Le proprieta’ del suono – parte 2
di Andrew Collins
visto su misteri.us
Da un lato e dall’altro di questi due tamburi c’erano altri monaci con le ragdon, enormi trombe
lunghe tre metri. Al di là di questi, ai due lati, un altro paio di tamburi di media grandezza, poi
una coppia di tamburi ancora più grandi, anch’essi sostenuti da telai di legno tramite cinghie di
cuoio fissate ai bastoni.
Progredendo simmetricamente verso l’esterno sui due lati completavano questa vera e propria
orchestra: altre due ragdon, altri quattro tamburi grandi (due per lato), altre due trombe e,
infine, due ultimi tamburi (vedi figura sotto). I tredici tamburi erano ricoperti di pelle su un
solo lato, e il lato aperto era puntato verso il masso a tazza.
Mentre Jarl osservava la scena, il primo blocco di pietra fu trascinato fino al masso su una
slitta di legno trainata da yak.
Presto i monaci trasferirono il peso sull’avvallamento e si ritirarono per permettere
l’inizio dell’operazione.
I diciannove strumenti erano tutti puntati come cannoni verso il blocco di pietra, e quando
tutto e tutti furono al loro posto, il monaco con il tamburo piccolo cominciò a salmodiare
ritmicamente con voce bassa e monotona, battendo con una mano sul lato dello strumento ricoperto di
pelle.
Questo emise un suono secco e duro che colpì dolorosamente le orecchie di Jarl. Per tutta
risposta, le ragdon suonarono e gli altri tamburi furono percossi con grosse mazze lunghe 75
centimetri e con la testa coperta di pelle.
Di ciascun tamburo si prendevano cura due monaci, che vi battevano a turno.
A parte il monaco con il tamburo piccolo, nessuno pronunciò una parola.
Mentre quella strana cacofonia continuava, Jarl tentò di imprimersi nella mente la sequenza dei
tamburi. Il ritmo inizialmente era molto lento, poi prese una tale velocità che egli ben presto non
riuscì più a seguirlo: il loro pulsare si fuse diventando un muro compatto di suoni.
Incredibilmente, il suono acuto del tamburo piccolo riusciva a penetrare il fragore combinato di
trombe e tamburi. Questo gli fece pensare che era usato per segnare il tempo.
Passarono quattro minuti senza che accadesse nulla di insolito.
Poi, all’improvviso, il blocco di pietra prese a ondeggiare leggermente, come se stesse
perdendo peso, infine si sollevò in aria, oscillando da una parte e dall’altra.
Poi si alzò, mentre trombe e tamburi venivano inclinati nella sua direzione.
La pietra saliva sempre più in alto, accelerando la velocità e compiendo, secondo le parole
di Jarl, un arco di parabola dirigendosi verso l’imboccatura della grotta.
Alla fine, mentre i monaci continuavano a soffiare nelle trombe e a picchiare sui tamburi,
il blocco giunse a desti-
nazione piombando di peso sulla cornice con tale forza che mandò polvere e schegge di pietra
dappertutto.
Poi, improvvisamente, cadde il silenzio. Volgendo lo sguardo al gruppo dei monaci, circa
240, Jarl notò che nessuno di loro sembrava minimamente colpito da quell’esperienza. Subito fu
portato un altro blocco di pietra e l’operazione si ripeté nello stesso modo.
Per alcune ore Jarl poté vedere che con questo metodo furono trasportati dai cinque ai sei
blocchi all’ora.
Ogni tanto una pietra piombava sulla piattaforma con tale forza da andare in pezzi. Quando
questo accadeva, i monaci che lavoravano nella caverna si limitavano a spingere i frammenti giù
dalla cornice.
Jarl ammise di non essere riuscito a capire la funzione dei 200 monaci circa, in file di
otto o dieci, dietro l’arco dei diciannove strumenti. Non emettevano alcun suono, limitandosi a
osservare il tragitto di volo dei blocchi di pietra che salivano verso la parete.
A suo parere potevano essere lì per imparare la tecnica, o eventualmente per rimpiazzare i
monaci che
battevano sui tamburi e soffiavano nelle trombe. Oppure, concluse, per conferire un’atmosfera
religiosa alla scena o magari avevano usato una forma di psicocinesi coordinata per agevolare il
volo delle pietre.
L’aspetto più rivelatore del racconto è la meticolosità dei dettagli con cui Jarl registra
il procedimento svoltosi quel giorno.
Annota ogni distanza, ogni angolo, ogni misura, riferendo anche dati apparentemente
insignificanti. Sono troppe le informazioni presenti nella relazione conservata da Henry Kjellson
per liquidarla come puro parto della fantasia.
La scelta degli strumenti, le specifiche distanze e gli angoli, il posizionamento dei
blocchi di pietra su un masso a tazza al livello del suono, l’aumento graduale del suono delle
percussioni, tutto fa pensare a una scienza esatta, a una tecnologia sonica ben nota alla comunità
monastica visitata da Jarl. Una delle affermazioni più interessanti è quella che riguarda il modo in
cui tutti gli strumenti erano costantemente puntati sul blocco di pietra, dall’inizio al momento in
cui giungeva a destinazione.
Se è vero che le comunità monastiche tibetane usavano il suono per far levitare a grandi
altezze blocchi di pietra, com’era possibile? Che cosa dobbiamo pensare dei 200 monaci schierati
dietro i diciannove strumenti? Qual era la loro funzione?
Raggiungere una forma di psicocinesi coordinata, come sembra credere Jarl? Non lo sappiamo.
Quello che sappiamo è
che l’idea di usare il potere della mente per muovere le rocce faceva parte un tempo della rigida
pratica di meditazione nota come dogchen, una dottrina segreta trasmessa oralmente dai seguaci del
lamaismo tibetano e da singoli sciamani appartenenti a una religione prebuddista che ha il nome
di Bonpo.
Cantando in silenzio
Il resoconto di Jarl rappresenta un’affascinante testimonianza di un tipo di tecnologia
sonica di cui il mondo oggi ha perduto la conoscenza. Di per sé potrebbe non essere molto di più, ma
fortunatamente non è l’unico esempio conservato da Kjellson.
Nel 1939 l’ingegnere e scrittore svedese assisté a una conferenza tenuta da un cineasta
austriaco, chiamato Linauer, sui suoi viaggi in Tibet. Kjellson ebbe l’occasione in seguito di
discutere a lungo sulle sue affermazioni e, convintosi della loro autenticità, le incluse nel suo
libro Forsvunnen teknil ( Tecnologia scomparsa ), pubblicato nel 1961. Quello a cui Linauer
sosteneva di aver assistito confermerebbe il racconto di Jarl, e getta nuova luce su quanto sappiamo
a proposito delle presunte tecniche ultrasoniche dei costruttori delle piramidi.
Linauer affermò che, mentre si trovava presso un monastero isolato nel nord del Tibet, negli
anni Trenta, ebbe il privilegio di assistere a eventi davvero fuori del comune. Tra questi la
dimostrazione che due curiosi strumenti sonori, usati in combinazione, erano in grado di sfidare le
leggi della natura a cui la scienza ortodossa aderisce in modo così rigoroso.
Il primo di questi strumenti era un gong enorme montato verticalmente su un telaio di legno.
Aveva un diametro di 3,5 metri ed era composto da tre diversi metalli: la sezione circolare al
centro era d’oro massiccio, e attorno a questo c’era un anello concentrico di ferro puro; questi due
metalli erano cinti da un terzo anello di ottone di estrema durezza, che apparentemente possedeva
una certa elasticità. L’area centrale, invece, era così duttile che un’unghia vi lasciava il segno.
L’aspetto del gong faceva pensare ad un enorme bersaglio metallico. I1 suono che emetteva
quando veniva percosso non aveva nulla a che vedere con quelli prodotti da strumenti simili, perchè
invece di emettere una potente nota continua e sostenuta, produceva una sorta di tonfo sommesso che
cessava quasi istantaneamente.
Il secondo strumento era anch’esso composto da tre diversi metalli, anche se Linauer non fu
in grado di identificarli con esattezza. Secondo i suoi calcoli era alto 2 metri e largo 1 (Kjellson
non fornisce la profondità), mentre la sua forma viene detta semiovale, simile a quella del guscio
di una cozza.
Sopra la superficie concava erano tese longitudinalmente delle corde ed era sostenuto da
una struttura che lo manteneva fisso in posizione leggermente rialzata. I monaci dissero a Linauer
che quel curioso strumento a corda non veniva suonato né toccato, ma semplicemente cantava in
silenzio, emettendo, secondo le parole di Kjellson, <
In combinazione con questi strani strumenti veniva usata una coppia di schermi,
accuratamente posizionati in modo da formare un triangolo con i primi due, il cui scopo sembrava
quello di raccogliere, contenere e riflettere l’<
emessa dallo strumento semiovale.
Quando fu il momento di una dimostrazione pratica, un monaco armato di una grossa mazza si
avvicinò al gong e cominciò a colpirlo traendone una serie di brevi suoni a bassa frequenza che
dovevano avere un effetto peculiare sui sensi dell’ udito.
Il gigantesco guscio di mollusco cominciò a emettere quella che immagino fosse una
successione di ultrasuoni che, raccolti e deviati, provocavano una temporanea assenza di peso in
blocchi di pietra.
Quando ciò avveniva, un monaco poteva sollevare con una sola mano una queste pietre. Linauer
fu informato che con questa tecnica i loro antenati avevano potuto costruire la muraglia di
protezione intorno all’intero Tibet.
I monaci gli assicurarono anche (ma di questo lui non fu testimone diretto che quegli
strumenti, e altri simili, potevano essere usati per disintegrare o dissolvere la materia fisica.
Il prezioso racconto di Linauer sembrerebbe aggiungere argomenti a sostegno della tesi che
isolate comunità monastiche nel Tibet più remoto fossero in grado di usare il suono per togliere
peso alle pietre. Se riusciamo ad accettare come autentiche storie del genere, si rafforza la
probabilità che le leggende arcaiche che in Egitto, in Bolivia, in Messico e nell’antica Grecia
raccontano di mura, templi e perfino città costruite con strumenti sonori avevano una base reale,
per quanto distorta. Inoltre, il racconto di Linauer sull’ “onda di risonanza” usata per “dissolvere
la materia” conferma le scoperte di Christopher Dunn a proposito dell’ impiego degli ultra suoni per
perforare il granito da parte dei costruttori delle Piramidi
Non disponiamo di elementi per capire come mai isolate comunità religiose tibetane
praticassero forme di tecnologia sonica ancora nella prima metà del ventesimo secolo. È possibile
che le avessero ereditate da qualche cultura precedente, prebuddista, come quella dei monaci di
Bonpo, la religione sciamanica indiana che influenzò profondamente le pratiche rituali del lamaismo
tibetano. Altrettanto possibile è che, totalmente prive di contatto con il mondo esterno, le scuole
monastiche sviluppassero queste capacità del tutto autonomamente. Forse la loro profonda conoscenza
delle leggi universali li mise in rado di scoprire un mezzo con cui controllare le forze della
natura in un modo totalmente diverso dalla visione della scienza che ha il nostro mondo.
Per i religiosi del Tibet, le leggi di gravità di Newton e della relatività di Einstein
semplicemente non esistevano, quindi non potevano intralciare la via del progresso. Ma se accettiamo
questa ipotesi, dobbiamo anche immaginare che la cultura egiziana degli Anziani possedeva un’eguale
lettura del mondo tanto che fu in grado di sviluppare una conoscenza delle leggi universali che va
al di là dell’immaginazione del mondo scientifico. Se così fosse, dobbiamo anche concludere che è
solo il nostro approccio rigido e dogmatico a impedirci di sviluppare tecnologie che non sopportano
le restrizioni dei limiti della scienza ortodossa.
La perdita più grave
Riconoscere che il lamaismo tibetano potrebbe aver sviluppato, o forse ereditato, una conoscenza
avanzata della tecnologia sonica ci porta a chiedere come sia stato possibile che questa notizia non
sia mai trapelata nel mondo occidentale. La risposta a questo inquietante interrogativo è un curioso
paradosso. Quando Linauer assisté alle straordinarie proprietà del grande gong e dello strano
strumento a forma di cozza, i monaci gli spiegarono che avevano custodito gelosamente i segreti
della loro tecnologia perché non venisse sfruttata male nel mondo esterno. Di norma i viaggiatori
stranieri non venivano ammessi ad assistere agli effetti prodotti dai loro incredibili strumenti. I
monaci precisarono che la ragione di tanta riservatezza era la convinzione che se avesse raggiunto
l’Occidente, questo antico potere sarebbe stato sfruttato a fini egoistici e distruttivi, e non
potevano permetterlo. Una decisione simile è perfettamente comprensibile; il risultato però è stato
che le testimonianze offerte da viaggiatori occidentali come Jarl e Linauer sono le uniche notizie
che abbiamo in proposito. Inoltre, la distruzione del lamaismo tibetano a opera della Rivoluzione
Culturale cinese già dagli anni Cinquanta ha privato il mondo scientifico della sua migliore
occasione di confermare che la tecnologia sonica era ancora praticata negli anni Trenta. Nonostante
le affermazioni contrarie della propaganda cinese, l’occupazione del Tibet prosegue oggi più brutale
che mai.
Molti esuli tibetani sono perfettamente al corrente delle storie incredibili che parlano di
un tempo in cui i loro antenati avevano la capacità di far levitare blocchi di pietra e di
disintegrare la roccia con il solo potere del suono. Questa sfida alle leggi naturali è oggi poco
più di un ricordo che va rapidamente sbiadendo nella mente di anziani monaci e lama. Che queste
antiche scienze siano state preservate per millenni per poi andare perdute nell’epoca moderna è
davvero una perdita gravissima.
Leggere i racconti di Jarl e Linauer e rendersi conto che oggi non esistono più neppure i
monasteri è un fatto di una tragicità estrema.
La fiamma della conoscenza si era estinta completamente? Esisteva il modo di riattizzarla
ricostruendo i fondamenti teorico-fisici alla base di questa scienza apparentemente perduta, nota al
mondo antico? Intendevo scoprirlo con ogni mezzo possibile.
Questo è quanto scrive A. Collins, e cerca con testimonianze storiche di dimostrare come sono state
costruite molte Piramidi e Templi in così breve tempo su terreni limitati che non potevano contenere
gli operai e le attrezzature necessarie, almeno secondo la nostra conoscenza scientifica.
fine
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