winston Churchill”, ci narrò, “era Napoleone. Napoleone
voleva conquistare l’Inghilterra; Churchill, come primo ministro, soddisfece
tale ambizione. Napoleone voleva distruggere l’Inghilterra; nei panni di
Churchill gli toccò presiedere alla disintegrazione dell’Impero britannico.
Napoleone fu mandato in esilio, ma ritornò in seguito al potere; Churchill, in
modo analogo, fu costretto a ritirarsi dalla scena politica, ma dopo qualche
tempo resse nuovamente le sorti dell’Inghilterra”.
E’ un fatto notevole che Churchill, in gioventù, abbia trovato ispirazione nelle
imprese militari di Napoleone.
“Hitler”, continuò il Maestro, “fu Alessandro il Grande”. Un interessante punto
di paragone in questo caso è che tanto l’uno che l’altro adottarono in guerra
una strategia basata su attacchi fulminei, il blitzkrieg come lo chiamava
Hitler. In oriente, naturalmente, dove le conquiste di Alessandro furono
responsabili della distruzione di fiorenti e progredite civiltà, l’appellativo
“il Grande” è citato sempre in tono sarcastico.
Il Maestro aveva sperato di ridestare in Hitler il ben noto interesse di
Alessandro per le dottrine indiane, indirizzando così le ambizioni del dittatore
verso il conseguimento di obiettivi più spirituali. Compì anche il tentativo di
incontrare Hitler nel 1935 ma la sua richiesta fu respinta.
Mussolini, a detta del Maestro, fu Marco Antonio; il kaiser Guglielmo fu Giulio
Cesare; Stalin fu Gengis Khan.
“E Franklin Roosevelt?” chiesi.
“Non l’ho mai detto a nessuno”, rispose il Maestro con un sorrisetto malizioso.
“Non vorrei passare dei guai!”.
Abraham Lincoln, ci informò, era stato uno yogi nella regione dell’Himalaya dove
era morto col desiderio di dedicare la propria vita futura a instaurare
l’eguaglianza razziale. La sua nascita come Lincoln fu appunto destinata
all’adempimento di tale voto. “Egli è rinato ancora una volta in questo secolo”,
disse il Maestro, “come Charles Lindbergh”.
E’ interessante osservare come il plauso pubblico negato a Lincoln che pur
l’aveva meritato ampiamente, fu tributato a Lindbergh spontaneamente. E’ anche
interessante notare che dopo la morte di Lindbergh un suo amico hawaiano, Joseph
Kahaleushi esclamò: “Questo non è un uomo insignificante, è simile a un
presidente!” Nota: The Reader’s Digest, dicembre 1974, pag. 258. Fine nota.
Charles Lindbergh mostrava vivo interesse per la filosofia indiana. Avendo
soddisfatto il suo desiderio, come yogi, di operare in favore dell’uguaglianza
razziale, e avendo rifiutato, come Lindbergh, il successo che gli fu tributato
come ricompensa karmica per il suo buon successo come Lincoln, si può supporre
che nella prossima vita diventerà nuovamente uno yogi.
Parlando di mistici, Yogananda ci raccontò che Teresa Neumann, la cattolica
tedesca di Konnersreuth, in Germania, segnata dalle stigmate, era Maria
Maddalena. “Ecco perché”, esclamò il maestro, “le furono concesse le visioni
della passione e crocifissione di Cristo”.
“Lahiri Mahasaya”, mi disse una volta a Twenty-Nine Palms, “fu il più grande
santo del suo tempo. In una vita precedente fu re Janaka Nota: Janaka, oltre che
re, fu anche uno dei più grandi maestri dell’India Antica. Fine nota. Babaji lo
iniziò in quel palazzo dorato poiché egli era vissuto prima in un palazzo.
Secondo la versione di un altro discepolo, il Maestro avrebbe detto a qualcun
altro che Lahiri Mahasaya fu anche il grande mistico medioevale Kabir.
“Babaji”, disse, “è un’incarnazione di Krishna, il più grande profeta
dell’India”.
Il Maestro ci rivelò poi che lui stesso fu il più intimo amico e discepolo di
Krishna, Arjuna. (“Principe dei devoti” così è denominato nella Bhagavad Gita).
Non fu difficile per noi credere che fosse stato quel poderoso guerriero.
L’incredibile forza di volontà di Yogananda, l’innato dono per il comando, la
sua forza fisica, potente quando voleva adoperarla, tutto contribuiva a
caratterizzare quella tempra di eroe al quale non era preclusa nessuna
conquista. Parlando di quella incarnazione, il maestro spiegò: “Ecco perché, in
questa vita, ho dei rapporti così intimi con Babaji”.
Egli conosceva l’importanza di alternare gli insegnamenti astratti con queste
interessanti pagine di vita. Per la maggior parte della gente non esiste il
ricordo fra una vita e l’altra, poiché vi sono delle barriere che si frappongono
insuperabili. Ma per l’uomo saggio le barriere scompaiono. L’interesse reale del
Maestro, e anche il nostro, era però focalizzato sul conseguimento
dell’illuminazione divina. Questa familiarità con la legge della reincarnazione
ci aiutava a rinsaldare la nostra determinazione per il raggiungimento
dell’illuminazione divina e per sfuggire in tal modo alla serie monotona delle
morti e rinascite.
Ciò servì anche a chiarire alcune nostre difficoltà spirituali.
Henry Schaufelberger ed Ed Harding (un altro discepolo più anziano) furono
afflitti, per un certo tempo, da una animosità reciproca profonda ed
apparentemente irrazionale.
“E’ che voi eravate nemici in una vita precedente”, fu la spiegazione che Henry
ricevette dal Maestro al quale aveva chiesto consiglio. Conoscerne il motivo,
aiutò entrambi a comprendere meglio il problema e a superarlo.
Come ho già spiegato, la dottrina della reincarnazione è in stretta relazione
con la legge del karma. A volte si ode l’obiezione: “Ma che posso imparare dalla
sofferenza se non ricordo le azioni, compiute in vite precedenti, che l’hanno
provocata? La risposta è: tanto l’azione quanto la sua conseguenza karmica sono
il riflesso palese di una tendenza mentale che un individuo porta ancora con sé;
è su questa tendenza che la legge del karma opera.
Se, per esempio, per la mia cupidigia, avessi in passato privato qualcuno della
sua eredità ingannandolo e in questa vita soffrissi le conseguenze di
quell’azione con la perdita di un’eredità, tanto l’azione da me compiuta, quanto
quella subita, servirebbero a sottolineare la mia avidità. Potrei aver
dimenticato ciò che ho fatto, ma se ora decido che la frode è un’azione che non
deve essere né compiuta né subita e risolvo da parte mia di non frodare più,
avrò per lo meno sciolto un nodo di questa tendenza. Ci possono essere altri
nodi da sciogliere, poiché una serie di azioni sarebbero sorte da quella singola
tendenza e l’avrebbero rinforzata. Se sono saggio, la perdita di quell’eredità
non mi farà solo riflettere sull’immoralità della frode, ma mi indurrà anche a
risalire alle origini di questa forma di disonestà: l’avidità di denaro.
Concluderei allora che è questo l’errore e cercherei di scoprire ed estirpare in
me ogni germe di cupidigia. Quando questo sforzo fosse coronato da successo,
verrebbe stabilito un campo di forza di non-attaccamento che annullerebbe o
minimizzerebbe le conseguenze karmiche di ogni altro atto di avidità compiuto in
passato.
Il potere del karma dipende in gran misura dall’intensità di pensiero associato
ad esso.
Supponiamo che abbia superato la cupidigia e conseguito il distacco dai possessi
materiali prima di perdere quell’eredità. In tal caso il danaro perduto mi
verrebbe restituito senza che me lo aspettassi, o in ogni modo non ne soffrirei
tanto.
Patanjiali, l’antico interprete delle dottrine yoga, afferma nei suoi Yoga Sutra
che, quando si sia superata ogni tendenza all’avarizia, si attrae la ricchezza
sufficiente per le proprie necessità vitali; Patanjali si esprime
pittorescamente così: “Si avranno gioielli in abbondanza”. (Nota: Yoga Sutra II,
37).
E’ importante comprendere che la legge del karma è assolutamente impersonale.
Dal proprio karma si può imparare qualora ci sia la volontà di farlo, ma è anche
possibile rifiutarsi.
Una reazione stolta alla perdita dell’eredità che abbiamo portato come esempio
sarebbe cercare di “prendersi la rivincita” sul mondo, frodando altri dei loro
possessi; chi scegliesse questa strada, però, non farebbe che rafforzare la
tendenza che ha attratto su di lui la prima sventura, seminando maggiore
sofferenza in futuro.
Il dottor Lewis chiese una volta al Maestro perché un suo conoscente fosse nato
con un piede deforme. “E’ perché nella sua ultima vita diede un calcio a sua
madre”, rispose Yogananda.
Il fatto di avere in questa vita un piede deforme non avrà certo indotto
quell’uomo a non prendere a calci sua madre, ora. Deve però aver agito
indirettamente su tale tendenza. La madre dopo tutto, come origine della sua
esistenza fisica, rappresentava per lui in modo particolarissimo la sacralità
della vita. Quando la prese a calci, egli di fatto espresse il suo disprezzo per
la vita stessa. Il suo piede deforme in questa incarnazione deve averlo fatto
sembrare, per lo meno ai suoi occhi, un oggetto di disprezzo. Una reazione poco
saggia a questa immagine di se stesso avrebbe potuto fargli odiare più che mai
l’esistenza, attitudine che sarebbe rimasta in lui per molte vite, fino a quando
disperato, non decidesse di cambiare. Una reazione saggia gli avrebbe fatto
comprendere quanto sia grande la fortuna di possedere un corpo perfetto.
Automaticamente sarebbe nato in lui il rispetto per la vita e per tutte le
madri.
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