Le qualità della meditazione nell’assistenza ai malati terminali

pubblicato in: AltroBlog 0

Le qualità della meditazione
nell’assistenza ai malati terminali
Intervista con Frank Ostaseski*

Da: ‘”La rete di Indra buone notizie” anno III, n. 3, 1999

D: Da alcuni anni dirigi lo Zen Hospice di San Francisco, un’esperienza iniziata nel 1987, Come sei
arrivato a coniugare la meditazione e l’assistenza ai malati terminali? Che cosa ti ha portato a
realizzare questo progetto?

R: Abbiamo iniziato con un’idea molto semplice: nella pratica della meditazione le persone
sviluppano quella che io chiamerei la mente che ascolta, la capacità di ascoltare molto intimamente
la propria esperienza. Mi è sembrato che ci fosse un accostamento naturale tra coloro che stanno
imparando ad ascoltare e coloro che hanno bisogno di essere ascoltati almeno una volta nella loro
vita. Abbiamo iniziato così, semplicemente.
Per accompagnare le persone che muoiono dobbiamo includere noi stessi nell’equazione. Dobbiamo
investigare ed esplorare la nostra relazione con la situazione in atto in modo da poter essere di
aiuto. Se non abbiamo fatto questo tipo di ricerca, allora le persone che stanno morendo sapranno
che stiamo solo cercando di indovinare, mentre diciamo di capire.

Una delle esperienze basilari con cui entriamo in contatto attraverso la meditazione è quella
dell’impermanenza, ossia realizzare che tutto cambia: ogni pensiero va e viene e così ogni
relazione, ogni amore. Quando capiamo profondamente tutto questo dentro di noi, nel cuore, allora
capiamo anche che la morte è nella natura di tutte le cose. E tenendola così vicino, sulla punta
delle dita, cominciamo ad apprezzare il fatto che la morte sia la nostra consigliera e che sia lì,
vicino a noi, per aiutarci, per informarci. Ecco perché tutte le tradizioni spirituali che conosco
ci ricordano in un modo o nell’altro di vivere accanto alla morte: per realizzare la precarietà
della nostra vita e per accoglierne la preziosità, in modo da non perdere neppure un attimo.
Per me essere vicino ai morenti è la cosa più vitale che possa fare; essere con la morte è vivere
pienamente la propria vita, entrare in contatto con la pienezza e la bellezza della vita. Per me è
un lavoro di grande soddisfazione.

D: Al giorno d’oggi non si ha una grande familiarità con la morte, si tenta di nasconderla. Cosa
rispondi a chi ti chiede perché investire così tanta energia, così tante risorse per assicurare
un’assistenza medica ai malati terminali?

R: A volte io vedo il problema al contrario. Vedo cioè quanta energia viene sprecata per evitare
questo. Negli Stati Uniti si investono molti soldi per gli ultimi sei mesi di vita delle persone,
per cercare di allontanare il problema. Si allontanano gli anziani, si spendono milioni
nell’industria dei cosmetici per apparire giovani, anche quando siamo già nella bara. E’ pazzesco!
Sarebbe bello non vivere la vecchiaia come una decadenza e cambiare la pratica medica alla luce di
come si deve vivere la vita! Assistere le persone che muoiono è un’esperienza incredibile, avere
l’onore di accompagnare le persone in un momento così unico e vulnerabile della loro vita è il
miglior rinnovamento per la mia vita. Poter aiutare in quel momento ed essere testimone mi insegna a
vivere. Nella mia esperienza accompagnare una persona nella sua morte è un beneficio per entrambi:
io la assisto nel momento della morte e lei mi insegna a vivere.

Vorrei aggiungere ancora qualcosa sulla medicina. Siamo portati a pensare che la morte sia un evento
che riguarda la medicina, ma non è cosi; non e un evento che riguarda solamente i medici, perciò non
possiamo affidare solo a loro questo compito. Morire è una questione relazionale: si tratta della
relazione che si ha con se stessi, con le persone che si amano, con Dio o con Colui al quale noi
pensiamo di affidare le nostre ultime speranze. Così chiunque si occupi di accompagnare un morente,
deve facilitarne le relazioni ed entrare in una totalità. Bisogna offrire il meglio che la medicina
può dare per quanto riguarda il controllo dei sintomi, ma non si può guardare alla morte solo come
un evento clinico.

Forse a questo punto è bene descrivere che cosa sia veramente l’hospice: si tratta di un metodo di
cura per persone generalmente negli ultimi sei mesi di vita che enfatizza soprattutto le cure
palliative focalizzandosi principalmente sul benessere del paziente, assicurandosi che ci si occupi
della sua sofferenza e che i sintomi vengano curati. Ci si prende cura non solo della malattia, ma
dell’uomo con le sue emozioni, dei rapporti con la sua famiglia, delle sue esigenze esistenziali e
spirituali. Questo avviene lavorando in squadra con medici, infermieri, assistenti sociali,
volontari e ministri di culto: cerchiamo tutti insieme di sostenere le persone e le loro famiglie. t
molto importante sia il paziente sia la famiglia. Di solito interveniamo negli ultimi sei mesi di
vita, ma a volte le persone si fermano solo qualche giorno, oppure più di un anno, dipende.

D: La presenza di un progetto come quello dello Zen Hospice influisce sull’atteggiamento delle
persone, produce secondo te dei cambiamenti?

R: Spero che il progetto dello Zen Hospice possa avere un’influenza al di là delle persone che
entrano in contatto diretto con il progetto. Credo che tutte le volte che la compassione si attiva
ed entra nel mondo circola in cerchi concentrici. Più specificamente penso che a livello di
educazione possiamo avere un forte impatto. Vorrei fare un esempio: a un seminario che abbiamo
organizzato ha partecipato una dottoressa che ci ha raccontato che uno dei suoi compiti in ospedale
era quello di girare nei reparti di notte, e verificare i decessi, dichiarare la morte dei pazienti.
Ci raccontò che questo stava alimentando in lei un senso di cinismo e di esaurimento e si chiedeva
se voleva ancora fare il medico. Quel lavoro le aveva fatto perdere il contatto con la sua parte
umana e voleva smettere. Le consigliai di rapportarsi ai suoi antenati, al suo lignaggio di
provenienza: i medici sono gli eredi degli sciamani, dei guaritori, dei filosofi greci, e le
consigliai di riferirsi a loro per trovare un sostegno. Quando si avvicinava al letto del paziente,
il suo camice era la veste cerimoniale, c’era un modo diverso di accostarsi alle persone. Apprezzò
il consiglio, ma non decise niente. Dopo alcuni mesi da un altro amico venni a sapere che la donna
era tornata nel gruppo di supporto e aveva spiegato che cosa le era successo e di come ora si
prendeva cura dei pazienti: si avvicinava a loro portando con se una piccola scatola e, quando
entrava nella stanza, apprestava un piccolo altare, accendeva una candela e poi ungeva con dell’olio
la persona, la baciava augurando buon viaggio a chi se ne stava andando, rimanendo poi vicino alla
famiglia. Questo è il modo in cui ora fa il suo lavoro.
Non sappiamo quale sarà il valore dei nostri atti nel futuro, ma spero che l’influenza dello Zen
Hospice si farà sentire in un modo che neppure io conosco.

D: Vorremmo tornare al legame tra la meditazione, il buddhismo, e l’accompagnamento ai morenti.

R: Per essere in grado di curare, bisogna arrivare vicini al centro: è un lavoro che richiede grande
intimità, non si può farlo restando distaccati. Perciò ci dobbiamo avvicinare molto. Questo
significa che dobbiamo avvicinarci anche molto a noi stessi, cioè entrare in un territorio che ci
può spaventare molto. La resistenza a entrarvi blocca la compassione e ci porta a sforzarci affinché
la situazione sia diversa da quella che è. Bisogna voler entrare in questo territorio e ricercare
insieme alle persone che soffrono e fare di questa ricerca un ponte di empatia per lavorare insieme.
Ed è solo in questo modo che possiamo entrare in relazione. Negli Stati Uniti si usa l’espressione
“calore professionale” per riferirsi all’atteggiamento dei medici che sembrano avere compassione, ma
in realtà sono solo comprensivi. Così non si guarisce: bisogna essere vicini e rischiare di
spezzarsi il cuore. La pratica della meditazione ci mostra come fare la ricerca, ci dà gli strumenti
per esplorare la nostra vita interiore perché solo così riusciremo a capire che cosa può servire a
un altro essere umano di fronte alla morte. Ecco perché secondo me esiste una relazione molto
stretta tra la pratica della meditazione e il prendersi cura.

Nello Zen Hospice chiediamo a tutto il nostro staff e ai volontari di praticare, di fare la loro
pratica spirituale di meditazione come ricerca personale. Lo chiediamo perché crediamo che possa
aiutare a trovare un equilibrio e una maturità che sono essenziali se si vogliono incontrare i
bisogni delle persone che muoiono. Per questo tipo di lavoro bisogna avere una certa dose di
stabilità emotiva, così da non perdersi nel dramma del morente; bisogna essere presenti, fiduciosi e
solidali; la pratica della meditazione ci aiuta a sviluppare queste qualità. Durante la meditazione,
nello stare seduti, la vita interiore si manifesta anche nel suo dramma, ma tutto ciò che dobbiamo
fare è riuscire a non lasciarci trascinare a destra e a sinistra dalla corrente. Quando sediamo
vicino a un morente, ci troviamo di fronte la stessa situazione: c’è la paura, la sofferenza, la
depressione. Però il praticante rimane calmo, senza perdersi nell’esperienza, così da poter essere
veramente di aiuto e di assistenza al morente.
Questa è la qualità che cerchiamo di sviluppare.

D: In base alla tua esperienza ritieni che con la meditazione si possano assistere le persone non
solo nel momento della morte, ma anche aiutarle nell’angoscia e nella paura che provano davanti al
processo del morire?

R: Una delle cose in cui ci può aiutare la meditazione è proprio nello sviluppare la capacità di
rimanere calmi nelle situazioni difficili; ci può aiutare ad analizzare la natura della sofferenza.
Nella pratica Zen si dice che il non sapere è un’esperienza di intimità. Vuol dire che, quando non
sappiamo, la mente è aperta e dobbiamo quindi restare molto vicini all’esperienza per permettere a
essa di darci le informazioni. t come andare in una grotta buia di notte senza una luce: dobbiamo
sentire e procedere lentamente lungo le pareti in modo che le circostanze ci mostrino cosa fare. Di
solito, invece, siamo così pieni di nozioni, di tecniche, di conoscenze che tutto questo limita
effettivamente la nostra cognizione su ciò che è possibile. L’immagine e ristretta a ciò che
sappiamo e non ci permette di vivere nel mistero di ciò che non sappiamo. Personalmente sono molto
più interessato al mistero che alla maestria [in inglese: mystery/mastery].

D: Possiamo chiederti come hai iniziato?

R: Tutti mi chiedono come e perché abbia iniziato a fare questo lavoro. La pratica buddhista ci
insegna che sono molteplici le circostanze che portano alla nascita di una situazione. Non credo che
nessuno di noi sappia veramente perché è arrivato a qualcosa. Io sono stato sicuramente influenzato
dalla morte dei miei genitori, dal mio lavoro nei campi profughi in Centro America, dal mio studio
con vari insegnanti; ma soprattutto credo che il motivo principale sia stato la mia sofferenza
personale. Ho incontrato molto dolore e ho pensato che, forse, aiutando la sofferenza più grande
degli altri, avrei evitato la mia. La pratica buddhista mi ha aiutato a non sfuggire la sofferenza,
a starci insieme senza scappare lontano, a fermarmi e imparare ad ascoltare.

Quando questo accade, si può esplorare la propria vita, la sofferenza che tutti abbiamo, e
naturalmente si comincia a capire che la sofferenza degli altri non è molto diversa dalla nostra. Da
questo momento di comprensione nasce la compassione. E in modo molto naturale nel buio ci
avviciniamo gli uni agli altri per darci la mano. Succede proprio così. E importante capire bene la
parola compassione: significa soffrire con gli altri. La possiamo praticare solo se ci siamo
avvicinati a noi stessi con una certa tenerezza. Quando Gesù è nel giardino di Getsemani dice ai
suoi Apostoli: “Restate qui e aspettate”. Non dice: “Portate via la mia sofferenza, fermate le
circostanze, allontanate la mia morte”. Dice solo: “Restate qui con me ed aspettate”.

Ed è ciò che facciamo con le persone che muoiono, restando vicino a loro, presenti con loro in quel
momento. Aprendo il nostro cuore alla loro sofferenza. Questa è la base del nostro lavoro. Quando
cominciamo a vedere che la sofferenza degli altri è anche la nostra, allora anche il modo in cui ci
occupiamo di loro vuol dire che è fondamentalmente cambiato: non sono più loro i sofferenti e noi i
bravi ragazzi, ma siamo tutti nella stessa barca. Chi volete vicino al vostro letto? Qualcuno a
pagamento o qualcuno che veramente apprezza l’esperienza e condivide con voi la vostra sofferenza?
Il modo in cui tocchiamo, in cui giriamo il paziente nel letto, o come gli mettiamo la mano sulla
fronte, può cambiare quando c’è paura. Non vogliamo che la pratica buddhista sia separativa, ma che
sia attiva nella nostra vita. Il nostro lavoro non consiste tanto nell’essere buddhisti, ma essere
dei Buddha! Non importa avere la tonaca buddhista, ma arrivare direttamente vicino alla persona che
soffre e incontrarla con onestà.
Tutti abbiamo la capacità di abbracciare la sofferenza di un altro, lo abbiamo fatto per centinaia
di anni gli uni con gli altri, ma lo abbiamo dimenticato. Dobbiamo solo ricordarcene.

Siamo diventati così professionali nel prenderci cura di noi, che abbiamo paura; dobbiamo recuperare
questa attività che ci fa incontrare gli altri. Occuparci dei morenti sta diventando un peso, un
obbligo. Dobbiamo invece vederla come un’opportunità di risveglio. Penso che sia importante fare una
distinzione tra curare e guarire. Anche quando non c’è più la speranza di curare la malattia, esiste
sempre la possibilità di guarire lo spirito, di guarire la separazione, la relazione tra noi e gli
altri. Alla fine, guarire significa rimuovere le astrazioni che ci tengono separati gli uni dagli
altri e da noi stessi. Il modo in cui possiamo aiutare a guarire è prestare una grande attenzione, e
come esseri umani abbiamo questa grande capacità. Questo è quello che possiamo fare gli uni per gli
altri.
In America, nei negozi di roba usata, c’è una targhetta sui vestiti che dice: as is; vuol dire:
“così com’è”. Non c’è garanzia, a volte c’è una macchia o un piccolo buco. Dovremmo girare con
addosso delle piccole etichette con su scritte queste parole: ti prendo come sei. Il più bel regalo
che possiamo fare a una persona che muore è accettare la sua esperienza totalmente, così come è,
qualunque sia la sua faccia.

*Frank Ostaseski è stato il fondatore, nel 1987, dello Zen Hospice Project e oggi ne è l’insegnante
guida. Attraverso il suo insegnamento e i suoi scritti ha introdotto migliaia di persone negli Stati
Uniti e in Europa all’esercizio della compassione e della consapevolezza nell’accompagnamento dei
morenti. Tiene regolarmente conferenze e ritiri in varie parti del mondo per chi è impegnato in
attività di assistenza e per chi sta affrontando malattie gravi. Viene regolarmente in Italia dal
1999.

www.reteindra.org

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *