Le tre caratteristiche dell’universo secondo il buddhismo

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Le tre caratteristiche dell’universo secondo il buddhismo

del monaco buddista Isi Dhamma
traduzione dal francese di Guido

Tutto ciò che esiste nell’universo è sottoposto a 3 caratteristiche:

– anicca. Ogni cosa è limitata ad una certa durata e, di
conseguenza, destinata a sparire.

– dukkha. Ogni cosa è insoddisfacente. Non vi è nulla di cui
ci si possa fidare, nulla che possa dare una vera felicità.

– anatta. Ogni cosa è sprovvista di un sè. Non esiste
un’entità personale, nulla può venire controllato.

Anche se ce lo dimentichiamo, quando siamo immersi in un momento di
piacere, ognuno di noi è cosciente che l’esistenza è piena di
sofferenze, di noie, di insoddisfazioni di ogni genere e ciò non
finisce mai. Questa caratteristica (dukkha), che è un’evidenza, è
descritta da tutte le scuole di pensiero, in tutti i sistemi
religiosi.

La nozione di impermanenza (anicca) è meno manifesta. Ma è, tuttavia,
sovente insegnata dai sistemi religiosi e filosofici.

Quanto alla natura di assenza di un sè (anatta) è una nozione talmente
nuova, di cui solo Buddha parla. E’, da lungi, il punto più sottile ed
essenziale di ogni conoscenza. E’ la base di ogni comprensione del
dhamma.

– anicca

L’aspetto dell’impermanenza

Anicca è una parola pali, composta da due parti: “nicca” e la
particella privativa “a”. “Nicca” è l’idea di permanenza, di
continuità. Anicca significa l’assenza di continuità, l’assenza di
permanenza. Anicca è una legge universale, che si applica ad ogni
fenomeno dell’universo, ad ogni nostra esperienza sensibile.

Tutto ciò che avviene nel mondo, nelle nostre percerzioni, è destinato
a sparire, così com’è apparso. Ciò che caratterizza la natura
dell’impermanenza, l’aspetto del cambiamento, è giustamente che i
fenomeni sorgono. E’ nel momento in cui un evento si produce che ci
mostra in modo spiccato il suo aspetto di impermanenza, poichè, prima
che apparisse, non era lì; e, di colpo, sorge. C’è stato un
cambiamento, e ciò, in particolar modo quando un fenomeno si presenta.
Successivamente, esso dura per un certo tempo, e, quindi, si dilegua
ineluttabilmente. Se è apparso, è obbligatorio che finisca per
sparire. Ciò vale per ogni cosa, senza nessuna eccezione.

Anicca è una caratteristica comune ad ogni fenomeno, ad ogni realtà
che proviene dalle nostre esperienze sensibili, coscienti.

Di conseguenza, la nostra coscienza si trova in perpetua mutazione ed
ogni nostra esperienza, anche se si tratta di esperienze di
meditazione, di trascendenza, oppure mistiche sono esperienze in
mutamento. Se giungiamo a provare, tramite la meditazione, degli stati
trascendenti, di unificazione, come quelli che ci vengono descritti
nella letteratura spirituale, potremmo immaginare di avere toccato una
sostanza eterna. Una sostanza immutabile, che non sia sottomessa a
tale legge di impermanenza. Ma, è proprio il fatto di avere raggiunto
questa esperienza che mostra chiaramente quanto essa sia soggetta al
mutamento. Perché? Perchè, prima questa consapevolezza non era stata
toccata. Esiste, dunque, qualcosa che inizia, che perviene ad uno
stato di fusione coscienziale, dovuto a diversi esercizi spirituali, o
a diverse meditazioni. Non si tratta, quindi, del rifugio che noi
cerchiamo, di stabilità, di eternità. E, di fatto, questo rifugio non
esiste.

Esistono essenzialmente due categorie di allenamento che noi possiamo
seguire. Vi sono degli allenamenti che entrano nella categoria di
samatha e quelli che appartengono alla categoria che chiamiamo
vipassana.

Vipassana è un termine pali che significa la visione diretta, la
visione superiore. Visione superiore nel senso che essa sopravanza
ogni altra, perchè, appunto, diretta; si tratta di una visione diretta
della realtà.

Cosa è la realtà? La realtà è un fatto ineluttabile, che viene
universalmente verificato e che si applica a tutti i fenomeni. Questo
fatto è triplice:

– Tutti i fenomeni che appaiono debbono scomparire.

– Tutti i fenomeni sono assoggettati e sottomessi alla legge
della non permanenza e del cambiamento anicca.

— Tutti i fenomeni che appaiono durano un certo tempo. Durano
un certo tempo, ma non a lungo. Durano sempre troppo quando sono
insoddisfacenti e mai a lungo quando sono gradevoli.

Perciò posseggono una natura insoddisfacente. Solo la loro presenza è
già fonte di sofferenza, che viene chiamata dukkha. Infine, questi
fenomeni cessano, spariscono, indipendentemente dalla nostra
volontà, dal nostro controllo. Spariscono quando è necessario che
spariscano. Quando le loro cause si esauriscono, i fenomeni si
dissolvono. Questo loro carattere incontrollabile si chiama anatta. Si
tratta dell’assenza di un sè, dell’assenza di controllo, di direttive.

– Lo sviluppo della presenza di spirito

Per sviluppare vipassana bisogna fare quel che Buddha insegna, con il
nome di satipatthana bhavana. Bhavana è l’allenamento. Satipatthana
significa: sati, l’attenzione, la presenza di spirito, la coscienza
(nel senso di “stare attenti”); “patthana”, “upatthana” significa lo
sviluppo, la maturazione. Satipatthana, allora, vuol dire lo
sviluppo, la maturazione, lo stabilirsi della presenza di spirito.
Bhavana è l’allenamento al crescere della presenza di spirito.

Se si seguono i consigli dati da Buddha, per sviluppare la presenza di
spirito, per sviluppare l’attenzione, ecco che, senza che lo si voglia
e senza che lo si possa controllare, anche vipassana si manifesterà.
Per quanto riguarda vipassana in se stesso, non v’è nulla che si possa
fare.

Ci sono delle persone che pretendono di insegnare vipassana. Essi
insegnano degli esercizi che si basano tanto sulla concentrazione,
tanto su di una sorta di investigazione verso ciò che essi chiamano la
realtà. Investigazione nei quattro elementi, nelle posture, nelle
sensazioni. In effetti, questo non è vipassana. Essi credono che
vipassana sia una cosa che si debba fare, che si debba “praticare”; e
che se si compie tale esercizio ci si trova in vipassana e, con
quest’altro, si è in samatha.

Se lo stesso Buddha non ha mai praticamente adoperato il termine
vipassana, questo non è un caso. Egli utilizzava il termine
satipatthana. Il sermone che contiene le istruzioni nelle quali egli
dice ciò che si fa in vipassana, non si chiama il vipassana sutta; non
esiste, d’altronde, alcun sutta che si denomina così. Si chiama il
satipatthana sutta, il discorso sullo stabilirsi dell’attenzione. In
questo discorso, egli non parla di vipassana. Dice solamente in cosa
consiste l’allenamento al satipatthana.

Così, quel che ci interessa non è veramente il vipassana ma il
satipatthana. Se noi ci alleniamo, se seguiamo le istruzioni date da
Buddha per sviluppare la presenza di spirito, la coscienza e
l’attenzione, automaticamente, in un modo del tutto naturale ed
incontrollabile, vipassana si svilupperà. Vipassana è unicamente la
visione diretta che risulta dalla presenza di spirito, e
dell’attenzione. Si tratta, quindi, solo di portare la propria
attenzione sulla realtà.

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