LE RADICI DELLA SPIRITUALITÀ 1

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LE RADICI DELLA SPIRITUALITÀ 1

da “Enciclopedia olistica”

di Nitamo Federico Montecucco ed Enrico Cheli

LE RADICI DELLA SPIRITUALITÀ

L’ANIMA DELL’ORIENTE

L’Oriente ha generato templi concettuali di estrema raffinatezza e splendore tutti fondati sul
concetto di unità. L’Oriente comprende e conosce l’unità dell’esistenza scoprendo l’essenza
dell’unità umana: l’Atman, la pura coscienza del Sé, attraverso una scienza spirituale basata su
precise tecniche di ricerca. Da questa prima esperienza-conoscenza si scopre che non c’è divisione
tra coscienza individuale e coscienza cosmica, e si realizza, attraverso gli stati di profonda
meditazione, l’identità tra Atman e Brahman, la coscienza del Tutto. Il modello di fondo è quindi
l’unità del Tutto che viene spesso raffigurato come cerchio, sfera od ovoide. Tutte le grandi
culture spirituali orientali tendono all’esperienza dell’unità con il Tutto, cambiano solo i termini
e le modalità: Yoga, Tao, Dharma, Kaivalya, Moksha, Nirvana sono modi diversi per indicare uno stato
di realizzazione non-duale. In questo percorso alla ricerca dell’unità di coscienza il pensiero
orientale rimane incompleto, perdendo di vista la materia e le sue logiche meccaniche più complesse.

L’Oriente e, in particolare, le culture indo-tibetane sono fortemente orientate alla conoscenza
della coscienza e della sua evoluzione. Per millenni in India milioni di ricercatori spirituali
hanno continuato a esplorare le varie dimensioni interiori, scoprendo l’esistenza di stati di
coscienza sempre più profondi e uniti alla coscienza del Tutto. Questa tradizione estremamente
preziosa è stata tramandata in piccola parte con testi scritti ed in massima parte “da maestro a
discepolo”: alcune scuole di ricerca spirituale continuarono con la trasmissione diretta
dell’esperienza per migliaia di anni, ad esempio lo Shivaismo, il Giainismo, lo Yoga e il Tantra. La
tradizione più “recente” è il Buddhismo, che nacque “solo” duemila e cinquecento anni fa.

Nelle religioni occidentali, purtroppo, esiste una tradizione teologica staccata dall’esperienza
diretta e personale, per cui si può scrivere di Dio senza aver mai avuto un’esperienza mistica;
nelle tradizioni orientali invece si trascrive sui testi solo una sintesi del frutto
dell’esperienza. Spesso i testi sacri orientali non hanno un autore, ma sono scritti da interi
gruppi come condensato di un lavoro di scuola.

E’ particolarmente difficile estrarre delle colonne da queste filosofie viventi dell’esperienza
mistica, in quanto la loro complessità è enorme. Tuttavia, esistono alcuni punti ricorrenti, in gran
parte sintetizzati dal Taoismo, dall’Advaita Vedanta e dal Buddhismo Tantrico, che verranno ora
esposti come esempi significativi e non certo come uniche modalità di ricerca ed evoluzione della
coscienza.

Le due polarità dell’esistenza

In una società come la nostra, in cui da millenni vige una fortissima attitudine patriarcale, è
opportuno sottolineare che, nel pensiero spirituale originario, la donna e l’uomo erano
assolutamente sullo stesso piano. I miti della Grande Madre sono universali e sempre bilanciati da
un analogo mito del Grande Padre.

In India, Tibet e Cina, questa visione unitaria raggiunge certamente il suo apogeo. Le divinità
vengono qui raffigurate insieme e, spesso, nella posizione dell’atto amoroso. E’, peraltro, da
rilevare che la posizione sessuale non è quasi mai sdraiata ma seduta, così da rendere verticale
l’asse psicofisico interiore: questo permette di vivere l’atto amoroso come meditazione,
trasformandolo da istinto animale in pratica spirituale ed evolutiva.

Nell’India antica, Shiva, il dio maschile, viene raffigurato simbolicamente con un lingam, un fallo
eretto di pietra, marmo, ghiaccio (Amarnath) o metallo, Shakti, sua consorte con una yoni, una
vagina di forma ovale o circolare. E’ molto comune ritrovare nei vari templi questi due simboli
uniti e compenetrati che vengono venerati come immagine stessa del divino.

Questa visione unitiva viene trasmessa dall’India al Tibet e alla Cina dove assume il simbolo del
Tao in cui le due forze polari Yin e Yang si equilibrano. Il legame semantico-etimologico tra i
termini yin/yoni e yang/lingam appare evidente.

Nella tradizione tantrica questa unione polare diventa il fondamento della struttura metafisica
stessa. La visione tantrica shivaita, vede Shiva e Shakti come archetipi simbolici della coscienza e
dell’energia. Secondo questa concezione, l’intero universo nasce dall’unione della coscienza
immateriale ed invisibile con l’energia creativa. In ogni atomo di materia (ben conosciuto agli
Indiani), così come in ogni essere vivente vegetale o animale, o come in ciascun astro del cosmo, la
forma fisica dell’energia nasconde e implica una coscienza interiore. Non esiste materia o energia
priva del suo aspetto di coscienza immanente. Il rapporto sessuale che sta all’origine dell’intera
esistenza spiega come ogni nuova vita, ogni forma, venga creata attraverso un atto sessuale. Anche
la pulsazione e il ritmo dell’atto amoroso si ritrovano in ogni aspetto della vita sotto forma di
ciclo, di vibrazione o di pulsazione, dalle stagioni alle maree, dal battito del cuore e al respiro.
Tutta l’esistenza viene percepita come un continuo atto creativo che nasce dall’incessante relazione
d’amore della coscienza e dell’energia.

La visione taoista è assolutamente parallela a quella shivaita tantrica, sia per la consapevolezza
che l’essenza o coscienza è presente in ogni manifestazione dell’esistenza, sia per la comprensione
che tutto nasce dall’equilibrio del femminile col maschile, lo Yin e lo Yang. E’ interessante
ricordare che Niels Bohr, il grande fisico della scuola di Copenaghen, utilizzò il simbolo del Tao
come elemento di comprensione del mistero quantico dell’esistenza.

Shiva – Dioniso: la religione della natura, dell’individualismo e dell’eros

Lo Shivaismo è l’archetipo di tutte le religioni primitive, e quindi essenzialmente una religione
naturale. La devozione per Shiva, signore dei boschi e degli animali, diventa venerazione per ogni
forma vivente, per ogni creatura. La distruzione ecologica può avvenire solo quando non esista più
il riconoscimento per il grande spirito della Natura, adorato come Shiva o con infiniti altri nomi
da tutte le culture. La ripresa dell’amore per ogni forma di vita tipico della moderna ecologia
richiama questo antico dio, archetipo di tutte le religioni pagane. Nello Shivaismo ogni albero,
ogni animale è protetto da uno spirito, da un essere spirituale e così diventa mezzo e tramite per
connettere l’essere umano al divino.

Secondo la tesi di Shiva e Shakti, Shiva in India e Dioniso nella cultura greca rappresentano un
solo aspetto della gerarchia divina, quello che riguarda l’insieme della vita terrestre. Lo
Shivaismo, stabilendo un coordinamento realistico tra gli esseri sottili e gli esseri viventi, si è
sempre opposto all’antropocentrismo delle società urbane. Anche la sua forma occidentale, il culto
di Dioniso, rappresenta uno stadio in cui l’uomo è in comunione con la vita selvaggia, con gli
animali della montagna e della foresta. Dioniso, come Shiva, è un dio della vegetazione,
dell’albero, della vigna. E’ anche un dio animale, un dio toro. Questo dio insegna agli uomini a
irridere le leggi umane per ritrovare le leggi divine, il suo culto, che scatena le potenze
dell’anima e del corpo, ha incontrato viva resistenza da parte delle religioni urbane che lo hanno
considerato antisociale. Shiva, come Dionisio, viene da esse rappresentato come il protettore di
quanti si tengono lontani dalla società convenzionale. Simboleggia tutto ciò che è caotico,
pericoloso, inatteso, tutto ciò che sfugge alla ragione umana e può essere attribuito solo
all’azione imprevedibile degli dei. Già il Rig Veda, il libro sacro degli invasori Ari, prega il dio
Indra di non permettere che gli adepti del culto di Shiva, chiamati da essi Sisnadeva, gli adoratori
del fallo, possano accostarsi ai loro sacrifici rituali, tuttavia non si poté mai ignorare la
potenza della magia misteriosa del dio e si dovette far posto al culto di Shiva-Dioniso, nonostante
l’ostilità dimostratagli sempre dai signori della città.

Sacerdoti moralisti e fedeli estatici

Dio della giovinezza, degli umili e dell’ecologia, protettore degli animali e degli alberi, Shiva è
accusato di insegnare i segreti del sapere ai sudra, gli umili, di circondarsi di bande di giovani
che si fanno beffe delle istituzioni della società e dei governi degli anziani. Nello Shivaismo –
scrive Evola nel libro “Lo Yoga della potenza” – la trascendenza rispetto alle norme della vita
comune viene portata anche sul piano popolare per il fatto che Shiva, tra l’altro, è presentato come
il dio o il “patrono” di coloro che non conducono una vita normale e perfino dei fuorilegge.

Il contatto con le forze spirituali ricercato dai fedeli di Shiva o di Dioniso li porta a un rifiuto
del politico, delle ambizioni e dei limiti della vita socializzata. Non si tratta solo di
riconoscimento dell’armonia del mondo, ma di partecipazione attiva a un’esperienza che oltrepassa e
sconvolge l’ordinamento della vita materiale. H. Jeanmaire, nel libro “Dionisio”, scrive: Il
Dionisismo indicava la via della salvezza non già nella contemplazione dell’ordine divino, ma negli
slanci frenetici che precedevano e preparavano l’intima unione col Dio, nell’abbandono completo
dell’anima alla sua onnipotenza e nell’annientamento della ragione di fronte a tale onnipotenza.

I fedeli del dio sono chiamati Bacchoi (baccanti) in Grecia e Bhakta (devoti) in India. Essi pensano
che la vera saggezza risieda nell’ebbrezza dell’amore e dell’estasi, unica comunione con la natura e
con gli dei: le religioni della città invece inquadrano l’uomo in schemi frustranti e lo isolano dal
resto del creato. Questa concezione esalta la libertà e l’individualismo, ed è quindi molto distante
dalle religioni ortodosse e formali che predicano il livellamento morale e spirituale e pongono la
classe dei preti-sacerdoti come unico mezzo di dialogo con il divino. Lungo tutto il corso della
storia, le società e le religioni urbane e industriali, sfruttatrici e distruttrici del mondo
naturale, si sono opposte a ogni approccio ecologico o mistico, alla liberazione dell’uomo, alla sua
felicità. Le guerre, i genocidi, le distruzioni di intere civiltà hanno sempre avuto come base le
religioni della città.

Ogni volta che è riapparso il culto di Shiva o di Dioniso, è stato messo al bando dalla città, dove
si ammettono solo le fedi che danno all’uomo un posto smisurato, permettono e scusano i suoi
saccheggi, e condannano ogni forma d’estasi, ogni connessione diretta col mondo misterioso dello
spirito.

Lo Shivaismo e i suoi metodi, lo Yoga e il Tantrismo, costituiscono un approccio al mondo naturale e
sovrannaturale profondamente realistico, che tende periodicamente a ristabilire la propria influenza
quando gli uomini capiscono di essere sviati dal rispetto delle leggi naturali e quindi si
allontanano dalle religioni urbane per ritornare verso pratiche e riti più conformi alla ragion
d’essere della creazione.

Dharma, Dao, Dio: la radice del Tutto

Il Cielo e la Terra sono di una bellezza maestosa, ma non ne parlano; le quattro stagioni si
succedono secondo una legge evidente, ma non ne discutono; a tutti gli esseri presiede un ordine
costitutivo, ma essi non lo formulano. Il santo va alle origini della bellezza della Terra e del
Cielo e penetra l’ordine costitutivo di tutti gli esseri… Qualcosa di supremamente divino e
luminoso si trasforma con le cento metamorfosi del mondo. Gli esseri di quaggiù sono sottomessi fin
dalle origini alle metamorfosi in morte e in vita, in quadrato e in circolo, e ignorano la loro
comune radice; perché è così che questi esseri esistono naturalmente dall’Antichità ai nostri
giorni. Lo spazio che si trova tra i sei punti cardinali, benché immenso, é contenuto in Lui; la
lanugine autunnale benché minuscola riceve la sua forma da Lui. Tutti gli esseri scompaiono e
appaiono e si rinnovano incessantemente nel corso della loro vita. L’oscurità e la luce e le quattro
stagioni si alternano secondo un ordine regolare. Tenebrosa e sfuggente, é l’esistenza stessa; in
origine senza forma essa é trascendente. Tutti gli esseri del mondo lo posseggono in Sé e tuttavia
ignorano la sua esistenza. Viene chiamato la radice dell’universo. Colui che conosce questa radice
comune é degno di osservare il Cielo. Chuang-tzu

In questo scritto poetico di Chuang-tzu si riallacciano gli elementi dei due grandi miti, l’analogia
tra la radice dell’albero e la radice di ogni vita e coscienza. Dharma, Dao (Tao) e Dio hanno
un’apparente radice comune. Alla loro base è implicito un senso di legge intelligente, coerente e
armonica dell’esistenza, quello che i Greci chiamarono logos, un nome del divino. Da logos deriva il
termine “logica”, come struttura intelligente di pensiero, e da questa la scienza.

Tao, o Dao, in Cina assume il senso di divinità ultima, di coscienza trascendente, di essenza di
vita, esattamente come il termine Dharma o Dhamma in India e Dio in Occidente. Dharma e Dao
implicano entrambi il concetto di legge di equilibrio-armonia ed entrambi sono sinonimi di virtù o
dovere-giustizia-saggezza e di via-sentiero di realizzazione. Ancora più importante da comprendere è
il ruolo inconscio che gli esseri viventi svolgono in questo universo e la loro potenzialità di
risveglio e di evoluzione di consapevolezza fino all’unione con la “radice comune”.

L’essere umano è un’unità multidimensionale

Le grandi filosofie orientali considerano l’essere umano come un’unità complessa, in cui coesistono
differenti piani di esistenza e di esperienza. Questi livelli o “corpi” sono solitamente divisi dal
più grossolano al più sottile. La coscienza pura, Atman, che anima e vivifica l’intera complessità,
resta comunque incontaminata dalle azioni e dalle vicende esterne. Gli esseri umani si differenziano
nella loro evoluzione interiore dal grado della loro identificazione. I più primitivi si
identificano con gli aspetti più materiali del loro essere, poi con gli aspetti istintivi, emotivi,
fino ad arrivare agli uomini colti che si identificano con la loro mente. Gli iniziati sono coloro
che iniziano il processo del distacco, ossia della progressiva disidentificazione con i loro aspetti
o corpi inferiori, dando così inizio, con la pratica della meditazione, all’alchimia della
trasformazione interiore per sviluppare le percezioni superiori della coscienza, e quindi i corpi
superiori spirituali. Vediamo ora gli elementi principali di questa concezione orientale dell’unità
di coscienza.

Atman e Brahman: la coscienza del Sé

La colonna fondamentale della spiritualità orientale è la comprensione che ogni creatura possiede un
Atman, un Sé, una pura coscienza: benché appaia separata, è una con il Brahman o, meglio, è il
Brahman stesso. Essendo il Brahman un’organica unità, infinita e indivisa, ogni suo frammento è una
sua intima parte integrante. L’Atman come coscienza pura si manifesta in ogni creatura con il
fenomeno dell’identità e della vita stessa: è quindi l’espressione puntiforme ossia individualizzata
di una coscienza oceanica che abbraccia l’intero universo in una sola Unità. Il modello Cyber
rappresenta l’analogo concetto di unità di coscienza individuale intimamente legata alla Coscienza
Infinita e non-duale.

E’ fondamentale comprendere che l’Atman non corrisponde al nostro comune senso dell’Io, ossia alla
nostra identità normale, o ego, che viene considerata una costruzione mentale. L’ego, ossia la
personalità, è essenzialmente un’identificazione con il corpo e con i ruoli sociali, ed è
condizionato dai desideri più istintivi e inconsci, come la sopravvivenza, le emozioni di rabbia,
paura, amore, odio. E’ il primo ostacolo da comprendere e da trascendere per iniziare una vera
ricerca spirituale. Ma come arrestare la fortissima illusione dell’ego e aprire la porta
all’esperienza interiore che conduce al Sé, all’Atman? La risposta che danno le tradizioni orientali
non è contenuta in una serie di precetti morali ma in una serie di tecniche psicofisiche atte ad
accelerare la consapevolezza e l’evoluzione della coscienza: le tecniche di meditazione.

Meditazione: la scienza della trasformazione interiore

La meditazione è essenzialmente uno stato di coscienza senza pensieri. I pensieri sono i costituenti
della mente inferiore (Citta) che crea l’ego, il senso di identità materiale separata dal resto del
mondo. Fermando la mente scompare anche il senso di ego e si viene a formare il senso interiore
dell’unità di coscienza: il Jivatman, quello che in psicologia contemporanea viene chiamato il Sé.
La meditazione è uno stato che si ottiene attraverso tecniche spesso elementari come l’osservazione
del respiro o l’ascolto imparziale di tutti i suoni; le ricerche di neurofisiologia della
meditazione condotte in Italia e in India hanno dimostrato che meditando si raggiunge un
particolarissimo stato neurofisiologico, caratterizzato da onde armoniche ad altissima coerenza,
nettamente distinto dagli stati di rilassamento o di concentrazione.

La meditazione appare semplice, ma, all’atto pratico, lo stato di non-mente e quindi di non-ego è
assai difficile da raggiungere. Citta o Manas inferiore, la sostanza mentale, è infatti
caratterizzata da un’incessante attività psichica, per questo venne da molti paragonata ad una
scimmia che salta di ramo in ramo senza posa, senza riuscire a fermare la sua attenzione su un
qualsiasi contenuto per più di pochi istanti.

Per arrivare alla meditazione quindi è spesso necessario iniziare con tecniche di concentrazione,
che aiutano a quietare l’attività psichica e ad entrare in uno stato di coscienza più lento e
sensibile, chiamato contemplazione, da cui poi risulterà più semplice scivolare in uno stato di
vuoto. Mente agitata, concentrazione, contemplazione e meditazione sono tutti gradini per entrare in
contatto con se stessi.

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