del Venerabile Ajahn Sumedo
– terza parte
LA PRIMA NOBILE VERITÀ’
Qual’è la Nobile Verità della Sofferenza? La nascita è sofferenza, la
vecchiaia è sofferenza, la morte è sofferenza. Separarsi da ciò che si ama
è sofferenza, non ottenere ciò che si desidera è sofferenza: tutte le
cinque categorie dell’attaccamento sono sofferenza.
C’è la Nobile Verità della Sofferenza: questa fu la visione, l’intuizione,
la saggezza, la conoscenza e la chiarezza che sorsero in me su cose mai
udite prima.
Questa Nobile Verità deve essere penetrata attraverso la piena
comprensione della sofferenza: questa fu la visione, l’intuizione, la
saggezza, la conoscenza e la chiarezza che sorsero in me su cose mai udite
prima.
Questa Nobile Verità è stata penetrata con la piena comprensione della
sofferenza: così fu la visione, l’intuizione, la saggezza, la conoscenza e
la chiarezza che sorsero in me su cose mai udite prima.
(Samyutta Nikaya LVI, 11)
La Prima Nobile Verità, con i suoi tre aspetti, è: ‘C’è la sofferenza, dukkha.
Bisogna comprendere dukkha. Dukkha è stato compreso’.
E’ questo un insegnamento molto efficace, perché è stato espresso con
formule semplici, facili da ricordare, e si riferisce a tutto ciò che è
possibile sperimentare, fare o pensare, nel passato, presente e futuro
La sofferenza o dukkha è il travaglio che tutti condividiamo. Tutti
ovunque soffrono. Gli esseri umani soffrirono nel passato, nell’antica
India; essi soffrono nell’Inghilterra di oggi; e anche nel futuro gli
esseri umani soffriranno… Cosa abbiamo in comune con la Regina
Elisabetta? La sofferenza. Cosa abbiamo in comune con il vagabondo di
strada? La sofferenza. Vi sono inclusi tutti, dagli esseri umani più
privilegiati fino ai più disperati e negletti, passando da ogni categoria
intermedia. Tutti ovunque soffrono. E’ un legame che ci accomuna, qualcosa
che tutti comprendiamo.
Quando parliamo della sofferenza umana, si sviluppano le nostre tendenze
compassionevoli, ma quando parliamo delle nostre opinioni, delle cose che
io penso o che tu pensi sulla politica o la religione, allora corriamo il
rischio di azzuffarci. Ricordo un film che vidi a Londra qualche anno fa.
Cercava di presentare i russi in modo umano, mostrando le donne russe con i
bambini in braccio e gli uomini russi che andavano a far picnic con i loro
figli. A quei tempi era diffìcile che si descrivessero i russi in quel
modo, poiché la propaganda occidentale li descriveva sempre come mostri
titanici o gelidi serpenti a sangue freddo; non si pensava mai a loro come
ad esseri umani. Se volete uccidere qualcuno dovete toglierlo dal contesto
‘umano’; non è facile uccidere qualcuno quando sapete che soffre come voi.
Dovete pensare che sia gelido, immorale, stupido e cattivo, e che, tutto
sommato, sia meglio sbarazzarsene. Dovete pensare che è un tipo crudele e
che è un bene distruggere la cattiveria. E’ questo atteggiamento che
fornisce la giustificazione ai bombardamenti e agli sterminii. Ma non si
potrà agire in quella maniera se si tiene presente il comune legame della
sofferenza.
La Prima Nobile Verità non è una cupa asserzione metafisica, che proclama
che tutto è sofferenza. C’è una grande differenza tra una dottrina
metafisica in cui si asserisce qualcosa circa l’Assoluto ed una Nobile
Verità, che è una riflessione. Una Nobile Verità è una verità su cui
riflettere; non è un assoluto; non è l’Assoluto. E’ qui dove gli
Occidentali rimangono confusi, poiché interpretano questa Nobile Verità
come una specie di verità metafìsica del Buddhismo. Ma non si deve affatto
intenderla così.
La Prima Nobile Verità non è una affermazione assoluta, ma fa parte delle
Quattro Nobili Verità, che sono la via della non sofferenza. Non si può
avere sofferenza assoluta e poi avere una via d’uscita. Non è sensato.
Eppure vi è gente che estrapolando la Prima Nobile Verità, dice che il
Buddha ha insegnato che tutto è sofferenza.
La parola pali dukkha significa ‘(qualcosa) incapace di soddisfare’
oppure ‘incapace di resistere o durare’: quindi mutevole, incapace di
soddisfarci completamente o di farci felici. Così è il mondo dei sensi,
solo una vibrazione nella natura. Sarebbe infatti terribile se noi
trovassimo soddisfazione nel mondo dei sensi, perché allora non cercheremmo
di trascenderlo; saremmo legati ad esso. Invece, man mano che ci
risvegliamo a dukkha, cominciamo a cercare una via d’uscita, per non
essere più intrappolati nella coscienza dei sensi.
SOFFERENZA E ILLUSIONE DI UN SE’
E’ importante riflettere sulla formulazione della Prima Nobile Verità. E’
enunciata molto chiaramente: “C’è la sofferenza” e non “Io soffro”.
Psicologicamente è un modo molto efficace di esprimersi. Tendiamo ad
interpretare le sofferenze come* “Io* sto soffrendo. Soffro molto – e non
voglio soffrire”. Questo è il modo in cui la nostra mente condizionata
pensa.
“Io sto soffrendo” porta all’idea di “Io sono qualcuno che sta soffrendo
molto. Questa sofferenza è mia; io ho avuto tante sofferenze nella mia
vita”. Quindi comincia l’intero processo di identificarsi con se stessi e
con la propria memoria. Cominciate a ricordare cosa vi è capitato da
bambini… e così via.
Invece dobbiamo vedere che non c’è qualcuno che ha delle sofferenze. Se
vediamo semplicemente che “c’è la sofferenza”, allora questa non è più una
sofferenza personale. Non è: “Oh povero me, perché devo soffrire così
tanto!? Che ho fatto per meritarmelo? Perché devo invecchiare? Perché devo
avere dolore, sofferenza, angoscia e disperazione? Non è giusto! Non lo
voglio. Voglio solo felicità e sicurezza”. Questo tipo di ragionamento
viene dall’ignoranza, che complica ulteriormente la situazione e sfocia in
problemi di personalità.
Per poter lasciare andare la sofferenza dobbiamo prima esserne coscienti,
ammetterla nella coscienza. Ma l’ammissione, nella meditazione buddhista,
non viene da una posizione del tipo: “io sto soffrendo”, ma piuttosto “c’è
la presenza della sofferenza”. Infatti non dobbiamo cercare di
identificarci con il problema, ma semplicemente riconoscere che ce n’è uno.
E’ sbagliato pensare in termini di: “sono una persona arrabbiata; mi
arrabbio così facilmente; come posso eliminare la mia rabbia?” In questo
modo si evidenziano tutti gli assunti che ci fanno credere nella presenza
di un Io personale. Da questo punto di vista è diffìcile avere una
prospettiva corretta. Tutto diventa confuso, perché la sensazione dei*
miei problemi o dei
miei pensieri mi porta a reprimerli o a dare giudizi su di essi o a
criticare me stesso. Tendiamo ad afferrare e ad identificarci piuttosto che
a osservare, a essere testimoni, a comprendere le cose così come sono.
Quando si ammette semplicemente che c’è un certo senso di confusione, che
c’è dell’avidità o dell’ira, questa stessa ammissione è un’onesta
riflessione su ciò che è; così facendo, togliete tutti gli assunti
sottintesi – o almeno li indebolite.
Quindi non aggrappatevi a queste cose come a difetti personali, ma
contemplatele costantemente come impernenti, insoddisfacenti e prive di un
sé. Continuate a riflettere, vedendole così come sono. La tendenza è di
vedere la vita partendo dall’assunto che “questi sono i miei problemi” –
e ci si sente molto onesti e franchi nell’ammetterlo! Ma così facendo si
tende sempre più a riaffermare questa visuale, che parte dall’assunto
sbagliato. Anche questo punto di vista però è impermanente, insoddisfacente
e privo di un sé.
“C’è la sofferenza” è il riconoscimento molto chiaro e preciso che in quel
momento vi è una sensazione di infelicità. Può andare dall’angoscia e
disperazione a una mera irritazione;* dukkha* non vuol dire per forza grave
sofferenza. Non dovete essere brutalizzati dalla vita, non dovete uscire da
Auschwitz o Belsen per dire che c’è la sofferenza. Perfino la Regina
Elisabetta può dire: “C’è la sofferenza”. Sono certo che anche lei ha
momenti di grande angoscia e disperazione o, almeno, momenti di irritazione.
L’esperienza del mondo sensoriale avviene per mezzo delle sensazioni, e ciò
significa che viviamo sempre tra il piacere e la pena, cioè nel dualismo del
samsara. E’ come essere esposti e molto vulnerabili, poiché reagiamo a
tutto ciò con cui il corpo ed i sensi entrano in contatto. E’ così che
vanno le cose. Questa è la conseguenza della nascita.
NEGARE LA SOFFERENZA
Di solito non vogliamo riconoscere la sofferenza, vogliamo solo eliminarla.
Appena sorge un problema o un guaio, la tendenza dell’essere umano non
risvegliato è quella di sbarazzarsene o sopprimerlo. E si può vedere come
la società moderna sia tutta tesa a cercare piaceri e gioie in ciò che è
nuovo, eccitante, romantico. Tendiamo a dare importanza alla bellezza ed ai
piaceri della gioventù e ad accantonare i lati brutti della vita, come
vecchiaia, malattia, morte, noia, disperazione e depressione. Quando ci
troviamo di fronte a ciò che non vogliamo, ce ne allontaniamo per cercare
ciò che ci piace. Se proviamo noia, andiamo a fare qualcosa di
interessante. Se ci sentiamo spaventati, cerchiamo di trovare qualche
sicurezza. E’ una cosa assolutamente normale! Siamo sottoposti a questo
principio di piacere/dolore, a cui consegue attrazione/repulsione. Quindi,
se la mente non è ricettiva, è forzatamente selettiva: sceglie ciò che ama
e tenta di sopprimere ciò che non ama. E così dobbiamo sopprimere una gran
parte della nostra esperienza, poiché molte cose che sperimentiamo sono
inevitabilmente spiacevoli.
Se capita qualcosa di spiacevole, diciamo: “Vattene!” Se qualcuno ci
ostacola, diciamo “Eliminiamolo!” Spesso si può notare questa tendenza nel
comportamento dei governanti… E’ tremendo pensare a che tipo di persone
ci governano, gente ancora ignorante e poco illuminata. E’ la mente
ignorante che pensa allo sterminio: “Ecco una zanzara; uccidila!” “Quelle
formiche stanno invadendo la stanza; uccidile con lo spray!” In Inghilterra
c’è un’associazione chiamata Rent-o-Kil. Non so se sia una specie di mafia
all’inglese o altro; comunque è specializzata nell’eliminazione dei
“flagelli”, comunque si voglia interpretare l’espressione ‘eliminare i
flagelli’.
(continua)
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